#28 Essere Paolo Pelosini
Numero speciale alla vigilia dell'inaugurazione della casa-museo di uno scultore non addomesticabile
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Prologo
A meno di essere in buoni rapporti con Berlusconi o forse Kim Jong-un, chi può vantare un amico che ha terminato l'allestimento del suo mausoleo? Io. E l'amico, l'artista Paolo Pelosini, lo inaugurerà domani a Massarosa, paese a dieci minuti da Viareggio, dove è nato 76 anni fa e dove è tornato meno di due anni fa, dopo una parentesi newyorchese di più di mezzo secolo. Nel mio piccolo lo conosco da 35 anni. È stata una delle prime persone che ho incontrato nel mio primo viaggio a Manhattan, all'indomani dell'esame di maturità, a memoria il trimestre più esaltante della mia vita. Viveva allora in un ex fabbrica tessile a Chinatown, un loft vero praticamente senza finestre, per due terzi pieno delle sue sculture. Con la seconda moglie e l'unica figlia, Maia, appena nata. Da allora non ci siamo più persi di vista. È tra le persone meno convenzionali e generose che abbia mai frequentato. Se le sue opere non sono finite al Moma è solo per l'arbitrio assoluto che sovrintende la grande riffa dell'arte contemporanea, oltre alla circostanza non trascurabile che quando qualche importante curatore bussava al suo studio finiva spesso a schifìo perché Paolo non sapeva tenersi per sé la sua viscerale critica allo stato dell'arte oggi. Nove anni fa, in uno dei nostri incontri, mi aveva invitato a un festa. Di ritorno avevo buttato giù un raccontino molto liberamente ispirato ad alcuni episodi della sua vita (inutile provare a discriminare gli episodi veri da quelli inventati) che, con l'occasione fausta dell'inaugurazione della casa-museo con quasi 200 tra sculture e tele, propongo qui sotto per la prima volta, terremotando – spero non me ne vorrete – il classico format di Lo stato delle cose.
REGALO CON FATWA
Paolo toglie il regalo da un sacchetto del supermercato e lo consegna infiocchettandolo con la seguente dedica: "Spero che sia la cosa per cui litigherete di più, nel momento della divisione dei beni, quando divorzierete". Non dice "se", dice "quando". Loro fanno un sorrisino obliquo, lei dice, "Paooolo è bellissimo" e intende chiaramente il regalo, non l'auspicio. Sono appena andati a vivere insieme in quella nuova casa, è il motivo della festa che coincide con il compleanno di lui che è stato strappato via a forza da un amico che gli stava mostrando non so quale cazzata sull'iPhone per vedere il regalo. È una scultura di lamiera: un fiore rosso con delle foglioline verdi che emerge da un vaso nero che in origine era un bidone di bitume, taglia piccola. La materia prima preferita di Paolo. Fusti di ferro, grandi e piccoli, barili di benzina, abbandonati vicino ai cantieri, o dai lattonieri che asfaltano le strade. Ce n'è uno, nello scantinato della sua nuova casa, che sgocciola ancora olio. "Sono venticinque anni che fa così. Sono come le gocce del mio sangue. Quando smetterà sarò morto" dice serio. Anche il fiore è figlio di un bidone di idrocarburi. "È un papavero. Un po' stropicciato, come me, ma pur sempre papavero. Allegro, nonostante tutto. Puzza ancora un po', e questo non te l'aspetti da un fiore, ma la mia arte è sempre un tentativo di fare cose che tutti possano capire però con uno scarto finale, una variazione inaspettata". È l'unica persona che, quando pronuncia la parola "arte" riferita a se stesso, non fa il rumore dei gessetti sbreccati sulla lavagna. Non la fa lunga, e ha ragione. Ha passato così tanto tempo da solo da sentirsi rimbombare i pensieri in testa. Però a capire chi è e cosa fa è servito molto. La sua poetica la racconta bene, senza retorica.
I due destinatari, felici del nuovo appartamento e del loro nuovo amore, non sanno che commentare. Lui visibilmente non vuole aggiungere altro. Forse solo perché teme che ciò potrebbe far prendere alla discussione chissà quali tangenti. Ha visto Paolo all'opera seduto al bar del quartiere e ha imparato a temere le sue spericolate digressioni. E ciò che gli preme, più del regalo, più di far contenta la ragazza, è tornare il prima possibile dal suo amico, dal suo telefono multiuso, dalla sua irresistibile ultima app. Lei è invece più emozionata, vorrebbe dire qualcosa nello specifico ma non sa cosa, e continua a dire "bellissimo" mentre cerca un posto dove sistemarlo e finalmente lo piazza su una specie di alto podio, in cima a una colonna di libri che si vede bene entrando.
