#99 Biden, il compagno che non ti aspetti
La strana parabola del Presidente; Lina, la più temuta da Big Tech; come gli Obamas son diventati un'industria; in Kenya, sulle tracce della genealogia di Barack; quant'è cara la bolletta di ChatGpt
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COME SPOSTARSI A SINISTRA RESTANDO FERMI
All’indomani dell’annuncio della ricandidatura di Joe Biden sul Venerdì in edicola abbiam deciso di fare un punto sulla sua, a tratti sorprendente, parabola politica. L’attacco:
Strani giri fa la vita. Quasi quarantenne il senatore democratico Joe Biden vota per i famigerati tagli delle tasse reaganiani, una sforbiciatina del 25 per cento in tre anni che dette il calcio d’inizio al lungo addio al sogno americano, inteso come probabilità che un operaio diventasse amministratore delegato. Ottantenne twitta invece che quella stessa trickle down economy che contribuì a inaugurare, secondo cui la ricchezza lasciata indisturbata sarebbe infine sgocciolata sui poveri, non ha mai funzionato. Allora passava per una specie di democristiano, oggi per l’ultimo dei progressisti che dice cose tipo «il capitalismo senza concorrenza non è capitalismo, ma sfruttamento» che alle nostre latitudini si odono giusto nelle assemblee di Potere al popolo. È cambiato lui o è la volta celeste di tutti gli altri pianeti della politica americana a essersi spostata così a destra da farlo sembrare, all’indomani di una candidatura ottuagenaria per un nuovo mandato, il compagno Joe che non ti aspetti?Sicuramente è vera la seconda ipotesi, forse anche un po’ la prima. Ma per rendere il giochino (chiediamo preventivamente scusa agli abbonati di Limes) un po’ meno astratto – la sinistra è, come la bellezza, nell’occhio di chi guarda – proveremo a circostanziare il giudizio rispetto al predecessore di cui fu anodino vice: Barack Obama. Concentrandoci più sull’economia, l’ambiente, il welfare e gli altri cavalli di battaglia liberal e meno sulla politica estera (momenti chiave: la ritirata dall’Afghanistan, frettolosa ma pur sempre ritirata, contro il recordo obamiano di uccisioni con i droni).
CHI È CHI
Un buon indicatore sono le nomine. Confrontarle è un lavoro che si è accollato con acribia Ryan Grim su The Intercept, il sito finanziato dal fondatore di Ebay. L’articolo inizia raccontando di come, nell’ottobre 2008, il banchiere Michael Froman (che diverrà ministro del commercio del primo presidente nero) mandi una lista di nomi per i posti chiave del nuovo governo a John Podesta, che gestiva la transizione per Obama, quasi tutti accolti. Questo per dire dei rapporti strettissimi con la finanza. Per tacere del capo del suo staff, quel Rahm Emanuel che chiamava i progressisti «comunisti» e «fottuti ritardati» sostituito da Biden con Ron Klain che con l’ala sinistra ha lavorato proficuamente. Conclusione: «In quasi ogni posto Biden ha scelto una persona più progressista e meno compromessa con Wall Street di quelli scelti da Obama. Tanto? Poco? È un cambiamento.
KHAN, UNA NOMINA RIVOLUZIONARIA
Tra le varie nomine de’ sinistra, per così dire, c’è la capa dell’Antitrust. Un estratto da Gigacapitalisti:
Ecco, alla Ftc, la Federal trade commission, adesso è arrivata una studiosa di 33 anni, la più giovane e (probabilmente) più aggressiva che l’impolverata istituzione avesse mai conosciuto. Lina Khan, enfant prodige del diritto della concorrenza che insegnava alla Columbia di New York, la scelta più di sinistra che il presidente Biden abbia sin qui compiuto.
A lei si deve un contributo seminale nell’inquadrare almeno la difficoltà di mettere un freno ai nuovi leviatani digitali. Ovvero il paper Amazon Antitrust’s Paradox uscito sul Yale Law Journal nel gennaio del 2017 in cui spiegava che, nel caso del primatista del commercio elettronico, «è come se Bezos avesse immaginato la crescita dell’azienda disegnando prima le leggi sulla concorrenza e poi si fosse inventato strade per bypassarle senza sforzo». Perché il sintomo classico della patologia monopolistica è di far alzare i prezzi, mentre Amazon li abbassa. Quindi va tutto bene, il sistema è sano? Niente affatto, spiega Khan. Vuol dire piuttosto che il termometro del consumer welfare, ovvero l’impatto immediato sul loro portafogli, non è più adeguato ai nostri tempi digitali. Perché prediligere la crescita ai profitti, vendendo talvolta sottocosto, nel breve periodo può addirittura beneficiare i consumatori mentre nel medio, facendo fuori la concorrenza che non può sostenere quel dumping prolungato, nuoce loro senz’altro perché il cripto-monopolista lo diventa sempre di più.
