#97 Se questo è un sindacalista
La Silicon Valley detesta le unions; storia di Chris Smalls, che è riuscito a espugnare un magazzino Amazon; se i Confederali arrancano sulla gig economy; nel far west della logistica piacentina
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Prologo
Quarant’anni fa Robert Noyce, cofondatore di Intel, dichiarò che «restare non-sindacalizzati è essenziale per la sopravvivenza della maggior parte delle nostre aziende. Se avessimo le leggi sul lavoro delle aziende sindacalizzate faremmo tutte fallimento». Su questa pietra ha edificato la Silicon Valley.
L’UOMO CHE HA ESPUGNATO AMAZON
Jeff Bezos ha imparato quella lezione e, per ben vent’ottanni dalla fondazione di Amazon, è riuscito a tenere (in America almeno) i sindacati fuori dalla sua azienda. SIn quando un ex dipendente licenziato e arrabbiato ha fondato il suo piccolo sindacato ed è riuscito dove, sin lì, avevano fallito tutte le sigle tradizionali. Voleva fare il rapper, tendenza gangsta, e ne ha ancora le sembianze. Ma sindacalista è chi sindacalista fa. Il reportage è la copertina del Venerdì. L’incipit (e qui il VIDEO):
Staten Island (New York). Immaginatevi una riunione nella casa discografica di un rapper. A capotavola c’è la star, cinque anelli d’oro alle dita, grandi come monete da un quarto di dollaro, un bracciale Versace e un altro con decorazioni ellenizzanti, più una collana a forma di denti di leone, tutto 14 carat gold, meno prezioso ma più giallo, come piace ai ragazzi del ghetto. Immaginatevi Landini vestito come Sfera Ebbasta o Salmo, se potete, perché è così che va in giro Chris Smalls, la stella che illumina quest’anonima stanza in una palazzina che ospita anche un laboratorio di urologia in quella terra desolata che è Staten Island. Unico vantaggio: essere a sette minuti d’auto dal JFK8, il primo magazzino Amazon d’America in cui un sindacato sia mai riuscito a entrare. Più precisamente l’Amazon Labor Union (Alu) che Smalls ha fondato nell’aprile del 2021, un anno dopo il suo licenziamento e uno prima dall’apertura della storica crepa aperta nel quasi trentennale carapace cresciuto intorno al gigante del commercio elettronico. Il tutto senza alcuna esperienza pregressa nell’organizzazione di battaglie per i lavoratori, nella più totale assenza di collaborazione da parte dei sindacati tradizionali o da forze politiche istituzionali, gli uni e le altre poi rimasti attoniti davanti allo specchio a ripetere un unico, assillante interrogativo: com’è stato possibile?
È la domanda che, oggi, gli rivolgono tutti. Perché Amazon, che solo l’anno prima aveva speso 4,3 milioni di dollari per reclutare consulenti specializzati nel dissuadere i magazzinieri dall’iscriversi a qualsivoglia associazione, era rimasta l’ultima, inespugnabile Stalingrado tra le corporations statunitensi. Fin quando questo trentaduenne del New Jersey, figlio di un’infermiera e di un padre che ha visto essenzialmente da dietro al vetro delle visite in carcere, non ha trovato la formula magica che ora in tanti vorrebbero replicare. Glielo chiedo anch’io mentre sembra decisamente più interessato a recuperare un biglietto di treno per Philadelphia, dove dovrà andare a parlare ad altri attivisti, che a esaudire le curiosità del cronista straniero.
Per qualche anno ha provato davvero a diventare qualcuno nel mondo dell’hip-hop. Poi gli sono nati due figli da un matrimonio precoce e ha cercato un lavoro meno aleatorio, nel settore più in turbo-espansione: la logistica. Dopo un paio di esperienze particolarmente infelici è passato ad Amazon. E gli è piaciuto. Superando in scioltezza la media di 250 merci che l’algoritmo si aspetta che un picker raccolga all’ora, l’hanno promosso supervisor. Ricorda: «Controllavo un gruppo di circa 500 persone. Lavoravamo duro ma in armonia. Poi, quando col Covid siamo diventati migliaia, e da 250 la soglia è stata portata a 400, l’atmosfera è cambiata e tutto è andato in frantumi. A quel punto non importava più quanto comode fossero le scarpe che usavi per trottare, perché alla fine diventavano tutte dei mattoni».
