#42 Ora New York va a letto un po' prima
La pandemia ha lasciato tante piccole cicatrici che solo il tempo potrà guarire; Lo sconosciuto delle poste
ARTICOLI. LIBRI. VIDEO. PODCAST. LIVE. BIO.
Prologo
Sono tornato a New York dopo la lunga pausa covidiana. Nell’ultimo quarto di secolo non era mai successo che mancassi così a lungo. E, a dispetto del mio ottimismo, in diciotto mesi o giù di lì alcune delle mie certezze cittadine son venute meno. Niente di vistoso, ovvio, ma cose che erano rimaste uguali a se stesse in certi casi dal 1987 adesso non lo sono più. Lista fortemente idiosincratica e lievemente nostalgica di impercettibili segni dell’apocalisse che, a un certo punto, spero, ci lasceremo alle spalle.
BARNES&NOBLE NON È PIÙ QUELLA DI UNA VOLTA
Quand’ero freelance usavo la filiale di Union Square come ufficio. C’era il wifi gratis, le riviste da leggere e anche i libri da consultare: praticamente il paradiso. Con gli anni hanno prima proibito di sedersi sulla moquette. Poi hanno introdotto la regola (largamente ignorata) che i tavolini erano solo per chi consumava. Ma mai e poi mai si riusciva a trovare un posto seduti. Tranne stavolta. Alle 9, quando la libreria apre, eravamo un vecchietto con Parkinson, una giovane asiatica impaziente e io ad aspettare che aprisse. E al terzo piano, dove c’è la caffetteria e i tavolini, era tutto quasi vuoto (vedi foto sopra). Serve il green pass e probabilmente una buona parte di quella variegata popolazione che aveva eletto questo come il suo third place, non casa né ufficio, non ce l’ha. Mestizia.
VESELKA EX PARADISO DEGLI INSONNI
Questo ristorante ucraino sulla seconda avenue è stato uno dei miei posti preferiti. Aveva due cose particolarmente notevoli: il goulash e il fatto che era aperto sempre, tutti i giorni, tutto il giorno. Con la pandemia non ce l’ha fatta e oggi chiude alle 23 (un cameriere storico, imbarazzato, mi ha detto “anche 22.30”). Ora, direte, e che problema è? Il problema è che la mitologia della città that never sleeps era fatta anche di posti come questo (o come Florent, al Meatpacking District, già chiuso da tempo). Se man mano si normalizzano anche il quoziente mitologico ne risente. Come se non bastasse – spero non sia la suggestione – anche la zuppa borscht era più acquosa di un tempo.
FANELLI HA CAMBIATO MENU
Questo locale su Prince Street, con la sua incantevole insegna al neon che appare anche in un film di Woody Allen e dove avevo incontrato Edward Norton ai tempi della Venticinquesima ora, era l’equivalente del granito quanto a coerenza gastronomica. In così tanti anni avevo fatto una silenziosa amicizia con una cameriera che era invecchiata con me ma continuava a mettere le magliette degli Arcade Fire. Fino alla volta scorsa. Mi piace pensare che non fosse di turno e forse tornerò a verificare da fuori, perché l’altro shock è stata la semplificazione del menu rimasto uguale a se stesso dal 1987, la prima volta che ci ho messo piede. Non c’è più il loro cavallo di battaglia, il chili con carne, ma soprattutto non c’è più il salmone alla griglia con patate mascé e funghi. Che, per venire incontro alle mie richieste di farlo ben cotto spesso arrivava bruciato, ma che bontà comunque.
PAOLO HA TRASLOCATO
A rendere le cose più difficili il mio amico Paolo, garanzia sin dalla prima volta che messo piede in questa città, dopo quasi 50 anni ha deciso di tornare in Italia (la sua storia avventurosa l’ho raccontata qui). Colpa del Covid? È il classico caso di correlation is not causation ma registro che è successo durante la pandemia, forse solo ultima goccia ma decisiva. Aggiungo che anche Louis, vecchio amico di un’evo più recente, con il lockdown (e Trump) aveva preso a svernare sempre più spesso in Jamaica e ora c’ha preso gusto ed è lì. Too bad.
UN TAMPONE SOCIALISTA?
