#88 Nell'ultimo fortino del Pd
A Fabbrico, dove ancora i democratici esistono; a Brescia, dove il sindaco vince; a Sant'Anna, dove si sono dimenticati le stragi; a Lucca, dove Casapound la votano anche professionisti di sinistra
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Prologo
Gran dibattito, cum psicodramma, sul futuro del Pd, se di futuro si tratterà. Ma perché non andare a sentire cosa ne pensano quelli dove il Pd ancora tiene?
A FABBRICO, DOVE ANCORA IL PD RESISTE
Il comune dove alle ultime catastrofiche elezioni il Pd ha preso di più è Fabbrico, in provincia di Reggio Emilia. Trentasette per cento contro il 66 di preferenze del Pci (1979) e il 55 dei Ds vent'anni dopo. Ci sono andato e ho partecipato a un incontro del loro circolo. Il pezzo, integrale sul Venerdì e qui, inizia così:
FABBRICO (Reggio Emilia). «Agh vôl sol di matt», ci vogliono giusto dei matti, aveva commentato Germano Nicolini, il comandante Diavolo, riguardo la mitica "battaglia partigiana" del 27 febbraio 1945 in cui lui e tanti altri fabbricesi avevano affrontato, per la prima e unica volta in campo aperto, i repubblichini. Però talvolta i matti vincono ed entrano nella leggenda. La battaglia per conquistare il Pd oggi e fermarne il declino domani non si annuncia meno temeraria. E siccome Fabbrico è anche il comune italiano dove, col 37 per cento, il partito democratico è andato meglio nelle ultime, rovinose elezioni, siamo venuti qui per chiedere agli ardimentosi iscritti del circolo locale da dove, secondo loro, dovrebbe ripartire.
Seimilasettecento abitanti, 800 dei quali lavorano direttamente per la Landini, che da quasi centoquarant'anni produce trattori, e oltre 1200 nell'indotto. A mezz'ora da Reggio Emilia e a cinque minuti da Novellara, dove gli indiani rigovernano le mucche i cui bisogni sono la colonna sonora olfattiva di queste latitudini. Bassa reggiana, case basse, strade piene di camion di giorno e deserte di notte. Giovedì è giorno di direttivo nella sede piddina dietro al municipio. Dei venti componenti su settanta iscritti il segretario dimissionario Luca Parmiggiani, operaio poi sindacalista Fiom quindi ex-sindaco, ne ha messi insieme una dozzina. A giudicare dai numeri su scala nazionale molti errori sono stati commessi: quali sono i più gravi, secondo voi, e come si fa a non ripeterli? Dante, dirigente sessantenne, rompe il ghiaccio. Ma inizia dall'évo eroico in cui 3500 volontari si erano messi a costruire il tetto del teatro cittadino, poi rivendica ininterrotte giunte di sinistra dal dopoguerra (meglio che in Toscana dove molte dighe non han tenuto, meglio di tutti), mentre al partito imputa una «tiepidezza verso il mondo del lavoro, e una vicinanza più ai datori che ai lavoratori». Oltre a un correntismo sfrenato di cui Dario Franceschini sarebbe l'epitome più lampante. Insomma gran classici come antipasto.
PERCHÉ NON CANDIDARE IL SINDACO DI BRESCIA?
Nel 2018 ero andato, nella stessa logica – imparare da chi ne sa – a Brescia dove mentre il Pd perdeva altrove continuava a vincere lì. Segue incipit (qui il pezzo integrale).
