#136 Vita da poveri (a Palermo)
E poi: l'amara storia dello zucchero; ChatGPT è già superata?; Lundini fa molto ridere
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“MI SONO LIBERATA (DAL MIO EX) GRAZIE AL REDDITO”
Seconda puntata della serie “vite da poveri”. La prima a Milano, stavolta da Palermo. L’inizio del pezzo:
PALERMO. Il suo viaggio da sogno resta il lago di Braies, in Trentino. Uno specchio d’acqua cristallina. Montagne disneyane come sfondo. Quanta pace! Ne aveva sentito parlare sui libri di scuola e molto tempo dopo il ricordo gliel’ha rinfrescato A un passo dal cielo, la serie tv con Terence Hill. Per il resto quella di Salvina L. è un’immaginazione turistica a scartamento ridotto, quasi a chilometro zero rispetto a piazza della Noce, a due passi dal quartiere Zisa di Palermo, dove vive. Tante estati fa è andata a Menfi, un’altra volta a Sant’Agata di Militello, un’altra ancora a Custonaci. In camper, il cui acquisto segnò una delle tante piccole grandeur del marito, con i figli. Fortuna che la Sicilia è tutta bella, ma un po’ meno se resta tutto su di te il ruolo di frenare qualsiasi slancio dei ragazzi e contare ogni euro. “Il mondo come volontà e amministrazione”, parafrasando Schopenhauer. Ruolo che le valse allora il biasimo stereo dell’altro adulto e dei tre minorenni. Fino a quando la libertà arriva, ormai cinque anni fa, via decreto legge: «Grazie al nostro presidente del consiglio ho trovato il coraggio, dopo tante umiliazioni, di lasciare mio marito. Il reddito di cittadinanza mi ha ridato la vita!». Giuseppe Conte, intende: per lei c’è solo un Presidente. Quello che le ha dato la spinta economica per spiccare un salto altrimenti fuori portata. Perché il primo lusso che i poveri sentono di non potersi permettere è proprio la separazione, dimezzatrice di sostanze già risicate. «Chi ha» sentenzia questa neo-cinquantenne tanto mite quanto saggia «non capirà mai chi non ha. Se ci sono dei mangiafranchi, gente che se ne approfitta, mandateli a pulire la spiaggia. Ma io, che pure ho provato tutti i concorsi e faccio tutte le domande, senza reddito che fine mi aspetta? O una casa famiglia o buttarmi dal monte Pellegrino». È un modo di dire, perché la fede la salva, ma l’eresia dà un’idea molto plastica della sua condizione.
SE TRE FIGLI VI SEMBRAN POCHI
Il primo giorno ci vediamo nei locali del centro Tau, che da trentasei anni aiuta i giovani della Zisa e di Danisinni, il confinante quartiere dove 6-7 ragazzi su 10 ancora si fermano alla terza media. Non se la sente di farmi entrare a casa sua. La scusa è il disordine, la verità è che i figli non apprezzerebbero ed è lo stesso motivo per cui non vuole rivelare il cognome ed è stato così difficile trovare persone disposte a farsi fotografare per questa serie. Figli a partire dal secondo, quindicenne all’istituto industriale, unico maschio rimasto in famiglia. Con la terza che di anni ne ha quattordici e fa il liceo delle scienze umane mentre la prima ha finito l’istituto turistico, voleva girare il mondo come hostess ma poi ha conosciuto un pescatore di Terrasini, si è presa «un anno sabbatico» e la madre è terrorizzata che faccia la fine sua, di sposa bambina. Salvina, che ha una sorella in Toscana e un fratello a Milano, è nata in una famiglia «con una situazione economica non rosea», padre muratore ma «con un vizio di troppo» (il gioco) e madre che faceva le pulizie nelle case. Alla sua educazione però si appassiona un sacerdote che le compra i libri, la porta in gita ad Assisi, la assiste fino alla maturità magistrale quando ancora ha la «grande aspirazione di insegnare». Poi conosce un giovane meccanico, si sposano, resta incinta e si trasferiscono a Carini, dove lui ha una casetta ereditata e dove trascorreranno vent’anni di incomprensioni crescenti. «Maschilista, autoritario» lo definisce, ma non abbastanza da chiamare i carabinieri. Così, quando lei si rivolge allo psicologo del consultorio, questo le dice – Sicilia, oggi – «ma se non la picchia dove vuole andare?». È così concentrata sui figli che trascura la salute, cura in ritardo un problema alla tiroide, prende peso. {continua sul Venerdì}