CURATORI IN FUGA
Paolo è soddisfatto. Gli hanno riservato un posto d'onore. Hanno capito più loro, pensa tra sé, di quella curatrice dello Sculptor Centre che è venuta a trovarlo qualche settimana prima. È stata un'ora e mezza nel suo studio dove vive a dispetto della legge perché non ha finestre, né bagno, nessuno dei requisiti per chiamare casa una casa. L'ha ascoltato a lungo, compresa la consueta e masochistica filippica sull'arte spuntata, l'arte sterile che non parla più a nessuno, quella che svuota i musei mentre i cinema si riempiono e la musica e la letteratura sono in ottima salute. Poi l'ha salutato educatamente senza aggiungere niente, salvo poi dire al comune amico che l'aveva convinta ad avventurarsi nell'Harlem spagnola, l'unica zona ancora derelitta e pericolosa di Manhattan, che non poteva esporlo "perché non era coerente con il tipo di proposte che il centro faceva", e anche – ma era quasi la stessa cosa – "che non era in linea con la sua idea di contemporaneità". Perché era figurativo, quindi facile, ergo vecchio.
Mi ha raccontato quest'ultima disavventura senza acredine, mentre uscivamo dallo studio dove si boccheggiava nonostante il residuato bellico di aria condizionata fosse al massimo e facesse un rumore tale e quale a un C130. Un cassone che, come tutto il resto, ha montato con le sue mani recuperandolo da chissà dove. Mentre chiudeva la serranda e metteva il lucchetto una ragazza nera appena maggiorenne è passata, ha visto la vetrina con un bidone sventrato che sembra aver appena partorito il cagnolino che gli sta rannicchiato sotto e ha chiesto: "È un museo? Si può visitare?". "No, è solo il mio studio. E sì, si può visitare tutti i giorni, ma non adesso perché ho amici che mi aspettano. Passa, quando vuoi, a qualsiasi ora, bussi o chiami e te lo mostro". Lei ha ringraziato, ha detto che passerà, e probabilmente lo farà davvero. Lui, con quello che è ormai il suo riflesso condizionato più tipico, le ha squadrato il culo, le ha dato un voto oltre la sufficienza e ha considerato la possibilità di quell'incontro.
FRANCOBOLLI IN DOTE
Conosco Paolo da ventiquattro anni. L'età di sua figlia. La prima volta che sono entrato a casa sua avevo appena finito il liceo e mi ero pagato il biglietto per New York, il vitto e l'alloggio (dividendo la stanza ma non l'affitto con scarafaggi pleistocenici) lavorando come commesso in una catena di abbigliamento italiano. Era stato, da piccolo, un amico di mio zio. Vivevano in un paesino che faceva allora diecimila abitanti scarsi le cui attrazioni principali erano la "sagra della pupporina", un dolce di pasta fritta che prendeva il nome dal seno femminile e, a quattro chilometri di distanza, un ristorante sul lago dove si potevano mangiare delle rane fritte appena pescate. Verso i venticinque anni, dopo aver finito l'accademia di belle arti, era partito in nave per l'America. Come avevano fatto i suoi nonni prima di lui. Soprattutto nonno Gesuamo, il comunista, che però poi aveva commesso un errore che aveva partorito tutti gli altri. Era tornato un'estate. Aveva messo incinta una ragazza. E da allora la California non poteva che sognarsela, piangendo ogni volta che la nominava. Suo padre, fascista, stanziale, manesco, aveva contribuito all'impresa secondo le sue scarse possibilità. Ovvero regalandogli quanto aveva di più caro: la collezione di francobolli rimpannucciata nel corso di una vita. Con quella dote e la fidanzata ucraina dell'Accademia avevano preso una nave e avevano mangiato e dormito facendo fuori le scorte numismatiche in un mese. Paolo aveva trovato un lavoro come carpentiere e una topaia al Queens. Per campare faceva le porte nelle case dei signori, ma non dimenticava il motivo per cui aveva fatto tutti quei chilometri: guadagnarsi da vivere come scultore. Su un giornale aveva trovato l'annuncio di una borsa di studio per un master in arte all'università del Michigan. L'aveva vinta, si era trasferito per due anni insieme a quella che nel frattempo era diventata sua moglie. Erano tornati. Aveva trovato una casa nella prima strada sotto a Canal Street, un posto dove i bianchi erano minoranza assoluta e non avevano piacere di vivere. Lui invece aveva imparato ad apprezzare i gamberi grigi, lo zenzero e addirittura il tofu degli spacci cinesi. Col master era riuscito ad ottenere un posto da insegnante di storia dell'arte al liceo italiano. La paga era buona, doppia: lo stipendio normale e un'indennità del ministero dell'istruzione, perché li consideravano un po' ambasciatori culturali.