BRESCIA. L'unico errore che ha fatto il Pd bresciano riguarda le sedie. Ne servivano almeno il doppio per accomodare i cinquecento venuti ad assistere all'incontro notturno al Parco Gallo tra Paolo Gentiloni ed Emilio Del Bono, sindaco piddino al secondo mandato confermato al primo turno con quasi il 54 per cento. Adesso che tutto è andato per il verso giusto anche i big nazionali, tenuti tassativamente a distanza durante la campagna, possono farsi vedere. Per imparare come si vince. Nonostante l'immigrazione tra le più alte d'Italia, che sfiora il 20 per cento in città. Quando a Pisa è bastato il 13 per mandare in orbita il candidato leghista che martellava ossessivo su una sicurezza sinceramente mai stata in pericolo. «Se sottovalutiamo ciò che è successo corriamo dei rischi» dice l'ex premier, come se la catastrofe non fosse già avvenuta. Ricorda che quello populista è «un vento internazionale» e si ripromette di «capire le ragioni del successo altrui». L'ex Dc Del Bono ascolta, sorride («Sei il Gianni Morandi della politica, non odiabile!») ma poi dice «ok il vento populista, ma ne esiste anche un altro» basta avere «proposte alternative». Dice anche che la sinistra futura dovrebbe rispecchiare «più operai, meno Marchionne» e smettere di «disintermediare a colpi di tweet». Dice tutto questo dribblando, come fa il suo ospite romano, qualsiasi riferimento esplicito a nomi e cognomi. Ma solo un marziano, paracadutato qui come certi candidati nelle liste, faticherebbe a cogliere il riferimento. Esiste dunque una ricetta bresciana? Se sì, quale? E soprattutto: è esportabile?
L'indomani si tiene il primo consiglio della giunta rinnovata. Palazzo della Loggia, che nella sontuosa Sala vanvitelliana mostra fiero le cannonate dell'assedio austriaco, è nel pieno del suo splendore. C'è da sbrigare un po' di formalità democratiche. Paola Vilardi, la candidata sconfitta del centrodestra, prova a rintuzzare gli entusiasmi: «Vittoria frutto dell'astensione». Più memorabile Gianfranco Acri, di Fratelli d'Italia, che ricorda che «l'italianità è la prima regola, piaccia o non piaccia, e non cose colorate in giro». Le «cose», a dissipare l'illusione di un eden di solidarietà, sarebbero un bresciano su cinque. Però, nonostante che un quarto degli elettori abbia votato Lega, il raglio xenofobo qui esce attutito. «Da un sondaggio Ipsos prima del voto» mi spiega Davide Bacca del Giornale di Brescia «immigrazione e criminalità vengono più in basso della media italiana delle preoccupazioni (15 contro 17, 14 contro 20 per cento) mentre qui urgono la manutenzione delle strada (29 a 12), smaltimento (7 a 2) e raccolta rifiuti (5 a 1)». Che poi strade e aiuole siano immacolate come in Svizzera è un altro discorso. Ultimo dato rilevante riguarda il lavoro: chiodo fisso del 63 per cento degli italiani contro il 21 dei bresciani. Fuoco, fuochino. Ci avviciniamo a un pezzo di spiegazione. Me lo dicono, in coro davanti a un piatto di casoncelli, l'ex capo della Camera del lavoro Damiano Galletti e la sua successora Silvia Spera: «Senza lavoro salta la coesione sociale». E qui c'è, ci sono entrambi. «Anche tra i nostri iscritti c'è chi vota Lega» ammette Spera, «ma quando la giunta di destra provò a limitare i bonus bebé solo agli italiani e a espellere i sinti dai campi facemmo ricorso per discriminazione. Rischiammo la spaccatura interna, ma non si vince senza rischiare». Qui è sport diffuso. Come il vescovo che poche settimane fa è andato in visita alla moschea. O l'Associazione industriali che ha ribadito che «gli immigrati servono». O, per dirla con le parole di Franco Marelli, l'esemplare amministratore delegato di una fonderia nella vicina Lumezzane, «senza di loro non avrei trovato nessuno per i turni notturni del fine settimana». Già. L'ovvietà che spesso viene usata come un randello contro la sinistra radical chic che in genere la pronuncia da una distanza di sicurezza qui è patrimonio comune. Fonderie, edilizia, badanti: senza immigrati Brescia sarebbe al tracollo.
