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Prologo
Finisce con Vittorina Luciani l’inchiesta che da Milano a Palermo, da Napoli a Roma, prova a raccontare in quattro puntate altrettante vite da poveri. Non è stato facile trovare le persone giuste e convincerle a raccontare la loro storia, “mettendoci la faccia” che, per una volta, è l’espressione giusta. Grazie a tutte loro e al grandissimo Luigi Narici che ha fatto la maggior parte delle magnifiche foto. E al mio capo Livio Quagliata che, contravvenendo a una lunga tradizione del Venerdì, me l’ha lasciata fare.
VITTORINA, CHE NON ARRIVA NEANCHE ALL’INIZIO DEL MESE
Il pezzo inizia così:
ROMA. C'è chi patisce il ritorno dalle vacanze. Chi il lunedì, ripartenza della settimana lavorativa. Sono problemi da ceto medio, borborigmi per pance borghesi di cui Vittorina Luciani amerebbe potersi lamentare. Per lei il periodo più crudele è l'inizio del mese. Quello in cui la pensione c'è (nel conto PostePay che mi mostra sulla app), ma non si vede (perché «finché non la sbloccano» non la può spendere). Così deve andare alle poste, perché al telefono non rispondono come da prova in vivavoce. Quindi blandire, poi minacciare la direttrice, farsi comunque sangue amaro affinché mandi una mail all'Inps e, dopo un'attesa variabile tra qualche ora al record assoluto di venti giorni, disporre infine del suo sudato diritto. Il perché di questa complicazione sta tutto nel segno meno davanti alla cifra di 26.530 euro del suo conto corrente online. Che, disabituato a saldi in profondo rosso, lì per lì non avevo notato arrivando a pensare che quella schermata fosse una goffa smentita della sua legittima appartenenza a una serie su chi fatica a sbarcare il lunario. Invece certifica l'altezza della montagna di debito che questa settantasettenne ogni mese dovrebbe scalare salvo rimanere sempre al campo base. Anche estinguere i buffi, come dicono a Roma, è un privilegio precluso ai giocatori del campionato di cui ci occupiamo. Che stentano con l'ordinaria amministrazione, figurarsi con quella straordinaria. Sul telefonino, nella colonna accanto, ci sarebbero anche 903 euro col segno più. «Non disponibili» però, perché di quel modesto gruzzoletto 735 sono di pensione da rendere liquidi previo passaggio con l'istituto di previdenza perché quasi un quarto di secolo fa Vittorina aveva fatto l'errore di fidarsi dell'allora marito e firmato carte che non avrebbe dovuto, poi si era illusa di aver saldato il debito vendendo un mini-appartamento a uno strozzino che le aveva pagato 9 mila euro meno del pattuito. Ammanco che, di cartella esattoriale in cartella esattoriale, è lievitato a 47 mila euro, quasi metà dei quali condonati (non per bontà, ma per realismo) dalla società di recupero crediti che oggi tenta infruttuosamente di recuperarne 26 mila e rotti. «Ogni tanto ce provano, magari hai avuto un gratta e vinci fortunato. Ma se succedesse un miracolo li chiamerei subito io per non pensarci più. Se non avessi 'sto fardello, io i miei du spicci me li farei abbastà» dice nello spoglio, freddo e umido salottino della villetta costruita dal padre nel quartiere Alessandrino, tra Tor Sapienza e Tor Spaccata, che accanto un tavolino pieno di carte e bollette ospita un lettino singolo appena rassettato.
