#51 Italiani che hanno trovato l'America
Il golfista Frangiamore; Fiat va a comandare a Detroit; l'epidemiologo Boffetta; lo scultore Pelosini; Inside; prevedere i terremoti
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Prologo
La prima volta che sono andato a New York, nei tre mesi dopo la maturità, ero diventato amico della guardia di sicurezza del negozio della Benetton dove lavoravo. Aveva fatto lo spacciatore a Harlem, dove viveva, e di quel periodo ricordava con orgoglio che faceva tanti di quei soldi che non aveva bisogno di lavare i jeans ma li buttava via direttamente una volta sporcati. Poi gli hanno sparato in una gamba, rovinando il jeans peraltro, e ha cambiato vita. Ecco l’italo-americano che lavorava con me, un ciccione di Bensonhurst, Brooklyn, all’epoca quartiere a discreta infiltrazione mafiosa, mi mise in guardia: «Ma perché parli coi neri?». Solo per dire che, al di là del mito, gli italiani d’America non sono solo di prima classe. A partire dall’ultimo che ho incontrato ne propongo una minuscola selezione.
IL PORDENONESE CHE INSEGNA LO SWING
Sul Venerdì di questa settimana racconto la storia di Federico Frangiamore che è riuscito in una missione paradossale: insegnare il golf agli americani, che è un po’ come se un hawaiano insegnasse la corsa sulla slitta da ghiaccio agli Inuit.
Frangiamore, elegante ed esotico al punto giusto per via dell'accento (ci ride su a tutt'oggi: «If only i could speak english» quando ovviamente lo parla bene), si presenta e ci resta fino all'inizio della pandemia quando il negozio chiuderà. È in questo periodo che il New Yorker se ne accorge e gli dedica un ritrattino incuriosito e complimentoso.
Autoironia a parte, perché vengono da lui? «Mah, perché a dispetto dell'idea comune noi italiani siamo giocatori più tecnici. E poi forse li illudo meno dei maestri locali: non dico mai "wow, sei il migliore". È un'onestà che evidentemente paga». Ma quanto tempo serve per imparare? «Dipende, ovviamente, ma direi che in 4-6 mesi di lezioni arrivi alla sufficienza e poi mantieni con 2 ore di pratica e 1 lezione alla settimana». Non so perché ma la mia calcolatrice interiore ha cominciato a funzionare e gli faccio notare che è un sport molto elitario. Nega e abbozza una lista della spesa minima: «Una sacca con quattordici bastoni si trova anche usata sugli 800 dollari. Per i campi si va dai 35 ai 250 dollari, è molto variabile. E le lezioni vanno dagli 80 ai 200». Appunto. Ma ormai ha interiorizzato il tenore di vita newyorchese («Qui si deve moltiplicare tutto per tre, a partire dal prezzo di un caffè») e obietta che anche tennis e sci non sono da meno. Col vantaggio supplementare, nel caso dell'indoor, che invece di stanziare cinque ore medie per terminare diciotto buche e un paio d'ore di viaggio per andare e venire dai campi fuori città qui in un'ora-un'ora e mezzo fai tutto. Sempre a patto di avere i tremila dollari di iscrizione annua.
COSÌ DETROIT ATTENDEVA IL PADRONE TORINESE
Nel 2009 fa ero andato a Detroit per capire come la capitale dell’auto accoglieva i nuovi padroni italiani. Il pezzo iniziava così:
Detroit. Per sradicare un nomignolo può non bastare una vita. Trasformare la ruggine in oro, poi, è compito proibitivo anche per il più talentuoso alchimista. Qui Fiat si leggeva «Fix it again, Tony», «aggiustala un’altra volta, Tony». Portiere che chiudevano male, sospensioni sganasciate dalle buche sulle freeway, carrozzerie corrose, soprattutto. C’era una volta in America. Oggi invece a Royal Oak, allegro sobborgo di Detroit, hanno ribattezzato Fiat Drive una delle vie più centrali. «Dove vivere, mangiare e fare shopping meglio che da noi?» ha spiegato il promotore, l’italo-americano Luigi Cutraro, che punta sulla captatio benevolentiae toponomastica per intercettare le brigate di manager torinesi e le legioni di fornitori che spera faranno la spola dall’Italia con la vicina Auburn Hills.
È lì, nel compound mastodontico secondo per dimensioni solo al Pentagono, che ha sede la Chrysler. E dove regna – con la benedizione di Obama, un altro da cui tutti si aspettano miracoli – il neo-amministratore delegato Sergio Marchionne, l’artefice del cambio di marcia nella reputazione. Chiedete a chi vi pare, economisti, politici, operai e otterrete gradazioni differenti della stessa risposta: pollici alzati, sorrisoni, inevitabili citazioni strascicate di «Ferrari» e «Pininfarina». Chiamatelo «effetto 500». Niente più tracce di ossidazione sul buon nome delle lamiere, e neppure di polvere: è tutto un gran luccichìo. Al punto che i «plebei» piemontesi potrebbero addirittura riuscire dove hanno fallito i «patrizi» tedeschi: salvare il malato terminale, la terza casa automobilistica degli Stati Uniti. E allora sì che sarebbe Gran Torino (film che fra l’altro han girato da queste parti). Le aspettative sono alte, gli ostacoli pure.
