#95 Il tabù Assange
La sua colpa sarebbe aver pubblicato cose vere che hanno imbarazzato gli Stati uniti: un po' poco per 175 anni di carcere, no?; l'interrogatore di Abu Ghraib; un film su un innocente a Guantanamo
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CRONACHE DA UNA PERSECUZIONE
Abbiamo tutti un‘idea un po’ appiccicaticcia di Julian Assange. Se lo nomini la prima cosa che salta fuori è che, con le rivelazioni di Wikileaks, avrebbe messo in pericolo la vita di varie persone. La seconda è che non la conta giusta: se ben due donne l’hanno accusato di stupro non può essere una persona per bene. Assange probabilmente non è simpatico, ma se l’antipatia fosse un reato le carceri scoppierebbero. Nils Melzer, ex relatore speciale Onu sulla tortura, in un libro (Il processo a Julian Assange, Fazi editore) si occupa di fare chiarezza sulle accuse. L’ho intervistato sul Venerdì in edicola. Un breve estratto:
A fine 2018 gli avvocati di Assange scrivono al suo ufficio ma lei stesso, confessa, ha resistenze: perché occuparsi di questa figura così discussa? Resistenze di cui, due anni di inchieste e diecimila documenti dopo, non resta traccia. Partiamo dall’accusa di aver messo in pericolo innocenti…
«Risale agli esordi di WikiLeaks, la piattaforma che lui crea per rendere pubblici documenti segreti. Dopo Collateral Murder, il video in cui soldati americani su un elicottero, tra battute e risate, sparano prima su civili scambiati per guerriglieri e poi su altri che soccorrono i feriti, nel luglio 2010 pubblica i “diari afgani” con informazioni riservate sulle operazioni Usa. Oscurando però una quantità di passaggi che, appunto, potrebbero mettere a rischio persone sul terreno. Saranno la tedesca Der Freitag e due giornalisti del Guardian a pubblicarli nella loro interezza, senza esser stati perseguiti per aver fatto il proprio mestiere. Solo un anno dopo Assange pubblicherà l’integrale. In ogni caso gli Stati Uniti non hanno mai fornito alcuna prova che qualcuno sia stato messo in pericolo per quelle rivelazioni. Anzi, l’allora vice-presidente Joe Biden disse che non avevano causato “alcun danno sostanziale”. Eppure l’argomento ha continuato imperterrito a circolare».
Veniamo all’altra accusa infamante, quella di ben due donne svedesi che avrebbero iniziato rapporti sessuali con Assange tranne denunciarlo per violenza sessuale per una speciosa riluttanza a indossare il preservativo. Come stanno le cose?
«Questo ovviamente lo sanno solo i protagonisti. So però come sono andate le cose processuali. Ovvero che in ben cinque anni di indagini preliminari i procuratori svedesi non sono riusciti a incriminare Assange e hanno poi volontariamente chiuso il caso (…)».
L’INTERROGATORE DI ABU GHRAIB SI PENTE
Anni fa ero andato a New York a intervistare Eric Fair, un interrogatore pentito di Abu Ghraib che, per rielaborare la colpa, aveva cominciato a scrivere. Un estratto:
È una storia con tutti gli ingredienti dell'epica americana quella di Eric Fair, Eric «il giusto» a voler credere al destino iscritto nei nomi: la guerra e Dio sull'elmetto, il male compiuto nella tragica illusione che serva a un bene più grande, la forza fisica e la malattia. Nell'attesa che Hollywood prenda nota ha cominciato a raccontarla lui stesso. Si è iscritto al Veterans Writing Workshop della New York University dove ogni sabato ex-combattenti, sotto la guida di insegnanti di scrittura creativa, esorcizzano le loro esperienze, una pagina alla volta. Il primo risultato è stato un lungo articolo apparso nel numero di primavera della rivista online Ploughshares. Ma la confessione pubblica a mezzo stampa era iniziata nel febbraio del 2007 quando Fair aveva spedito al Washington Post un breve editoriale autobiografico. Raccontava il suo Iraq e quello dei colleghi. Documentava gli abusi. E concludeva che quelle «tattiche erano, oltre che inutili, terribilmente sbagliate» come i suoi incandescenti ricordi gli ribadivano ogni notte. Era stato onesto e, sebbene tardivamente, coraggioso. Alla firma aveva aggiunto l'indirizzo email. Ne aveva ricevute un migliaio in un giorno. Una gli augurava di «bruciare all'inferno, figlio di puttana». In un'altra il possessore di una calibro 45 gliela metteva gentilmente a disposizione. Ma quella che ricorda per intero faceva così: «Mister Fair, le sue parole sono vuote e superficiali. Non ne accetto neppure una. Ma si lasci dare un consiglio se davvero vuole fare una cosa onorevole: si uccida. Lasci un biglietto. Faccia i nomi. E, fino a quel giorno, spero che non dormirà più un giorno per il resto della sua vita». L'anatema stava già funzionando. Aveva preso in considerazione le conseguenze legali di quel passo («l'evenienza di finire in carcere»), ma non la magnitudine di quelle emotive. Così l'indomani aveva chiuso il suo account Facebook e Linkedin e cominciato, se possibile, a dormire ancora peggio di prima.