Lettino che entra in collisione col suo ricordo più bello. Quel giorno del '98 in cui andò in camera della figlia per chiederle di far sapere al padre che se ne andava per sempre. Lui la tradiva sistematicamente («Amanti, magnaccia: se je racconto pure 'e corna nun finimo più»), la convivenza era diventata insopportabile. Così lei, poco più che quarantenne, riparò per un po' a casa della madre: «Tornai a ballare con le mie amiche, ad andare al mare. E poi cominciai a pulire la merda dell'artri», ovvero fare la badante. Poi l'ex andò da lei per farle firmare garanzie per l'attività di lavorazione del ferro in cui aveva cominciato a impratichirsi anche il figlio: «Se nun lo voi fa' pe' me, fallo pe' lui». La sventurata rispose. Da allora, a differenza dei divaricati destini personali, quelli finanziari si sono intrecciati più che mai. L'unica fortuna, si fa per dire, è che le pensioni sotto i mille euro non sono pignorabili e a metà aprile un'udienza potrebbe cancellare il calvario burocratico cui ogni trenta giorni deve sottoporsi. Mi racconta tutto questo nell'unico tavolino del bar I migliori anni di Viale Alessandrino, a portata di orecchio degli avventori. Un locale così angusto che non era nemmeno censito da Google Maps, motivo per cui avevo proposto il dirimpettaio e più comodo Caffè Bis. Che però, mi ha spiegato, non frequenta perché «tutti i posti in cui dicono "buona giornata", sarò strana, me portano sfiga». Confermando la maldicenza per cui i romani perdonano tutto tranne la gentilezza. Altrui. Perché in fin dei conti la brandina nel soggiorno è proprio per l'ex-marito, mai abbastanza ingiuriato ma ormai acciaccato e quindi ripreso in casa, nonostante tutto. {continua sul Venerdì}
A NEW YORK C’È UN NUOVO MUSEO CHE SI AGGIORNA CON UN CLIC
NEW YORK. Dove una volta sorgeva un enorme Century 21, abbigliamento di marca in stock, ora c'è un museo che propone una fruizione innovativa per l'arte del XXI secolo. Se la precedente linea di business puntava sugli sconti il Mercer Labs fa pagare 52 dollari un biglietto, il che non gli ha precluso di venderne oltre 50 mila in due mesi. Per vedere cosa? Il sottotitolo sul palazzone brutalista a due passi dal World Trade Center recita "museo di arte e tecnologia". A oggi il futuribile spazio è un viaggio multisensoriale nell'universo visuale di Roy Nachum, artista israeliano di notevole successo che, come da proverbiale sogno americano, ha cominciato vendendo sue creazioni per strada nell'East Village per poi conoscere la popstar Rihanna, diventare il suo artista prediletto e realizzare la copertina nominata ai Grammy dell'album Anti. Quindi ha incrociato Michael Cayre, collezionista oltre che multimilionario imprenditore edile, che ha staccato l'assegno da 35 milioni di dollari per realizzare il museo. "Immersivo" è la parola chiave. La prima delle 14 sale che Nachum e sua moglie Maia Pelosini, figlia dell'artista italiano Paolo che prossimamente esporrà qui, mi mostrano è un parallelepipedo con pareti alte 12 metri dove 26 videoproiettori ad altissima risoluzione mandano installazioni dell'artista. Tra Ready Player One di Spielberg e The Matrix Resurrections, ma quasi di più. Segue la «sala più grande al mondo con suono 4d» dove ti invitano a sdraiarti a occhi chiusi per immergerti in una specie di giungla urbana. La Dragon Room, con gli ologrammi creati dai suoi oltre 500 mila filamenti Led, è quella più instagrammata. Altrove un braccio robot che sembra preso da Dune fornisce una metafora della vita disegnando sulla sabbia per cancellare e ricominciare da capo. «Considera questo spazio come una tela bianca» mi dice Nachum «dove, dopo il lancio ufficiale, altri artisti potranno esibirsi. Col software possiamo cambiare tutti i contenuti da un momento all'altro». Il viaggio in Nachumland è solo un assaggio. Poi l'impressionante contenitore immersivo ospiterà, oltre all'arte, eventi di moda, cinema e altro.
Epilogo
Josep Borrell, capo della diplomazia Ue, parlando allo allo European Humanitarian Forum 2024 (segnalato su X da Paolo Mossetti):
Vengo da Washington e oso dire che - ebbene sì - Israele sta provocando la carestia. "Oh, come fai a dirlo? Che prove hai?" Suvvia, che prove ho? Centinaia di camion sono in attesa di entrare [a Gaza], ed è assolutamente necessario far funzionare i punti di passaggio in modo efficace e aprire altri punti di passaggio. È solo una questione di volontà politica, Israele deve farlo. Non è una questione di logistica. Non è perché le Nazioni Unite non hanno fornito un sostegno sufficiente. Il supporto è lì, in attesa. I camion sono fermi, la gente muore mentre i valichi di terra sono artificialmente chiusi. E sì, è bene considerare il supporto via mare o via aerea, ma dobbiamo ricordarci che dobbiamo farlo perché il modo naturale di fornire supporto è stato chiuso, chiuso artificialmente...
Mandiamo i paracadute in un posto che dista un'ora di macchina dall'aeroporto successivo. Perché non li mandiamo all'aeroporto? Perché non ce lo permettono, e questo è inaccettabile. La fame è usata come arma di guerra. Sì, la fame è usata come arma di guerra. Diciamo così...
Prima della guerra Gaza era una grande prigione a cielo aperto, oggi è un grande cimitero a cielo aperto, anche per quello che riguarda il rispetto delle regole internazionali... È arrivato il momento di fare qualcosa.