L’INSOSTENIBILE VITA BORGHESE
Finalmente le cose avevano preso la piega giusta. Aveva conosciuto una bella psicologa ebrea. L'ucraina se n'era accorta e una mattina si era svegliato di soprassalto, giusto in tempo per impedirle di concludere il piano di cui il coltellaccio che aveva in mano era l'improvvisato strumento. L'aveva buttata fuori di casa a calci, tra le grida, ma nessuno si meravigliava di niente, a quel tempo, a Chinatown. Aveva trovato un ufficio a Chelsea che reclamizzava divorzi lampo e matrimoni express. E aveva fatto quel che doveva fare. Non senza il fatidico annuncio sul New York Times, sigillo di garanzia per tutte le coppie molto rispettabili. "Victoria Seixas, figlia di Norma Seixas di Englewood, New Jersey, e Donald Seixas di New York, si è sposata con Paolo Pelosini di New York". Figlio di chi? Di nessuno. Altri dettagli sulla sposa: "Laureata al Bard College, con un master in art therapy alla New York University, dove ha anche ricevuto il suo master in social work. Suo padre è mercante d'arte a New York". Solo all'ultima riga si scopriva che lo sposo non era orfano ma il figlio di "Mila Pelosini di Massarosa, Italia, e del defunto Peitro Pelosini". Che non aveva qualifica ed era anche scritto male, in quel ritaglio ingiallito che aveva tirato fuori, molti anni dopo, dall'archivio della nostalgia. Aveva cominciato a leggere il Wall Street Journal per seguire l'andamento di alcune azioni su cui aveva investito. Avevano comprato una casetta a Poughkeepsie, o forse era del suocero, dove l'intellighenzia newyorchese passa l'estate. Aveva anche una Land Rover per portarci la moglie e la figlia, nel finesettimana.
Durante questo interregno di serenità l'avevo conosciuto io. Mi aveva invitato a pranzo per il giorno dopo. Non avevo mai visto un loft così cinematografico. Duecento metri di un'ex fabbrica tessile, con pareti infinite, soffitti con i tubi industriali per l'areazione e, nella parte che dava sulla strada, il laboratorio con le statue e i materiali. Aveva fatto gli spaghetti al pomodoro. Tanti spaghetti e un'alluvione di pomodoro. Maia, tre mesi, aveva una tutina indimenticabile che diceva: "Abbracciami, sono mezza italiana". Victoria era una bella donna, per come una quarantenne poteva sembrare bella a un diciottenne, che faticava ad appassionarsi alla conversazione. Sopra il lavello della cucina a vista c'era anche una collezione di coltelli tra cui la piccola scimitarra che, come avrei scoperto dopo, era l'arma del tentato omicidio. Non so se fosse rimasta lì come memento alla caducità della vita. Oppure nella sua veste apotropaica, di amuleto contro le sciagure. So che io l'avrei tolta. Ma io e Paolo siamo molto diversi. Eppure, come avrei capito meglio negli anni, disgraziatamente più simili di quanto potessi capire allora.