Del declino del Pd si era già occupato LSDC #76
ANCHE A SANT’ANNA PREFERISCONO LA DESTRA
Mentre il Pd centrale trascura i propri campioni locali, continua a perdere anche nei luoghi più mitologici, come quelli dove sono avvenute le stragi naziste che avrebbero dovuto per sempre vaccinare quegli abitanti da derive a destra. E invece…
SANT’ANNA DI STAZZEMA. Cinquecentosessanta morti, di cui una quantità di bambini e donne incinte. Molti dei quali trucidati davanti alla chiesa la cui campana ora rintocca mezzogiorno. Salendo una dozzina di gradini, alla sua destra, si sale al Museo della resistenza che, alle ultime elezioni, si è sdoppiato come seggio. Quindi anche ammesso che un elettore terribilmente sbadato si fosse dimenticato di uno dei peggiori eccidi nazifascisti della nostra storia sarebbe stato impossibile ignorare la cronistoria, le foto in bianco e nero e l’immane bilancio di sangue testimoniati sulle pareti dei locali dove erano allestite le urne. Eppure anche qui Fratelli d’Italia, che nel simbolo custodisce la fiamma di Almirante, ha vinto. Anzi stravinto. Primo partito, prendendo più di due volte i voti del Pd. E segnando un decoupling che non ha che fare coi prezzi del gas e dell’energia, di cui pure molto si parla e che non è del tutto estraneo al risultato elettorale, ma quello definitivo tra simboli e piano di realtà. Gli eredi dei vinti della guerra sono i vincitori di oggi. «E adesso fateli lavorare!» come ha intimato uno dei pochi che ha avuto il coraggio di rivendicare il voto a destra proprio in via Innocenzo Lazzeri, «medaglia d’oro al valor civile» come recita la targa, il prete che offrì la sua vita per salvare quella dei santannini rastrellati nello spiazzo davanti alla sua parrocchia. Invano.
LUCCA, PRIMA BIANCA POI NERA
Mentre, poco lontano da lì, la diga di Lucca era già franata. Ed ex-elettori di sinistra hanno votato, senza imbarazzo, gli eredi di Casapound.
LUCCA. A domanda di Aldo Grandi, autore di una biografia di Almirante, di una fatwa contro la salute della Boldrini e direttore di La gazzetta di Lucca, il neo-assessore Fabio Barsanti rispondeva di essere stato con CasaPound a Milano per festeggiare i Fasci di combattimento fondati da Mussolini cento anni prima. "Allora hanno ragione quando dicono che lei è, fondamentalmente, fascista?": "Non l'ho mai negato". "La legislazione razziale?": "Un errore". "La Repubblica di Salò?": "Un onore". E via conversando di quando ce ne vollero venti di sinistra per picchiare lui da solo. L'intervista, impeccabilmente titolata "Fabio Barsanti, fascista senza se e senza ma" è dell'8 aprile 2019 ma non si trova più sul sito che la ospitava. Verosimilmente tolta per non gettare un'ombra nostalgica sulle ambizioni istituzionali del fondatore di CasaPound nella cittadina toscana.
Un tempo famosa per essere la mosca bianca Dc in terra di comunisti, oggi ha aggiornato l'anomalia virando sul nero. Al secondo turno del 26 giugno scorso, infatti, i pochi andati alle urne (4 su 10) hanno mandato al governo della città, con una maggioranza risicata (51 per cento), Mario Pardini, ex presidente della partecipata che gestisce Lucca Comics. Con il cospicuo supporto (la sue liste hanno preso il 9,5 per cento, solo un punto in meno di quella del sindaco) del neofascista Barsanti. Che, a differenza di cinque anni fa, non si è presentato sotto le insegne di CasaPound (che pure, con l'8 per cento, segnò il record nazionale) ma con quelle di Difendere Lucca. Difenderla da chi Barsanti non me l'ha voluto dire. Né ha voluto parlarmi della sua visione del mondo. Un'occasione persa, per capire com'è stato possibile che pezzi di società civile di sinistra, Cinquestelle e un sindaco in quota Pd abbiano tranquillamente appoggiato un fan del Ventennio. E, soprattutto, se il risultato è frutto di un peculiarissimo cortocircuito locale o si tratti invece di un esperimento di sdoganamento estremo - l'ultima volta che ho controllato avevamo pur sempre una Costituzione antifascista - che potrebbe fare scuola su scala nazionale.