Lo strappo avviene quando un superiore lo convoca per dirgli che, nella sua squadra, c’è stato un tampone positivo ma meglio far finta di niente per non bloccare la produzione. Chris non ci sta. Si consulta con quattro amici e decidono di chiedere all’azienda di sanificare i locali e mandare i lavoratori a casa, in congedo pagato per due settimane. Il superiore mette invece lui in quarantena. A quel punto Chris chiama il New York Post per avvertire che il lunedì successivo un centinaio di persone avrebbe protestato per la prima volta davanti allo stabilimento. Cento persone, in una fabbrica dove di solito nessuno fiata, è un’asticella alta. Ma c’è il trucco: per quel giorno il meteo prevede bel tempo e quindi, tra i due turni all’ora di pranzo ci sarà comunque un sacco di gente nel parcheggio. Oltre a lui e agli altri fedelissimi per mantenere la promessa fatta ai giornalisti. La protesta, riuscita, è appena terminata quando riceve comunicazione del licenziamento per avere interrotto senza giustificazione la quarantena imposta. Ops.
DOVE FATICA LA CGIL CRESCONO I SINDACATI DAL BASSO
Qualche anno fa ero andato alla prima assemblea di Riders Union Bologna, il primo tentativo di organizzazione dal basso per i ciclofattorini. La Cgil ci rimase molto male che, nella cronaca, venne fuori che il loro rappresentante era un po’ in difficoltà in quel contesto (mentre quello delle Fiom ne uscì bene). Qui il passaggio incriminato:
BOLOGNA. In sala ci sono duecento lavoratori e tre sindacalisti. Si autodenunciano, come gli imbucati alle feste. Quando Carmelo Massari (Uil) prende infine la parola è per raccomandare di «allargare la platea», ovvero non limitare il discorso ai fattorini che portano le pizze in bici, ma anche agli altri sfruttati della logistica. E per suggerire che le piattaforme potrebbero forse essere denunciate per «intermediazione illecita di manodopera». Al suo auspicio a «non perdersi di vista» risponde Lorenzo, 25 anni, sociologia a Trento e food delivery a Bologna: «Siamo un soggetto autonomo e dobbiamo respingere i tentativi di farci sussumere da chi ha avuto un ruolo importante nelle condizioni disastrose del lavoro di oggi». Applausi. Con sfumature dalla sfiducia al risentimento il concetto verrà ribadito nel corso della prima assemblea nazionale dei rider al Làbas, un centro sociale oggi ospitato in un ex convento adibito anche a sportello comunale per il lavoro. Ma se le sigle confederali non possono essere la soluzione perché hanno creato il problema, come se ne esce? Siamo venuti a chiederlo ai protagonisti, quelli che hanno voluto la bicicletta, pedalano ma non gli farebbe schifo tirare il fiato ogni tanto.
Vista la malaparata il tipo della Cgil alza i tacchi, senza aver profferito verbo. A un certo punto si eclissa anche Massari. Resta fino a sera un giovane della Fiom («Preferirei non essere citato perché sono nuovo e dovrei chiedere il permesso per fare dichiarazioni»), che avvicino nella pausa pranzo, ramingo su uno dei tavoli del chiostro alle prese con calzone alle ortiche e riso alle erbe al prezzo politico di 4 euro. «Come li intercetti questi ragazzi? Non possiamo aspettarci che vengano a bussare, e infatti li abbiamo invitati al nostro ultimo direttivo» dice, con l’umiltà di uno che ha visto troppi treni partire invano e non vorrebbe perdere anche questo. Nello stanzone l’unico striscione che non è stato ammainato è quello Adl Cobas. Cui appartiene anche Stefano che tiene i rapporti con la stampa per Riders Union Bologna, il collettivo che ha convocato qui i fattorini da mezza Italia. Il quale, nel suo breve intervento, ribadirà la distanza con i confederali diffidandoli dal «paternalismo», rivendicando «il protagonismo dei lavoratori» e annunciando che è loro intenzione «risignificare il sindacato». Sì, perché il portone di vicolo Bolognetti è una macchina del tempo che ti catapulta linguisticamente negli anni ‘70, quando il lavoro non era ancora degradato a lavoretto. Sento dire «Assalto al cielo», «annacquare il conflitto» o, in alternativa, «calmierarlo», «détournement» e immagino questi ventenni chini sui libri di Franco “Bifo” Berardi, genius loci dell’autonomismo locale che vive una seconda giovinezza grazie allo sprofondamento globale dei diritti. Non solo dunque chi gli parla, a questi ragazzi, ma come?