LA DERVISCIA ROTANTE
Due anni dopo ero tornato a New York e aveva appena divorziato. L'avevo chiamato al telefono e mi aveva detto: "Vieni a una cena domani sera, ci saranno vari amici e tante ragazze". La nuova padrona di casa era un'italo-americana che aveva camminato scalza tutto il tempo. Aveva un magnetico smalto vermiglio e i suoi piedi, che volteggiavano come quelli di un derviscio metropolitano, disegnavano delle scie di colore nella stanza come i fanali delle auto fotografati con esposizioni estenuate. Aveva anche dei jeans che sembravano essergli, neanche cuciti, ma fusi addosso. Si comportava in modo quasi molestamente seducente con i maschi della stanza. Era la ricetta per il disastro, ed era il piatto di cui Paolo era più vorace. Per lei aveva deciso di cambiare tutto. Basta con l'insegnamento, e la quieta vita borghese che gli aveva regalato. Basta con la casa in campagna e con il fuoristrada, venduti per quel po' di alimenti che doveva alla figlia, visto che l'ex moglie era dieci volte più ricca di lui. Marilina vuole mettere su un business? Mettiamo su un business. Lei, come testimoniavano già i suoi alluci perfetti, aveva un talento per le pedicure e sapeva fare i massaggi. Con la liquidazione di Paolo e le mani di lei aprono un posto nel distretto finanziario che chiamano, semplicemente, Hands. Lui fa il manager, senza neppure la metà della cattiveria necessaria per il ruolo, lei lavora e recluta sue amiche. Quando, faticosissimamente, gli affari cominciano a ingranare il calendario segna l'11 settembre. Muoiono in un colpo solo metà dei clienti. La zona viene sigillata per sei mesi. Raschiano il fondo per sopravvivere. Lei, meno filosofa, è sempre più nervosa. Un giorno gli dice: "Sento di non potermi esprimere con te. Ho bisogno di un uomo più giovane, un coetaneo". Lui la manda a fare in culo, con uno slancio che nella causa che seguirà il giudice riterrà eccessivo. Fatto sta che gli viene proibito di mettere piede nel locale in cui aveva immolato i suoi ultimi dollari. E che lei gestirà un altro po' con il nuovo fidanzato, un azzimato nullafacente britannico. Paolo non sa più come pagare l'affitto ma non si abbatte. Il vecchio Shwartz, ultraottantenne padrone di tutta la palazzina, è un tipo umano ai suoi antipodi. Forse proprio per questo, come riconoscenza per mostrargli le possibilità che non ha mai osato cogliere, gli assicura da anni un affitto calmierato e sopporta i ritardi nei versamenti.
CAMPARE CON EBAY
Lo chiamo quasi un quarto di secolo dopo la prima volta e, oggi come allora, risponde entro il secondo squillo. È sempre in casa, sono anni che non mette piede fuori se non di notte. Gli chiedo come passa le sue giornate dall'ultima volta. Sono passati diciotto mesi, era intorno a Natale, e l'avevo chiamato dalla centosedicesima west. L'altro quadrante, 5 minuti di taxi, cinque fusi orari economici, sociali, culturali e lui, come se fossi l'amico che vede tutti i giorni per il cicchetto, non si era meravigliato per niente. Aveva solo detto "vieni, ti offro un bicchiere di vino". Quindi, come riempie le ore, le settimane, i mesi? Lui ci pensa un po', non perché le giornate siano troppo varie e sia difficile ridurle a unità in un idealtipo semplificato, tutto il contrario. Prima dice: "Male". Ma poi non vuole dare l'impressione di uno che si lamenta, e infatti non me l'ha mai data, anche se avrebbe tutte le carte in regola, a sessantasei anni con neanche i soldi per rimettersi un dente o rifare un trattamento canalare (i suoi lussi estremi sono tutti di natura odontotecnica, come se Paris Hilton parlasse di diamanti di Graff), per lasciarsi andare a qualche giaculatoria. Invece no, qualunque piega prenda il discorso, anche la più tragica, la chiusa è sempre: "Sono contento di aver vissuto esattamente la vita che volevo vivere. Non ho sfondato nel mercato dell'arte, quello no, ma credo di aver fatto delle cose buone. E se è vero che negli Stati Uniti l'età media per gli uomini è di 81 anni ne ho ancora quasi quindici davanti a me, e una decina di lavoro. Posso fare ancora meglio. A una decina di lavori all'anno farebbero cento nuovi lavori, e a quel punto sarà ancora più difficile ignorarli". Quindi, la routine. "Mi alzo verso le undici e mezza, mezzogiorno, mi faccio il caffè e per almeno un paio d'ore faccio il giro del mondo, letteralmente, su eBay in cerca di autografi e altre memorabilia firmate. Di recente ho comprato una foto di Garibaldi dall'Italia a 270 dollari e l'ho rivenduta, sempre un Italia, a 800. Ogni tanto prendo delle fregature, mi hanno rifilato un paio di falsi, ma non sono scemo, ormai ne capisco abbastanza e ci sbarco il lunario. Ma tiro su circa metà di quel che mi serve per vivere. È il solito ragionamento: se avessi più capitali potrei comprare robe più preziose e fare margini migliori, ma questo è il problema della mia vita e quindi non pensiamoci".