L’AMARA STORIA CAPITALISTICA DELLO ZUCCHERO
Non so come dal numero della settimana scorsa mi ero dimenticato di segnalare questo pezzo. Rimedio in integrale:
In tempi di ideologie deboli vanno forte le grandi metafore. Un filone storico affascinante, che verosimilmente si porta bene in libreria, è quello che prova a spiegare fenomeni di lunga durata a partire da alcune merci simbolo. Così una volta è il sale, secondo il libro omonimo del divulgatore Mark Kurlansky nel 2003, a diventare il reagente per capire la storia del mondo. D'altronde lo stesso autore, cinque anni prima, aveva dato alle stampe Merluzzo: biografia del pesce che ha cambiato il mondo. Per non parlare di L'impero del cotone di Sven Beckert (2016) su come quel materiale abbia plasmato la storia del capitalismo. Tema peraltro ripreso nella magnifica Trilogia di Lehman che il pre-televisivo Stefano Massini ha meritatamente portato nei migliori teatri del mondo. Anche lo zucchero era stato già usato, dallo storico Sidney W. Mintz nel 1985, come materia prima unificante di una storia universale. A rinfrescare l'impresa ci prova oggi con Il mondo dello zucchero. Come le cose dolci hanno trasformato la nostra salute e il pianeta (Einaudi) l'olandese Ulbe Bosma, che insegna storia sociale internazionale comparata alla Vrije Universiteit di Amsterdam e che abbiamo sentito via Zoom.
Ormai è un genere quello di cose che spiegano il mondo, in questo caso lo specifico sistema sociale ed economico che va col nome di capitalismo. Perché lo zucchero dovrebbe essere più eloquente di altre merci?
«Direi per tre ordini di motivi. Il primo è che intorno a esso, a partire dal XIII secolo, in Asia è nata un'industria, e dinamiche capitalistiche, ben prima di quelle che generalmente vengono datate dai miei colleghi intorno al XVI-XVII. Quando Marco Polo va in Cina, per essere più chiari, trova già una fiorente industria dello zucchero. Lo stesso accade in India nel medesimo periodo. Il secondo è che quasi due terzi del totale degli schiavi africani impiegati nel nuovo mondo hanno lavorato proprio nell'industria dello zucchero. C'è ampia letteratura sul fatto che l'avvento del capitalismo, inteso come commodification, la trasformazione di un oggetto in una merce, è un processo cominciato proprio nella regione caraibica. Infine c'è il terzo argomento, che io considero particolarmente interessante, ovvero che lo zucchero è stato la merce più scambiata internazionalmente nel XIX secolo. Un primato che, nel secolo successivo, ha lasciato al petrolio».
Nella sua dettagliatissima ricostruzione sui primi commerci di zucchero a un certo punto spunta anche l'Italia, anzi la Sicilia per essere precisi…
«L'incontro con lo zucchero era già iniziato con gli arabi ma è sotto Federico Barbarossa, a cui comprensibilmente l'isola piaceva assai più che la Germania, che si importano molti lavoratori siriani per dare l'abbrivio all'industria siciliana. Una modalità, questa di attrarre manodopera straniera per compiti pesanti, che è molto moderna. Anche se i papi di allora non erano contenti di aver a che fare con dei musulmani, gli scambi – anche di tecnologie – andarono avanti a lungo. Ricapitolando: il capitale veniva da fuori. Idem la forza lavoro. E anche l'expertise».
Lei chiarisce molto bene l'esistenza, in questa storia, di due sottoinsiemi: la canna da zucchero e la barbabietola. Che differenze ci sono, dal punto di vista della produzione?