Angelo, barba nera e jeans bassi sul sedere, viene da Milano e fa parte del collettivo Deliverance Project. Un «solidale», ovvero uno che aderisce alle lotte dei fattorini pur non essendolo. Cosa direbbe alla Camusso, se si presentasse qui per aiutare? «Di andare affanculo, perché sanno solo stare appresso ai pensionati. Per loro siamo una contropartita troppo bassa, non gli interessiamo». C’è parecchia rabbia verso «i complici di Renzi nel Jobs Act per una scientifica destrutturazione del lavoro». Per molti il fondo si è toccato in una data precisa: 23 luglio 2013. Fu allora che Cgil Cisl Uil firmarono l’accordo con Expo spa che autorizzava l’utilizzo di 18.500 volontari (su 20 mila addetti) a paga zero per far funzionare l’evento. Il giorno in cui la triplice morì definitivamente, forse senza neanche accorgersene, nel loro racconto. «Sono un strumento vecchio, burocratico» insiste Lorenzo, che ai testi della Scuola di Francoforte alterna le pedalate per Glovo e Deliveroo: «I sindacalisti di base che sono qui mettono a disposizione strumenti e competenze. Non vengono a dire “ti spieghiamo” perché adesso siamo noi a spiegare come si protegge il lavoro».
NELLA LOGISTICA PIACENTINA SINDACATO COME SPORT ESTREMO
A un certo punto ho passato qualche giorno nel piacentino, epicentro della logistica italiana. Ne uscì stupefatto dal livello di risentimento tra sindacati di base e confederali: uno spreco colossale quando era evidente che l’avversario era un altro, e assai organizzato. Un estratto:
Parla di Carlo Pallavicini, il centravanti dei Si Cobas. Quello che assieme a Mohamed Arafat, alla cui storia di riscatto Mimesis ha di recente dedicato un libro, è stato arrestato il 10 marzo scorso (tra le accuse, che respinge, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, violenza privata) in relazione alla chiusura del centro Tnt. Lo vedo all'indomani della morte del nonno partigiano che ha tatuato sul polpaccio e non oso insolentirlo facendogli notare una somiglianza fisica, e soprattutto di voce, con Salvini. Ha trentaquattro anni, molta energia e per star dietro a tutte le richieste di consulenza che gli arrivano è diventato un virtuoso dei vocali su Whatsapp che ascolta a una velocità accelerata («Così posso aiutare più compagni»). Laureato in scienze politiche, incastona la vicenda piacentina in una più vasta metamorfosi delle relazioni sindacali: «Dalla contrattazione anni 90 in cui era obbligatorio trovare un accordo alla concertazione in cui l'accordo diventava facoltativo fino al modello tedesco verso cui stiamo andando, dove l'aumento della produttività viene monetizzato e spariscono gli scioperi. Un po' alla Amazon». Il centro di Castel San Giovanni è il palazzo d'inverno che ancora non hanno espugnato. Loro, programmaticamente, sono per ridurre la produttività: «Per l'operaio e per il pianeta. Nei magazzini dove siamo presenti si devono movimentare non più di 80 pacchi all'ora». Da Amazon, mi spiegherà poi Giampaolo Meloni della Cgil, si arriva anche a 200. Il motivo perché tanti si rivolgono a loro è sin troppo evidente per Pallavicini: «Risultati. Grazie alla contrattazione di secondo livello, ovvero tutti gli accordi migliorativi costruiti sul pavimento del contratto nazionale, spesso arriviamo a raddoppiare la paga». Nel senso che prima il grosso era in nero.