PER MANGIARTI MEGLIO…
E poi, finito il giro del mondo? Il mondo viene a casa sua. Un mondo nero come la pece, bollente come la pece. Si chiama Yahaira, ha ventisette anni, un bambino di uno e un marito sui quaranta. Gli fa visita da quattro, prima di rado, quasi controvoglia, una volta al mese. Adesso due, a volte tre alla settimana. Si erano conosciuti anche loro al bar dell'angolo. Mi ci aveva portato una volta e l'unico problema era stato andare via, quando erano le tre e lui aveva appena cominciato a carburare dopo il quinto gin tonic e io avevo sonno, sapevo che mi aspettava un lungo tragitto di metropolitana per tornare nel mondo borghese e che c'era anche una possibilità, per quanto piccola reale, che nei pochi "blocchi" che mi separavano dalla metropolitana a quell'ora potessi fare incontri spiacevoli. Gli volevano bene tutti lì, questo si capiva subito. "L'hanno chiuso i poliziotti, i delinquenti più pericolosi di questa città. Hanno mandato una ragazza di vent'anni un sabato sera, quando c'era una folla assurda. Le hanno servito da bere senza controllare i documenti e dopo un minuto sono entrati due agenti e hanno fatto sbaraccare tutto". Lui stava lì praticamente ogni notte e osservava tutto, prima di entrare in azione. Quella sera lei aveva appena litigato con il marito per non so quale ragione. Fatto sta che lui se n'era andato sbraitando. Era il momento del Paolo Italian-Lover Show. Aveva imparato a fare una rosa di origami. Portava anche in tasca un paio di pennarelli, rosso per i petali e verde per le foglie. Non gli serviva altro per la sua magia. Gliel'aveva fatta sotto gli occhi e le sue lacrime erano evaporate di colpo. Avevano cominciato a chiacchierare. Le aveva srotolato il suo campionario di bugie d'autore (da "Sei la donna più bella che ho mai conosciuto" in giù). Le aveva dato appuntamento allo studio per farle vedere ciò di cui era capace. E lei, un irrespirabile giorno di giugno come oggi, aveva bussato alla saracinesca e il lupo l'aveva fatta entrare.
Era il periodo in cui lavorava a un'enorme allegoria delle Twin Towers. Non per retorica, per cronaca. Lui c'era quel giorno e, dal tetto di casa sua, le aveva viste crollare in diretta. E ora le ricostruiva, un bidone alla volta, con tanto di antenna rossa in cima, prima dello schianto. Le aveva mostrato la parete dei busti infilzati da chiodi, bulloni e asce, ma di fretta perché tutto voleva meno che deprimere cappuccetto rosso. Le galline appese, i pesci e i cani, di una fase recente e realistica, le erano piaciuti di più. Sebbene morti ma non erano tristi. Quindi le aveva fatto scendere le scale e condotta nell'antro, nella parte vietata ai minori della collezione. Qui le lamiere verdi di vecchie jeep militari erano state sfilacciate e ricombinate perlopiù in pose erotiche. C'era una figura umana, una donna, che si dava da fare all'altezza del grembo di un'altra figura maschile. C'era la silhouette di un uomo che si masturbava. C'era anche un intrico di tre figure, una che prendeva da dietro un'altra e la terza incastrata sotto in una geometria che si intuiva soltanto. Era tutto piuttosto chiaro anche per una ventiquattrenne quasi analfabeta di Boca Chica. Lui aveva condito il tutto con qualche spiegazione facile facile, che virava sul sentimentale. Aveva ripetuto che tutti i suoi soggetti sono persone disperatamente in cerca d'amore. Come lui. Come lei. Erano tornati su e aveva tirato fuori dal frigo il vino bianco per comprare il quale aveva saltato il pranzo e, dalla dispensa, un tocco di marijuana. "Qui, senza marijuana, non si può fare amicizia. Non ti fanno più entrare neanche alla feste. È il vero biglietto virtuale, l'apriti-sesamo universale". Aveva messo anche Beethoven. Anzi, l'unica cosa che aveva chiesto lei entrando era stata se poteva mettere della musica. A casa sua era proibito, il marito non voleva. Dopo le prime boccate, quando la canna cominciava a fare effetto e le sembrava meno tesa e sulle sue, le aveva detto che aveva "un corpo magnifico". Era bastato tanto così per scassinare la serratura. "Lo vuoi vedere?" aveva risposto e, senza aspettare la risposta, si era tirata su una tunica leggera di maglia, sfilandosela con un colpo solo dalla testa. "Non aveva mai avuto un orgasmo, mi aveva spiegato. Anzi, solo un'altro, che era stato più terribile che bello. Un suo cliente tedesco l'aveva portata in un albergo e l'aveva legata mani e piedi al letto. Lei era sicura che non sarebbe mai uscita viva di lì. Ma lui le aveva giurato che sarebbe andato tutto bene, che non le avrebbe torto un capello. Bastava che lo lasciasse fare. Le aveva legato dei piccoli elettrodi a bassissima intensità ai capezzoli e aveva cominciato a leccarla. Era un matto ma, apparentemente, un professionista. E per la prima volta aveva provato, in quel delirio di paura, un piacere completo".