PREZZI BASSI? AHI AHI AHI
Spiega Khan che la nuova dottrina deve piuttosto guardare ai “prezzi predatori” (apparentemente troppo bassi ma strumentali ad acquistare clientela e in quanto tali ricompensati dagli investitori quindi, alla fine, perfettamente razionali) e al fatto che «controllando l’infrastruttura essenziale su cui i propri rivali dipendono» le piattaforme online come Amazon possono «sfruttare le informazioni raccolte dalle aziende che la usano per vendere i propri prodotti per indebolirle come concorrenti». Detto altrimenti, Bezos può utilizzare le “terze parti” (che generano i due terzi delle vendite sul marketplace) come cavie. Intanto si fa pagare per la vetrina che offre loro sul negozio virtuale ed eventualmente anche la sua rodatissima logistica. Nel frattempo però li osserva e capisce chi va bene e chi no, e per quali prodotti. A quel punto, forte di questa conoscenza, entra sul mercato con merci in grado di far loro concorrenza. Nelle parole di Khan: «Sono le terze parti che si accollano i costi iniziali e le incertezze legate all’introduzione di nuovi prodotti. Mentre, dal solo tenerli d’occhio, Amazon arriva a vendere quando il loro successo è stato adeguatamente testato». Facile fare gli imprenditori col rischio d’impresa degli altri.
OBAMA, DA PRESIDENTE A SPA
Qualche tempo fa avevamo fatto i conti in tasca alla power couple Obama&Michelle. Un estratto:
È un libro così unico, finanziariamente parlando, che anche sulla foto di copertina stava per scorrere il sangue. Sì, perché la fotografa Anna Wilding sosteneva che quell’Obama in bianco e nero, sorridente, con lo sguardo inclinato verso sinistra e immortalato da Pari Dukovic altro non era che uno smaccato plagio di un suo scatto. E quindi, stando al Daily Mail, lei pensava di far causa perché se l’anticipo per la produzione letteraria congiunta degli ex inquilini della Casa bianca era stato di oltre 65 milioni di dollari, magari la foto qualche decina di migliaia ne valeva. E a lei niente? L’aneddoto, che non mi risulta aver avuto code giudiziarie, serve solo per far capire gli ordini di grandezza di questa vicenda. Il quarantacinquesimo presidente degli Stati uniti passerà alla storia,entre autres, come una una formidabile macchina da soldi.
Fin quando viveva a Chicago l’ex prof di legge portava a casa 85 mila dollari l’anno. Era decisamente più breadwinner la moglie Michelle che, come presidente delle relazioni esterne degli ospedali universitari di quella città, ne guadagnava già 317 mila. Poi, nel 2005, lui entra in senato e si trasferiscono a Washington. Dove, dodici anni, due guerre e due libri dopo il loro conto in banca supera i 20 milioni. E tutto ciò prima del contratto del secolo, secondo solo all’accordo monstre da 150 milioni strappato da James Patterson ad Hachette, ma per 12 libri contro i due memoir della power couple. Neppure il Covid ferma l’Obama Spa. Anzi, come succede con le azioni delle aziende pantofolaie tipo Zoom, Netflix e Amazon, potendosi muovere poco magari la gente legge addirittura di più.