ARRIVANO I DRONI SMINATORI
Ecco l’ultima Galapagos:
Finalmente un uso veramente utile per i droni: scoprire dove sono le mine antiuomo. Succede in Angola, dove la ong britannica Halo li usa con successo a questo scopo. Montandoci sopra dei sensori termici che "sentono" le discrepanze di temperatura nel terreno a seconda che ci siano seppellite mine, con i loro componenti metallici, o no. L'attività di sminamento da anni fa lentissimi progressi. E sebbene l'Angola sia in pace da un ventennio ancora vanta il poco invidiabile primato di ospitare almeno mille mine inesplose. Di questo passo ne servirebbero almeno altri venti per liberarsi da questa mostruosa eredità bellica. Invece droni con i sensori termici o con i Lidar (acronimo di Light detection and ranging, la stessa tecnologia usata dalle macchine senza pilota e dagli aspirapolvere robot) velocizzano i tempi di 2, 3 e anche 4 volte. In verità anche semplici macchine per la raccolta di patate possono aiutare per sminare. Anche se, l'ultimo pezzo della procedura, è sempre in carico agli umani, con bastoni di legno per segnalarne la posizione e pale di metallo per dissotterarle. Piccola nota autobiografica: nel 2006 il rubrichista fece la sua esperienza con le cluster bombs israeliane in Libano. Dietro agli sminatori, anche allora britannici, su un campo che ne era lastricato. Una cosa non divertente che non farò mai più (sotto la cronaca di allora). L'arrivo dei robot, in questo caso volanti, per una volta non potrebbe essere più benvenuto.
LE CLUSTER BOMB DI SIDONE
Ecco il pezzo, agosto 2006:
Le bombe, in Libano, crescono sugli alberi. A Majdel Sellem, come in tanti altri villaggi del sud, le cluster bombs penzolano dai rami come il più velenoso dei frutti. E' il nastro sulla coda, quella specie di paracadute che avrebbe dovuto farle cadere dritte e scoppiare, ad impigliarle tra le chiome di olivi, peschi e aranci. Ma basterà un vento più forte o la raccolta imminente a farle cadere e chi starà sotto non avrà più occasione di raccontarlo. Qui la guerra guerreggiata è finita ma quella differita prosegue con una media di 3-4 vittime al giorno tra morti e feriti. Bambini e agricoltori, per di più, che giocano o lavorano nella campagna infestata da ordigni non esplosi e diventati ormai mine. Oltre un milione solo quelle lanciate dall'artiglieria. Altrettante, forse, quelle sganciate dall'aeronautica. Un <lascito duraturo> ha commentato amaramente David Shearer, il coordinatore umanitario Onu. Che darà il meglio di sé in queste settimane quando, dovendo scegliere tra il rischio di saltare per aria e quello di morire di fame, molti coltivatori si riverseranno nei campi. Le "bombe a grappolo" sono submunizioni contenute all'interno di un missile che le sprigiona dappertutto. Sebbene non bandite esplicitamente dal diritto internazionale, quando vengono usate sulla popolazione civile rientrano nell'<uso indiscriminato> di armi proibito dalla Convenzione di Ginevra. L'esercito israeliano ne ha lanciate il 90 per cento negli ultimi tre giorni di guerra, quando l'accordo politico sul cessate-il-fuoco era ormai raggiunto. <E' impossibile per me capirne la logica> ha detto ancora Shearer, definendo <immorale> un comportamento del genere. Perché se l'uso di queste armi "sporche" non è una novità, qui le cose sono andate peggio che in passato. Intanto per un "tasso di fallimento" senza precedenti. Stando alla teoria della industrie che le producono la quota di non esplose dovrebbe essere del 2-3%. Che in pratica diventa il 15-20. Ma in questo conflitto si sono toccate punte del 40. Che hanno trasformato il sud del paese in un'ininterrotta piantagione di mine. <Le ragioni possono essere varie - spiega Dalya Farran, portavoce del Mine Action Coordination Center -: la natura del terreno più soffice che altrove (che nell'impatto non