Sì perché Yahaira, come gli aveva raccontato le volte successive, aveva cominciato a fare la prostituta a 14 anni. Ce l'avevano mandata i suoi, perché così c'era qualcuno che portava i soldi a casa. La sua specialità era la pole dance. Ed era nel locale in cui si dimenava intorno al palo che aveva conosciuto quel canadese ricco e annoiato che era eccitato all'idea di una schiava sessuale e galvanizzato dalla sfida di redimerla. L'aveva ricomprata alla maitresse e l'aveva portata con sé, prima in Canada e poi a New York dove si era trasferito per insegnare alla Columbia. "L'ipocrita ha un Phd in scienze marine, o qualcosa del genere. Adesso, facendo finta di non ricordarsi da dove viene, la vuole trasformare in una signora, le proibisce di ascoltare la musica perché è volgare, di mettersi i jeans perché cammina in modo troppo provocante. Soprattutto la scopa poco e male". Meglio per lui, ovvio, perché il suo vantaggio competitivo stava per la maggior parte lì. L'altro era ricco, lui la sapeva prendere. Di quando in quando a lei scappava di trattarlo come un cliente. Aveva anche provato a chiedergli dei soldi. Lui le aveva detto che non era aria e lei si era scusata. Era più forte di lei. Per anni sul suo corpo era stato attaccato un cartellino con il prezzo e lei aveva imparato a contrattare, e provare a far leva sul senso di colpa dei bianchi. Ogni tanto ci ricascava. Anche il suo sesso tradiva molto dell'imprinting professionale. Con quel sorpasso della realtà sulla fantasia che è così comune in America, il posto da dove veniva voleva dire "bocca piccola". Per una la cui specialità erano i pompini non era un destino da poco.
Solo la reciprocità la metteva a disagio. A quella no, non era abituata. E ci sarebbe voluta tutta la pazienza di Paolo a spiegarle che un 69 è solo quello che lei faceva per pochi dollari ma moltiplicato per due, come se si fosse allo specchio. "Ecco cosa faccio nei pomeriggi: delle grandi scopate. E ti dico che ora, che lei è meno impacciata e passa sempre più di frequente, è diventato un impegno. Anche perché adesso che ha provato non ammette più di non averlo, l'orgasmo. Se non viene subito non va via senza aver riprovato ad oltranza. Il vantaggio di essere vecchi è che si dura di più, ma a volte proprio non ne vuol sapere. E allora la scialuppa di salvataggio è leccarla. La cosa più basica e più rara. La vera arma segreta, altro che Viagra, di noi poveri amanti di mezz'età". L'unica regola, con lei, era di non chiamarla. Si faceva viva lei. Una volta il canadese si era insospettito e aveva affrontato Paolo al bar. "La testa di cazzo è anche un po' cowboy e va in giro con una pistola nella fondina. ma non mi ammazzerebbe mai perché ha troppo da perdere. Vuole bene al figlio e gli piace lo status della vita accademica. Io, invece, non ho assolutamente nulla da perdere – tranne Maia – e non ho paura di niente". Gli dispiaceva non potermela fare vedere, questa principessa della favelas, ma era in vacanza dai suoi e non sapeva quando sarebbe tornata. Ma a forza di raccontare si era fatto tardi e i suoi amici ci aspettavano. Dopo aver soppesato, da quel formidabile disegnatore di figura dal vivo che era stato da studente, il sedere della passante con curiosità artistiche, aveva aggiunto come per tranquillizzarmi: "Ci saranno un sacco di belle ragazze giovani. Forse anche l'amica di Julianne. Quella è un'altra storia che varrebbe la pena...".