Se l’entità dell’accordo economico è senza precedenti, Barack e Michelle sono quelli che si sono arricchiti di più? Stando a un meme messo in giro da ultras trumpiani, meglio di loro avrebbero fatto solo i Clinton, entrati al celebre indirizzo di Pennsylvania Avenue con 480 mila dollari sul conto corrente e usciti con 100 milioni. I certosini revisori di FactCheck.org confutano i numeri, ma confermano che i Clinton restano per il momento imbattuti. Però loro avevano preso solo 36 milioni per i libri di memorie. Tacendo delle recensioni. Con la feroce Michiko Kakutani del New York Times che nel 2004 aveva incenerito il My Life di Bill definendolo «noioso da far incrociare gli occhi» e «minato da auto-indulgenza» per incensare invece Dreams of my Father, dell’allora neo-senatore Barack, come l’opera di «un raro politico che sa scrivere per davvero» con una voce «elastica, personale, capace di tenere insieme tutto, dalle dense discussioni di politica estera ai ricordi di strada, ai commenti incisivi sul diritto costituzionale fino a aneddoti vagamente new age». Che, per una che aveva riassunto il memoir di Jonathan Franzen come «ritratto dell’artista da giovane testa di cazzo», equivale a un Pulitzer. D’altronde anche il vostro cronista aveva incrociato l’allora matricola politica a una presentazione di quella storia familiare (l’anticipo era stato di 40 mila dollari) alla Barnes&Noble di Union Square a New York e aveva intuito che avrebbe fatto strada. C’era così tanta gente, così emozionata, che la sala era già piena due ore prima, al punto da far derubricare l’evento di qualche giorno dopo con la leggenda Tom Wolfe un mezzo fiasco.
Ma torniamo al carpiato da classe media a membro dell’1 per cento. Cominciando dallo stipendio da 400 mila dollari l’anno (di pensione ora ne prende 200 mila) che, per i due mandati, fa oltre 3 milioni. Poi i diritti dei libri, compreso The Audacity of Hope e un volume per ragazzi, che in totale superano i 15 milioni di dollari. Ma il meglio arriva dopo la presidenza.
IN KENYA, ALLE RADICI DI BARACK
Nel 2016 mi avevano mandato in Kenya sulle tracce della famiglia dell’allora presidente degli Stati uniti. Il pezzo iniziava così:
KISUMO (Kenya). Nella terra degli Obama il figlio americano è lo specchio in cui tutti vogliono guardarsi. Per la liceale timida con il gilet marrone è «un modello, la prova che ogni cosa è possibile». La matronale padrona dell'emporio Blackberry ci vede soprattutto «tante, tante magliette vendute». A detta dei disoccupati che bivaccano scacciando le mosche vicino a un macigno-murale che immortala la visita trionfale di due estati fa porterà, in ordine sparso, «visti gratis per gli Stati Uniti», «più aiuti economici», «strade asfaltate». Neppure il lustrascarpe che compie la sua fatica di Sisifo quotidiana lucidando mocassini sul ciglio polverosissimo della sterrata dubita: «Sarà un gran bene per il Kenya». Basta non pretendere esempi pratici se non volete vederlo annaspare, grattarsi la testa e infine gettare lo straccio in segno di resa.
Ma chi ha bisogno della realtà quando si può avere il mito? Per quelli che sanno leggere, in swahili, non potrebbe essere più chiaro: baraka, benedizione. Ecco quel che significherà per i fratelli africani. Suo padre, con lo stesso nome-destino, è stato catapultato dalle stalle delle capre alle stelle di Harvard. Il figlio, che ne ha preso il testimone, rischia di diventare il primo presidente nero alla Casa Bianca. Così, nell'espressione serena che occhieggia sulle t-shirt, fa coppia fissa col premier Raila Odinga nei ritratti incorniciati venduti per strada e tappezza i lunotti posteriori dei matatu, gli ubiquitari minibus, i kenyani leggono un sacco di promesse che lui non ha mai fatto.
Kisimu, sulle rive del Lago Vittoria, è la città più vicina alle radici degli Obama. Qui il senatore dell'Illinois è lo spiritus loci. Basta nominarlo per farsi degli amici. «Wuo Luo», figlio di un luo, è la risposta standard. Un legame di sangue che nessun oceano può annacquare. Un marchio per cui morire, come è successo a gennaio ai 1.500 uccisi dalla polizia dell'opposta etnia kikuyu perché contestavano i risultati delle elezioni.
Per arrivare ad Allego Kogelo, il villaggio dove vive la nonna di Barack Obama e riposa suo padre, mancano ancora una cinquantina di chilometri di mulattiere, mangrovie e terra rossa. Il custode della memoria familiare è Malik Abongo, il figlio cinquantenne che "Barack I", come lo chiama lui, ebbe prima di partire per l'America, dove conobbe la ragazza del Kansas che gli diede Barack II. Anche lui ha vissuto negli Stati Uniti, è diventato commercialista, ma il richiamo della foresta che Hemingway celebra in Verdi colline d'Africa alla fine ha prevalso. E oggi si divide tra un negozietto di elettronica che serve poche centinaia di anime, un'attività di contabile a Washington, le sue due mogli (si è convertito all'Islam, dismettendo il nome Roy) e otto figli, che cresce in una doppia casetta con mucche indolenti intorno, a pochi metri da dove abita l'ottantasettenne mama Sarah.