Per questo devoto presbiteriano, laureato in storia e figlio di due insegnanti che l'avevano cresciuto nel rispetto del Signore e nel culto dello studio, l'Iraq doveva essere una lunga digressione sulla via per Betlehem, in Pennsylvania. È lì, nella sua cittadina, che voleva fare il poliziotto. E passare per l'esercito avrebbe aiutato. Così si arruola nel '95 e ai test attitudinali scoprono che ha un talento per le lingue. Lo spediscono in California dove studierà arabo per un anno e mezzo, a un ritmo di 8-10 ore al giorno. Il primo incarico in cui mette alla prova ciò che ha imparato è l'Egitto, sul Sinai a controllare auto e camion che sfrecciano tra le dune. Per il resto passa il suo tempo a Fort Campbell, nel Kentucky, ad addestrarsi a un combattimento che non arriva mai. Nel 2000 lascia l'esercito e diventa, come da programma, agente nella sua città. «Costantemente in strada. Avevo a che fare con gente in crisi per i motivi più diversi. Era il lavoro sociale che avevo sperato di fare». Poi però succede l'11 settembre. L'America ha un nuovo nemico, più temibile dei delinquentelli con cui Fair si confronta. E lui possiede un arma rara per combatterlo: ne conosce la lingua. Fa domanda per la Dea, l'agenzia antidroga, e i loro approfonditissimi esami medici rivelano un problema. Ha una cardiomiopatia, una malformazione asintomatica che fa perdere sangue dal cuore. La stessa che ogni tanto stecchisce in gara atleti apparentemente sanissimi. La sua carriera, appena iniziata, è già finita.
12 ANNI A GUANTANAMO
In Sudafrica sono stato sul set di 12 anni a Guantanamo in cui si racconta la storia di un errore giudiziario piuttosto lungo. Un estratto:
Trama indispensabile, desunta dalle 466 pagine di diario di Mohamedou lastricate di oltre 2500 omissis censori e che l'edizione italiana ha titolato 12 anni a Guantanamo, con uno sconto di pena di due anni spiegabile solo col goffo tentativo di mettersi in scia a un altro titolo di successo. Nato in Mauritania il giovane vince una borsa di studio per andare a studiare in Germania dove si laurea in ingegneria. Si trasferisce in Canada dove alcuni sfortunati incroci biografici e la frequentazione di una losca moschea gli procurano l'interessamento dei servizi segreti locali. Arriva l'11 settembre. La Cia trova il suo nome tra i contatti di suo cugino nonché ex-cognato Abu Hafs al-Mauritani, uno dei principali consiglieri teologici di Osama Bin Laden. Scoprono anche che, molti anni prima, era andato volontario tra i proto-qaedisti in Afghanistan a combattere i russi. E che nel '99 a Düsseldorf aveva ospitato per una notte tre islamisti, due dei quali finiranno dirottatori contro le Torri gemelle. Nella frenesia post Patriot Act la sua colpevolezza è quindi scolpita nel marmo. Gli americani lo fanno arrestare e portare in un dark site, carcere segreto in Giordania dove lo interrogano per otto mesi. Poi un paio di settimane in Afghanistan prima del trasferimento, nell'agosto 2002, nella famigerata base cubana. Gli americani sono convinti che sia il grande facilitatore dell'attentato. Lo considerano «prigioniero di massimo valore». Lui nega tutto: ha chiuso con Al Qaeda nel '92 e ignorava che i musulmani ospitati fossero radicalizzati. Seguono isolamento. Temperature estreme. Dark-metal a tutto volume sparato negli orecchi. Umiliazioni sessuali. Finta esecuzione. Minacce di incarcerare la madre e farla stuprare. Non gli risparmiano niente, ma lui niente lo stesso: «Sono innocente». Fin quando non ce la fa più e confessa responsabilità a caso, che poi ritratterà, per fermare le torture. Finalmente due donne avvocato si appassionano alla sua storia. Non c'è una-prova-una. Nell'estate del 2016 lo rilasciano. Ha 46 anni. Una vita segnata. Torna malconcio in Mauritania.
Epilogo
Tanti giornali sono scesi giustamente in campo per chiedere la liberazione di Evan Gershkovich, reporter del Wall Street Journal arrestato in Russia con l’accusa di essere una spia e detenuto da due settimane. È mancata invece analoga solidarietà per uno che, tra “arresti domiciliari” (non erano arresti, ma per la sua vita è come se lo fossero stati) e carcere di massima sicurezza non è più libero da almeno dieci anni. Figli e figliastri.