Unica sorpresa piacevole è che, mentre ero già pronto a sborsare un capitale (certe leggende nere parlavano di 200 dollari) per il tampone necessario per ritornare a casa, ho scoperto che i furgoncini parcheggiati in tanti angoli strategici lo fanno gratis a chi non può permetterselo e ai turisti. Così almeno mi ha detto il tipo. Dovrei andare a farlo quando la newsletter sarà già uscita. Sarebbe un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per l’umanità nordamericana, in una stupefacente direzione socialdemocratica. Finché non me lo fanno non ci credo.
DA LEGGERE: LO SCONOSCIUTO DELLE POSTE
Lo sconosciuto delle poste (Feltrinelli) è il magnifico libro di Florence Aubenas, giornalista francese di cui forse ricorderete il nome da qualche tg risalente alla drammatica stagione dei rapimenti in Iraq. Ieri in forza a Libération, oggi a Le Monde. Mettete un piccolo, placido paese. Un omicidio senza movente. Un’inchiesta giornalistica formidabile più per capire il genius loci che per seguire la pista giudiziaria. A sangue freddo in Alvernia.
Alcuni passaggi:
Lei conosce Jacques Doillon? Era stato pagato ventimila euro, a dire il vero 17.339, puntualizza. Non ha idea di dove siano finiti quei soldi in due mesi. Le storie si stiracchiano, intrecciandosi, piene di particolari ingarbugliati. Se ne viene fuori addirittura con un César vinto a inizio carriera come giovane promessa del cinema. Lei pensa: “Lo sapevo, sta delirando”. Lo squadra: occhi probabilmente verdi, ciglia folte. Non può fare a meno di trovargli qualcosa di profondo nello sguardo. La droga, forse?
Guarda Thomassin spazzolare il cibo, sotto le foto di famiglia e le sgargianti oleografie delle isole, con tutti i Gesù che si strappano il cuore dal petto. In fondo, non le dispiace che uno dei condomini sia messo peggio di lei.
“Ma cosa avrete mai da dirvi tutto quel tempo?” aveva esclamato un giorno un marito. Lei non si era degnata di rispondere. Si possono forse spiegare certe cose? Creano il mondo da capo, è ovvio. Il loro mondo personale: “Le nostre vite, i nostri mariti, i nostri casini”. Esprimono pareri su tutto, guardano cavolate su internet, passano in rassegna le storie, la loro e quelle altrui. Le poste delle bambole sono il loro regno.
I tessuti leopardati non la spaventano, gli stivali alti rossi nemmeno.
Il matrimonio è stata la grande avventura dei loro vent’anni. Il divorzio sarà quella dei quaranta. Sono quasi tutte a quel punto: fare il grande passo o no. Oggi la separazione le tiene impegnate quanto le nozze un tempo. Ne discutono per ore, ne ridono. Insomma, non sempre.
DA VEDERE: SUCCESSION
Terza stagione su Sky.
DA SENTIRE: HELP ME MAKE IT THROUGH THE NIGHT
Epilogo
Vari altri negozi sono chiusi. K-Mart, il supermercato low cost di Astor Place non ce l’ha fatta. Il cartello più frequente nelle vetrine vuote di ex negozi scarnificati e riportati a cemento dice “retail for rent” come nella Cipro lasciata fallire dalla Ue o nella dublinese Grafton Street ai tempi in cui la tigre celtica si era risvegliata gattino tigre celtica. Sempre pieno invece il bar dell’hotel Baccarat, di fronte al Moma (Google Maps avverte che le camere vanno sui 1112 dollari a notte). Devo aggiungere, tra i segni precursori della fine del mondo, che la seconda birra nel menu di Eataly, tale SeaQuench Ale, è addizionata al lime (un blog di esperti parla di “concetto aberrante”) ma la carta non mette in guardia?!? Certi taxi, pur consapevoli di aver straperso con Facebook e Google per la gran torta pubblicitaria, non si arrendono e si sono attrezzati per montare sul tettuccio un grande schermo che mostra gli spot anche di notte (è un’idea che ha avuto Lyft). La tavola comunitaria dove gli sconosciuti sedevano uno accanto all’altro da Le Pain Quotidien è diventata anatema di contagio. Gap è quasi sparita (ho scoperto che un negozio vicino al Rockefeller Center costava 264 mila dollari di affitto al mese). Uniqlo chiude alle 20 invece che alle 22, se ricordo bene. La città notoriamente insonne ha cominciato ad andare a letto presto. Magari è solo un momento. Speriamo.