«Con nostro padre, mio fratello ha molte cose in comune» racconta nel salottino verde con citazioni del Corano appese alla parete: «l'intelligenza, la determinazione e il risultare simpatico alla gente». Sono stati l'uno il testimone di nozze dell'altro, si sentono spesso, ed è convinto che vincerà. Ma poi gli scappano frasi come «spero che manterrà le aspettative, che non sia solo spettacolo» e si capisce che dal primogenito lo straordinario successo del golden boy non è stato digerito del tutto. Neppure con gli altri membri della famiglia devono essere rose e fiori, se il numero della sorella Auma l'ha «perso» la settimana prima e quello dello zio coetaneo Said non sa «più dove sia». «Lo cercherò» dice, ma poi non lo cerca.
L'Obamania è una manna per quelli come Cornel Okech, che gestisce una stamperia a Kisumu. Da qui partono le magliette con il volto del senatore e la scritta "Il nostro momento è ora", con un carattere diverso da quello della campagna elettorale per evitare grane di copyright. «Nelle ultime settimane le ordinazioni si sono impennate» confessa soddisfatto e ci mostra l'sms di un tale Lorenzo, di una Ong di Busia, che ne ha prenotate dieci. A cinque euro l'una, qui non sono regalate. Ma il brand è forte, conviene mungerlo finché ce n'è: «Stiamo pensando anche ai portachiavi, agli ombrelli e alle borse».
Quest'eccitazione planetaria però produce anche danni collaterali. Nell'attesa di raccoglierne i frutti, ora il prezzo lo pagano i familiari. Said, un uomo imponente con gli occhi spiritati, ne sa qualcosa. Il ruolo di portavoce è toccato a lui, fratello minore di Barack senior e l'unico che vive stabilmente qui: «Lavoro come tecnico in una fabbrica di alcol per usi industriali e quando esco mi precipito all'università, dove studio economia aziendale. Era già dura senza i giornalisti...».
Racconta di locuste che si presentano non annunciate dai cinque continenti esigendo interviste, aneddoti, retroscena. Per non dire dei fotografi, che pretenderebbero di spostare lui e i suoi come statuine di un presepe sub-sahariano. «Nell'ultimo mese siamo corsi ai ripari» spiega, «mia nipote Auma li filtra e io li ricevo ormai solo nel fine settimana, per non intralciare troppo lavoro e studio».
CHATGPT GRATIS E CARISSIMA
L’ultima Galapagos:
Benvenuti nei primi paradossi dell'economia dell'intelligenza artificiale. La gratuita ChatGPT, rivela il sito Insider, costerebbe sui 700 mila dollari al giorno per funzionare. È il prezzo per tenere accesi gli immensi server che ne costituiscono il motore. Già addestrare un modello linguistico di grandi dimensioni (Large language model) è caro, nell'ordine delle decine di milioni di dollari. Ma i costi operativi, detti anche "costi di inferenza" (ovvero i metodi con cui gli algoritmi cercano di ricavare lezioni generali a partire da informazioni ricavate da un campione ristretto), sono decisamente superiori. Che sia la richiesta di spiegare la teoria delle stringhe in un modo comprensibile a un seienne o quella di comporre un sonetto goliardico alla maniera di Cecco Angiolieri, ogni richiesta sollecita le macchine e quindi consuma energia, dunque denaro. Per correre parzialmente ai ripari OpenAI ha infatti introdotto una versione a pagamento, sui venti dollari al mese se ricordo bene, ma non conosco nemmeno una persona che l'abbia sottoscritto contro legioni che si trastullano con quella free. Per risolvere il problema alla radice Microsoft, in quanto importante azionista di OpenAI, avrebbe messo 300 persone a lavorare su un chip ottimizzato per l'intelligenza artificiale, nome in codice Athena, che potrebbe tagliare significativamente la bolletta. Nell'attesa, nonostante che sin qui la protagonista principale del settore sia praticamente una startup (e non sia neppure la sola), l'ulteriore paradosso, segnalato nelle settimane scorse da uno studio di ricercatori dell'AI Now Institute è che, dal momento che solo Big Tech ha una potenza di calcolo cloud adeguata (Amazon, Google, Microsoft), anche la rivoluzione dell'Ia rischia di concentrare ulteriormente il potere nelle loro mani gigacapitalistiche.