LA VITA, 24 ORE PER VOLTA
Nel breve percorso verso la festa aveva sbrigato il capitolo "me". Ma anch'io, come lui, l'avevo abituato a resoconti prevedibili. Non stavo chiuso in casa, uscivo e conducevo un'esistenza esteriormente impeccabile, ma le faglie interne non si erano mai ricomposte e quando facevano attrito il risultato era sempre lo stesso: veniva giù tutto, qualcuno moriva sotto le macerie – io o l'altra, indifferentemente – e poi c'era che da scavare, sgombrare e illudersi che la prossima volta sarebbe andata meglio. Ecco, lui conosceva la trafila ma aveva imparato a non farsi illusioni. Né per adesso, né tantomeno per la prossima volta. Il suo orizzonte era di un giorno, massimo due. La gittata tipica del suo futuro era "domani". Domani viene Yahaira. Oppure, domani Yahaira non può venire. O in alternativa, domani ho Maia a cena. Ecco di cosa non avevamo ancora parlato! Ma ormai eravamo all'indirizzo che si era segnato su un foglio. Tra un Western Union con scritte dove l'inglese era seconda lingua e una rosticceria messicana che andava molto fiera dei suoi burritos ripieni di pollo e degli ultimi successi di Louis Guerra che uscivano dai subwoofer al volume che usavano a Guantanamo per estorcere le confessioni. Cinque piani senza ascensore e Paolo li aveva sentiti ancor meno di me.
Della cerimonia della consegna abbiamo già detto. La festa si dipanava tutta in un'unica lunga stanza, tipo dieci metri per tre. Dalle finestre che davano verso sud un sole tenace infiammava di tramonto la skyline dell'upper east side. Non sembrava di essere così lontani dalla New York borghese. L'epicentro dell'allegria e della socialità era il tavolo con un'enorme ciotola di tacos e una confezione super-size di hummus da supermercato. Ai fornelli una trentenne matrona nera con delle treccine perfette raccolte in una crocchia rosolava delle salsicce orrende, con dentro dei filamenti plastici che avrebbero dovuto essere peperoni rossi e verdi. Una libreria alta e stretta era stracolma di dvd. L'altra speculare di videocassette. Il padrone di casa lavorava come producer tendente regista nella pubblicità tendente al cinema. Al netto dell'insensibilità post-adolescenziale dimostrata verso il regalo di Paolo, non era antipatico. Aveva uno spettacolare figlio di 5-6 anni, una specie di dinamo umana con una testa di riccioli che sembrava incompatibile sia con il padre che con la madre. E infatti era di un matrimonio precedente con una ragazza nera con cui si erano lasciati poco dopo. Come avrebbe acclarato una torta glassata, rossa e nera, a forma di phon, la nuova fidanzata faceva la parrucchiera. "Che cazzo di idea", aveva commentato Paolo al momento dell'happy birthday, quando lei aveva detto che le piaceva troppo per sciuparla, tagliandola: "Non è affatto così. È che chiunque faccia un lavoro di merda come quello non vuole certo che glielo ricordino anche il giorno del suo compleanno". Aveva una mappa tutta sua della psiche, ma spesso ci prendeva.
"HAI DEGLI OCCHI BELLISSIMI"
Un'ex collega di lei, Paola, era leggermente strabica ma il sorriso generoso finiva per fartelo dimenticare. Anche la scollatura spostava in basso il baricentro dello sguardo dell'interlocutore. Chissà se era fatto apposta, in ogni caso funzionava. I suoi genitori erano siciliani ma lei non si azzardava a farci un saggio della sua italianità. Il campo magnetico creato dalle sue tette aveva intrappolato Paolo. Gli avevo sentito dire "hai degli occhi bellissimi". Chiederle quali erano "le differenze tra gli uomini italiani e quelli americani". E dopo questi primi palleggi da fondo campo lei si era piegata sulle gambe, come per sgranchirsi, e si era abbassata al livello del tavolo e Paolo aveva fatto una cosa che superava anche i ricordi corsari che avevo di lui. "Vuoi venire qua?" aveva detto ridendo, indicando la patta dei suoi pantaloni. E lei, senza battere ciglio, probabilmente temprata da quintali di battute analoghe alla scuola formazione fimmine di Bensonhurst o qualche altra colonia italo-americana aveva risposto solo "no, grazie, sono vegetariana". Fosse stato un altro sarebbe stato colpito e affondato. Essendo Paolo, e avendo addosso la sua t-shirt nera di Teflon d'ordinanza, non ne era stato neppure graffiato. E dopo una breve pausa in cui lei aveva ballato col figlio riccioluto dell'assente, quando era tornata aveva ribadito che, "in ogni caso la mia preferita resta Paola", dopo avermi ripetuto, in spregio a ogni evidenza, che era "proprio molto carina, non trovi? E sembra una vivace, che ti fa divertire". Avevo imparato a non ingaggiare discussioni quando la bussola era il suo pisello e non avrei cambiato politica neppure quella volta.