E procedeva con la testimonianza di un veterano:
Se c’è uno che sa quanto siamo ben voluti a questa latitudini è Alberto Negro. Nella sua casa nel bosco, costruita da un allievo di Frank Lloyd Wright, è passata tutta la real casa dell’auto mondiale. Lui è a Detroit dal ’72 quando, dopo aver fatto presente all’Avvocato che giapponesi e americani lavoravano come matti per ridurre le emissioni, questi gli dette carta bianca («faccia ciò che è necessario») per recuperare il tempo perso. Fu tra i primi a vedere gli air bag e altre dotazioni che sarebbero diventate standard. «Non sono mai stato guardato con condiscendenza per la mia nazionalità, piuttosto il contrario». Un paio di anni fa ha lasciato, per limiti di età, e il laboratorio ha chiuso con lui. «La crisi economica e la preoccupazione ecologista stanno creando il momento perfetto per la Fiat: c’è bisogno come non mai di auto più piccole e di motori più puliti».
UN EPIDEMIOLOGO ESTREMAMENTE GARANTISTA
Nel 2014, grazie a uno spunto trovato su Le Monde, mi ero occupato di un caso di conflitto di interessi raccontando le gesta di Paolo Boffetta, stimato epidemiologo italiano, che lavorava a New York. Il pezzo (qui integrale) iniziava così:
Un rapporto di causa a effetto è «statisticamente significativo» quando la probabilità che sia dovuto al caso è trascurabile. Fumo e tumore, per capirci. È un concetto importante per l’epidemiologia che ha tra i suoi compiti principali quello di valutare i rischi sanitari per la popolazione. Anche per questo motivo, come capirete tra un attimo, l’affaire Paolo Boffetta, prolifico e rispettato scienziato di fama internazionale, assume un colorito paradossale. Il professore, oggi direttore dell’istituto per l’epidemiologia traslazionale al Mount Sinai Hospital di New York dopo una lunga esperienza all’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) di Lione, si è trovato negli ultimi anni a riconsiderare una lunga lista di sostanze che una letteratura consolidata ha condannato: diossina, acrilamide, berillio, formaldeide, stirene, atrazina, gli scarichi del diesel, il cloruro di vinile e l’amianto. Per finire con i metalli pesanti dell’Ilva, grandi accusati per l’aumento dei tumori del polmone a Taranto. Boffetta non dice che non fanno male. Però specifica che, quando nuociono, lo fanno in maniera diversa e generalmente più circoscritta di quanto si era sempre creduto. Spesso aggiunge che «le evidenze sono insufficienti». Più che sufficienti sono invece quelle riguardanti il finanziamento degli studi scagionatori: li hanno pagati le industrie che quelle sostanze producono o utilizzano. Dunque la domanda è: possiamo credere, come suggerisce il professore, che sia una casualità che la pensi in tutti questi casi in maniera favorevole alle aziende? Oppure il fatto che loro lo sovvenzionino ha un’incidenza «statisticamente significativa» sulle sue opinioni?
LO SCULTORE DI HARLEM, TORNATO A MASSAROSA
Pochi mesi fa ho dedicato un’intero numero di Lo stato delle cose all’incredibile vita di Paolo Pelosini che, dopo mezzo secolo a New York, è tornato a Massarosa, a 8 chilometri da Viareggio, dove è nato. Il pezzo iniziava così:
A meno di essere in buoni rapporti con Berlusconi o forse Kim Jong-un, chi può vantare un amico che ha terminato l'allestimento del suo mausoleo? Io. E l'amico, l'artista Paolo Pelosini, lo inaugurerà domani a Massarosa, paese a dieci minuti da Viareggio, dove è nato 76 anni fa e dove è tornato meno di due anni fa, dopo una parentesi newyorchese di più di mezzo secolo. Nel mio piccolo lo conosco da 35 anni. È stata una delle prime persone che ho incontrato nel mio primo viaggio a Manhattan, all'indomani dell'esame di maturità, a memoria il trimestre più esaltante della mia vita. Viveva allora in un ex fabbrica tessile a Chinatown, un loft vero praticamente senza finestre, per due terzi pieno delle sue sculture. Con la seconda moglie e l'unica figlia, Maia, appena nata. Da allora non ci siamo più persi di vista. È tra le persone meno convenzionali e generose che abbia mai frequentato. Se le sue opere non sono finite al Moma è solo per l'arbitrio assoluto che sovrintende la grande riffa dell'arte contemporanea, oltre alla circostanza non trascurabile che quando qualche importante curatore bussava al suo studio finiva spesso a schifìo perché Paolo non sapeva tenersi per sé la sua viscerale critica allo stato dell'arte oggi.
DA VEDERE: INSIDE
Stranissimo filmetto scritto, interpretato e prodotto durante il lockdown da Bo Burnham. Con una sua grazia. Inside, su Netflix Bello questo spezzone qui sopra.
Epilogo
Se c’era una cosa che non si poteva prevedere erano i terremoti. Sarà sempre così? Grazie all’intelligenza artificiale on è detto, come scrivo nell’ultima Galapagos:
Servirebbero almeno dieci cicli completi per addestrare il sistema e la faglia di Sant'Andrea ne genera uno ogni 40 anni circa. E allora? Johnson scommette sui cosiddetti "terremoti silenti", quelli slow-slip, che invece di esaurirsi in pochi secondi possono durare ore, giorni, mesi (e sono anche molto più frequenti) producendo una mole di dati molto più ricca. A questi aggiungono poi quelli ricavati da "terremoti da laboratorio" in cui palline di vetro vengono compresse prima di arrivare al punto di rottura. Mettendo insieme gli uni e gli altri la squadra ha provato a fare previsioni retrospettive (hindcast) e il software, a partire dai dati preparatori di eventi reali, è riuscito a predirne l'esito con «moderato successo».