«La prima esisteva solo in climi tropicali e subtropicali, può essere coltivata anche da piccole aziende mentre la seconda cresce in regioni temperate e serve una vera industria, con tanta chimica ed energia, per raffinarla. Entrambe sono molto intensive quanto a sfruttamento della forza lavoro, con dita perse durante il taglio delle canne, caldo infernale e altre condizioni tremende»
Tanto tremende che c'erano operai disperati al punto di immolarsi buttandosi dentro le grandi vasche di raffinamento del succo dello zucchero per infliggere un danno ai padroni. Un deciso salto di qualità dal luddismo al kamikaze, non le sembra?
«Solo apparentemente perché, per il datore di lavoro, lo schiavo era parificato a una macchina, quindi alla sua dotazione di capitale. Suicidarsi quindi era l'estrema forma di boicottaggio. Le donne, dal conto loro, talvolta compivano degli aborti per non fornire altra manovalanza all'ìindustriale. Erano forme di resistenza estreme».
Erano peggiori lì o nella raccolta di tabacco o di cotone?
«I padroni erano crudeli dappertutto. Lo stesso vale per le malattie. Ma nel taglio delle canne la disidratazione era ed è molto comune. Oltre ai topi e ai serpenti che sguazzano dove queste si trovavano. Aggiungo che i periodi d'oro del lavoro nelle piantagioni in America coincisero con varie guerre che rendevano, se possibile, il tutto ancora più intollerabilmente rischioso».
Arrivando ai giorni nostri lei scrive, citando un dato relativamente recente, che i governi continuano a sussidiare l'industria dello zucchero al ritmo di 50 miliardi di dollari l'anno nonostante la consapevolezza che quella merce abbia serie effetti collaterali sulla salute delle persone e dovrebbe essere piuttosto ridotta: ottime lobby o c'è dell'altro?
«Quando nacque l'industria della barbabietola, ai tempi di Napoleone, divenne subito un settore economicamente molto importante per i coltivatori e tutti i governi fecero del loro meglio per proteggerlo. Come risultato si assistette a una grande sovraproduzione. Ciò spinse a mettere in campo varie campagne istituzionali per incentivarne il consumo. Ma anche a trovare impieghi alternativi, tipo nella preparazione di altri alimenti, a partire dalle marmellate. Resta un'industria che alla base ha moltissimi coltivatori ma in cima pochissime, generalmente una o due, grandi imprese per nazione. Quindi in grado di far pressione sui governi affinché i loro interessi siano difesi dalla concorrenza straniera».
È a questo proposito che cita alcune vittoriose intercessioni di Donald Rumsfeld, nel passaggio da un suo ruolo manageriale nel settore dei dolcificanti a quello di membro del governo?
«Quella è un'altra storia. La Searle, di cui Rumsfeld era presidente, produceva aspartame. Dopo aver scoperto che aveva manipolato i dati per ottenerla la Food and drug administration le revocò la licenza. Fin quando Rumsfeld divenne membro del transition team di Reagana e abolì il bando, poi comunque largamente ridimensionato dalla scienza, nonostante la solitaria resistenza del ricercatore italiano Morando Soffritti».
La nuova vera bestia nera del settore sembra piuttosto lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio. Una decina d'anni fa avevo visto Fed Up, un documentario che qualcuno aveva ribattezzato il corrispettivo di Una verità scomoda per gli alimenti dolci, che ne svelava l'ubiquità nei cibi ultra-processati…
«Non sono un biologo ma posso dire che è un problema più degli americani che nostro perché è stato subito bloccato da Bruxelles. E la ragione, secondo la mia sensazione, è che l'industria della barbabietola abbia detto "no no no, qui non passa altrimenti ci rovina". Lo stesso vale un po' per l'offensiva nei confronti dei dolcificanti artificiali. Più economia e politica che preoccupazioni sanitarie».
Però non c'è bisogno di essere cospirativi per constatare che l'epidemia di obesità che affligge il primo mondo, a partire dagli Stati uniti dove Trump, non esattamente un marginale, si vantava di bere dodici lattine di Coca Cola al giorno, quell'epidemia dicevamo abbia pochissimi gradi di separazione da un consumo smodato di zuccheri, no?