innesca il detonatore, ndr), il fatto che erano vecchie e quindi più difettose oppure l'esser state sganciate a bassa quota non consentendone il caricamento>. A Tiro questa agenzia delle Nazioni Unite era ancora alle prese con le cluster bomb della guerra del '96. Dal 2002 al 2004, grazie ai finanziamenti dei "cugini" ricchi degli Emirati arabi uniti, gli sminatori erano riusciti a neutralizzare 65 mila bombe su circa 400 mila. Poi, come dicono, è piovuto di nuovo sul bagnato. Gli sminatori, un centinaio, sono privati a contratto. Il britannico Simon Lovell, dopo 25 anni nella marina di Sua Maestà, è il capo-team della Bactec. Questa volta l'hanno chiamato per bonificare il giardino di una casa. Shirin Raida, la moglie un costruttore edile oggi senza lavoro, e suo figlio Ali di due anni ci sono passati tante volte prima di accorgersi dei cilindri sospetti. In tre ore la squadra di Lovel ne trova quattro, che si confondono tra terriccio e sterpaglie. Dice: <Può bastare un nulla per farle saltare ed è importante intervenire alla svelta perché la pioggia o l'irrigazione potrebbe sommergere tutto di fango e rendere la ricerca ancora più difficile>. Molti contadini, addestrati da altre guerre, provano a fare da soli. C'è anche chi si offre, per 1 o 2 dollari a munizione, come sminatore dilettante. Nel migliore dei casi ci rimettono una mano o una gamba. L'esplosione può essere letale in un raggio di 10-20 metri. In un mese sono morte 15 persone e 83 sono state ferite. Ma il bollettino viene aggiornato quotidianamente sul sito del Macc. Per procedere più alla svelta nella bonifica buone mappe sono fondamentali. Ma mentre l'esercito israeliano aveva infine fornito quelle precedenti al ritiro del 2000, questa volta ha offerto solo topografie tanto incomplete da risultare inutili. <Non c'è una legenda di quali munizioni sono state usate contro quali obiettivi e così non ci servono a niente> lamenta Farran. Con il Washington Post il suo capo, Chris Clark, si spinge oltre: <Ciò cui abbiamo assistito sono bombardamenti sopra bombardamenti sopra bombardamenti ancora. Come se si sparasse su un uomo già morto per 20 volte>. Non si era mai registrata, usando il gergo asettico degli artificieri, una "contaminazione" del genere. Perché qui l'area è assai più ristretta che in Iraq, dove pure le cluster hanno ucciso o ferito un migliaio di civili, o in Kosovo dove un quarto dei 500 morti si dovette a loro. L'unica stima affidabile delle quantità sparate in Libano la si deve a un ufficiale israeliano. Comandante di un'unità missilistica in crisi di coscienza, si è confessato con il quotidiano Haaretz: <Ciò che abbiamo fatto è insano e mostruoso, abbiamo tappezzato intere città con bombe a grappolo>. Per l'esattezza 1800 bombe, ognuna delle quali può contenere sino a 644 submunizioni, che dà un totale di quasi 1 milione e 200. La posizione ufficiale dell'Idf è però tetragona: <Abbiamo usato solo armi consentite dal diritto internazionale> hanno ripetuto, a più riprese, i portavoce. Nadim Houry, lo specialista libanese di Human Rights Watch, non ne è così convinto. <E' singolare - ci dice nell'appartamento-ufficio che l'organizzazione ha aperto a Beirut - che Israele, produttore delle meno difettose cluster bomb al mondo, abbia usato vecchie munizioni americane, alcune risalenti al Vietnam>. E poi c'è il modo in cui sono state usate. <Mirare i centri abitati, tantopiù con i lanciarazzi multipli con margini di errore di oltre un chilometro rispetto al bersaglio, significa ricorprire completamente una città, renderla invivibile>. Circostanza sulla quale anche il dipartimento di Stato indaga. L'"uso indiscriminato" che Ginevra vieta. E che ha fatto pronunciare a Hrw come ad Amnesty International l'ipotesi di "crimini di guerra".
Epilogo
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.