Nei loro uffici alle spalle del palazzo dell'agricoltura il delegato egiziano Haitham Ramadan mi mostra due cedolini della stessa persona: nel 2010 figuravano 623 euro, oggi 1937. Per tre. Hai voglia a dire, come fanno i confederali, che i Cobas difendono solo i loro, guardano al breve periodo e non al lungo e usano in prima battuta strumenti estremi che andrebbero riservati come ultima istanza. «Se è per quello un sindacalista Cgil ha anche definito intollerabile che un operaio guadagni quanto un impiegato. Si rende conto? Ce li spingono in bocca i tesserati» esulta, rivendicando il record di 4200 iscritti su 8000 addetti in provincia (contro i 2700 dichiarati da Cgil). Una dichiarazione così clamorosa che, se confermata, ambirebbe al premio Filippo d'Inghilterra per la gaffe dell'anno. E infatti ciò che Romeo Barutta, Filt Veneto, avrebbe detto al Fatto è assai più sfumato: capiva le esigenze degli operai ma non si potevano stravolgere troppo i contratti nazionali. Vale a dire ciò che Cobas fa di routine (Barutta ha negoziato l'internalizzazione del personale Fedex a Padova, pur rappresentando la Cgil 20 lavoratori su 180, portando a casa l'assunzione ma cedendo su una serie di condizioni strappate dai Cobas). Rapporti tesi, diventati tesissimi dopo la circolazione di un audio in cui il cgiellino Karim Mansar rassicurava alcuni autisti Fedex licenziati, garantendo loro delle alternative precise in altre sedi. «Si chiama intermediazione illegittima di manodopera, ed è un reato» sbotta Pallavicini, al netto dei cinquantasei processi penali a suo carico. Quando venne fuori militanti Si Cobas inferociti assediarono la Camera del lavoro al grido di «mafiosi, mafiosi». Rinfaccio un uso un po' troppo disinvolto del termine a un gruppo di attivisti radunati per l'occasione da Pallavicini nella sede di Castel San Giovanni: «E perché? Se uno si mette d'accordo in segreto per danneggiare un altro non usa metodi mafiosi?» obietta Gianni, facchino alla Leroy Merlin, con trascorsi Cgil dove aveva lottato fianco a fianco con Karim fino a scoprire, sostiene lui, che la sua busta paga era misteriosamente doppia di tutti gli altri. Karim, per inciso, è lo stesso ad avermi fatto notare la stranezza che il Si Cobas Arafat vada in giro con una Audi Q5, berlina da 50 mila euro (alla contestazione Pallavicini si è messo a ridere spiegando che l'ha presa usata per 8000 e Karim stesso ha, vista dal cronista, una Audi di cilindrata minore). Questo giusto per registrare il ph dei rapporti. Perché sulla sostanza questo assembramento di sei-otto persone incomprensibilmente smascherinate ha ognuno un primato da rivendicare. Il passaggio al tempo indeterminato alla Xpo, che lavora per Guess (dove avrebbero 180 iscritti contro i 98 di Cgil, che pure mi aveva detto di essere maggioritaria). La rivendicazione del contratto logistica come prima cosa da fare quando riusciranno ad entrare nel fortilizio di Bezos, con maggiorazioni del 50-65 per cento per notturni/festivi contro i 15-20 del commercio che applicano ad Amazon. La testimonianza di Bianca che lavorava per la Ceva a Stradella, distribuzione libri, licenziata in tronco quando ha comunicato di essere incinta e dove i festivi erano obbligatori sin quando non sono arrivati… indovinato!
CHATGPT INCUBO DEI FREELANCE?
L’ultima Galapagos:
Il sito di Fashion Mingle (FM) non è esattamente il testimonial del giornalismo engagé. Però il portale per i professionisti della moda, con i suoi quasi 10 mila iscritti, ha bisogno di articoli per rinfrescare l'homepage e dare ai suoi utenti occasioni per tornare a visitarlo. Il grosso di questi articoli li scrivevano freelance (come abbiamo da tempo immemore italianizzato freelancers) spesso arruolati su Upwork, una piattaforma (c'ero stato tanti anni fa e l'avevo raccontato qui) specializzata nel fare incontrare domanda e offerta di giornalisti, grafici, programmatori e così via. Fa quindi impressione che Melissa Shea, cofondatrice di FM, che pagava 22 dollari all'ora i suddetti freelance per arricchire il sito, scrivere materiale publiredazionale e trascrivere l'audio di interviste e convegni, non abbia fatto più alcun annuncio da dicembre dell'anno scorso e abbia anzi dichiarato a Forbes: «Sono sinceramente preoccupata che milioni di persone si troveranno senza lavoro entro la fine dell'anno. Non ho mai assunto alcun scrivente migliore di ChatGPT». Iperboli a parte, il tema esiste eccome. Tutti e cinque gli intervistati dalla rivista economica lo confermano. In un celebre caso, a una particolare richiesta di contenuti redazionali risposero 300 persone di cui, a quanto pare, duecento erano bot, ovvero algoritmi di intelligenza artificiale generativa del tipo di quella cui abbiamo dedicato la copertina scorsa. In molti casi il committente ha rifiutato di pagare la prestazione (e quindi addio commissione per la piattaforma) perché sospettava che l'avesse realizzata l'Ia. Per contrastare la tendenza Google ha annunciato che darà priorità, nei risultati, ai contenuti originali, di alta qualità (insomma, quelli che non puzzano di Ia). Chissà. Nel frattempo su Upwork o sulla simile Fiverr i freelance si stanno riorganizzando a suon di disclaimer: «Editiamo contenuti che abbiamo creato con ChatGPT per 5 dollari l'ora», meno di un quarto di quanto avrebbero preteso se fosse stata tutta farina del loro sacco. La guerra dei prezzi è appena iniziata.
Epilogo
Buon Primo maggio a tutti!