IL SEDUTTORE TENACE
Ormai gli invitati erano arrivati tutti. Paolo aveva provato vari tipi di ingaggio con ogni ragazza che aveva varcato la soglia. Dal suo campionario di scacchista sentimentale aveva tirato fuori le aperture più diverse, in un intervallo compreso tra lo scandaloso e il semplicemente sfacciato. Poteva andare avanti ad oltranza: se c'è un difetto che può essergli rimproverato, non è la mancanza di tenacia. Credo che la più grande delusione della serata fossi proprio io. Non che avesse bisogno di una spalla, ma il mio scarso entusiasmo per questo campionario femminile estremamente diversificato doveva sembrargli un'incomprensibile disappetenza, se non un disturbo della personalità: cosa avevo che non andava? Avevo provato, in passato, ad articolare quanto l'incastro giusto risultasse per me meno facile della sua addizione di elementari ingredienti. Ma credo che neppure allora l'avessi convinto. So che ha sicuramente ragione lui, ma il saperlo non mi aiuta a cambiare granché. Lui attaccava discorso, mi tirava dentro in partita, io palleggiavo un po' da fondo campo e poi scaraventavo volontariamente la palla in tribuna, mettendo fine anzitempo all'incontro.
Paolo invece non si scoraggia mai. Inizia ogni nuovo approccio come se fosse quello decisivo. Bionde, brune, dalla battuta spiritosa o lo sguardo bovino, con la sesta di reggiseno o piatte come tavole da stiro: in vetta a ognuna, a giudicare dall'impegno assoluto con cui affrontava la salita, poteva esserci il più grande dei tesori. È così che bisogna fare. Sospendere l'incredulità, come in ogni narrazione che si voglia far funzionare. Compreso con questa ragazza mulatta, appena arrivata da Santo Domingo, che fruga con ardore nel pacchetto delle patatine al formaggio. Le mani affusolate, ormai bisunte e pestilenziali, hanno uno smalto impeccabile dello stesso rosa che mi ero figurato ascoltando un racconto precedente di Paolo. Il rosa della biancheria di Yahaira, rivelato dal suo inaspettato colpo di teatro che l'aveva lasciata quasi nuda nello studio dello scultore italiano. Magari era quel colore ad averlo attivato, come il rosso per i tori. Forse era solo l'odore della gioventù, della vita palpitante che come al solito lo innescava. Senza tante complicazioni.
Eppure, nonostante i tanti scambi iniziali, quella sera non sembrava concludere. Può essere anche che fossi io, l'ospite straniero, a zavorrare la sua leggendaria efficacia. Ogni tanto la padrona di casa passava ad assicurarsi che si divertisse, che fossimo a nostro agio. Faceva delle battute sul fatto che si trovasse immancabilmente al centro di una conversazione femminile. Ormai lo conoscevano. Gli volevano bene anche per quella coerente monomania. Non gli avrebbero affidato le loro figlie adolescenti, forse, ma per il resto nutrivano un affetto sconfinato per l'artista di Pleasant Avenue.
Epilogo
La vita vera di Paolo è infinitamente più piena di colpi di scena di quanto questo pallido riassunto fittizio provi a ricostruire. Ha come scialuppa decisiva la figlia Maia, il cui pensiero l’ha tenuto a galla in ogni tempesta, e ora il nipote Leo. Non avete avuto la fortuna di conoscere l'uomo ma potete rifarvi con l'artista. Il "mausoleo" (definizione sua) sarà aperto da domani in poi in un angolo di Versilia agli antipodi della pretenziosità. Mentre online lo trovate sempre a paolopelosini.com. Ma, se passate da quelle parti, ve lo consiglio live. Caldamente.