«Ma certo, lo dico anche nel libro. È un'emergenza che abbiamo creato insieme. Inutile dare tutta la colpa all'industria dello zucchero o ai singoli dal momento che, anche se volessero evitarlo sarebbe molto difficile dal momento che lo zucchero si trova ormai un po' dappertutto. Quindi serve una regolamentazione statale. Come sta succedendo, ad esempio, in Messico. Erano così disperati per i numeri dell'obesità tra i bambini, che ormai prendono la Coca Cola a colazione al posto dell'acqua, da applicare tasse sulle bevande zuccherate. Che stanno aiutando a limitarne il consumo. Visto che funziona potremmo seguirne l'esempio».
CHATGPT, APPENA NATA E GIÀ SUPERATA?
L’ultima Galapagos:
"La festa appena cominciata è già finita" cantava Sergio Endrigo nella splendida Canzone per te. Potrebbe diventare un Requiem passatista alla parabola di ChatGPT se diamo credito a una manciata di titoli di rispettabili fonti tecnologiche di quest'ultima settimana. "GPT-4 is finished?" si chiede infatti The Deep View, una newsletter di intelligenza artificiale tra le più seguite. Mentre AI Tool Report evita anche il punto interrogativo: "Anthropic’s new AI chatbot is better than ChatGPT4". Per finire con la mailing list di Shelly Palmer, popolare tecnologo americano, che riassume il tutto recuperando la formula dubitativa: "Is Claude 3 the ChatGPT Killer?" Di cosa stanno parlando? Dell'ultima versione di Claude, l'ia dell'azienda dei fratelli Amodei, due italoamericani fuoriusciti da OpenAI, che dichiara di aver raggiunto capacità «quasi umane». Soprattutto il modello Opus farebbe meglio di ChatGPT-4 su ben 10 benchmark tra cui MMLU (la conoscenza di uno con una laurea breve), GSM8K (competenze matematiche), HumanEval (programmazione) e HellaSwag (cultura generale). Vale la pena ricordare che ChatGPT ha un anno e tre mesi di vita e, da quando è venuta al mondo, chi scrive di tecnologia non parla praticamente d'altro. Quella sulle capacità «quasi umane» mi sembra la classica sparata autopromozionale. Ma fa impressione che, in una serie di domini specifici, uno dei vari inseguitori sembri già aver imboccato la corsia di sorpasso. Quanto a me, sin qui ho provato la versione free di Claude 3. Chiedendole a quale canzone apparteneva la frase con cui si apre questa rubrica. Non lo sapeva. Ma mi ha proposto un ritornello simile «della celebre canzone "Siamo soli" di Vasco Rossi, che recita: "La nostra storia appena cominciata è già finita, siamo soli"». Peccato che in "Siamo soli" quel ritornello non ci sia proprio. Intanto Nvidia, che produce i chip per l'ia, ha reso pubblico il suo "Chat with RTX" di cui dicono un gran bene. E che segna un nuovo record nella già affollata classifica di nomi brutti per l'ia.
I “NEURONI SPECCHIO” IMPAZZITI DI LUNDINI
Dalla newsletter del Venerdì:
La scena che non riesco a togliermi dalla testa è quando Valerio Lundini, al cospetto di un giovanotto rimasto in carrozzina per un incidente di moto, tutto serio si alza il pantalone sul polpaccio e gli fa vedere un'impercettebile cicatrice che anche lui, tempo addietro, si sarebbe fatto in motorino. Sono "neuroni specchio" impazziti quelli che il destabilizzante autore di "Una pezza di Lundini" mette in campo in "Faccende complicate", la nuova serie su RaiPlay. Dieci puntate per altrettante inchieste surreal-giornalistiche, in cui si occupa della difficoltà di trovare casa a Napoli se sei nero (facendo notare che per una volta la pista non è il razzismo anti-meridionali). Di come diventare influencer (c'entra un tatuaggio sulla testa che, lasciando di stucco lo spettatore, l'improbabile candidato accetta di farsi). Di un viaggio tra paninari attempati e altri sopravvissuti agli anni 80 e altre vicende semiserie. Si ride parecchio e dio sa quanto ce ne sia bisogno.
Ottimo.
Epilogo
A Gaza hanno superato i 30 mila morti, di cui i primi accertati per fame. L’America costruisce un porto per gli aiuti umanitari ma blocca la risoluzione Onu sul cessate il fuoco. Il massacro non si ferma.