#94 La lotta di classe vinta dai padroni
Spiegare il paradosso del profitto; il tabù suicida di tassare i ricchi; alla storiella dell'"economia dello sgocciolamento" non crede più nessuno; dimmi quanto fatturato porti e ti dirò se resti
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LA TORTA È CRESCIUTA, MA LE FETTE BUONE LE HAN PRESE I RICCHI
È uscito un libro di un economista che racconta la fine di una specie di regola aurea dell’economia, per cui due terzi del valore della produzione andava ai lavoratori: non più. Ne ho scritto sul Venerdì:
Nicholas Kaldor, gigante dell’economia prima alla London School of economics e poi a Cambridge, li chiamava “fatti stilizzati”. Ovvero quelle regolarità statistiche che, a forza di ripetersi, sembravano ormai scritte nella pietra. Tra di esse il fatto che, fatto cento il valore della produzione economica, i due terzi andavano al lavoro e un terzo al capitale. Questo rapporto, pur cambiando le tecnologie, quindi la produttività e il numero degli occupati, è rimasto inalterato per un tempo immemorabile. Poi sono arrivati gli anni 80, Milton Friedman, la globalizzazione, e la pietra ha cominciato a sbriciolarsi. E dal 65 per cento pre Thatcher, nel 2017 quella quota è scesa nei dintorni del 58. Sembra un calo piccolo ma non lo è. Soprattutto perché non era mai avvenuto. La torta è rimasta la stessa, ma le fette sono state ripartite diversamente. Più grosse alle imprese (e anche agli investitori che ne posseggono delle azioni), più piccole ai dipendenti. «Il grande sconfitto è il lavoro. E le conseguenze negative ricadono su tutta l’economia» scrive il belga Jan Eeckhout, professore alla Pompeu Fabra di Barcellona, in Il paradosso del profitto (Franco Angeli).
Poche grandi aziende guadagnano adesso molto di più di un tempo, a scapito dei loro lavoratori?
«Fino agli anni 70 un tasso di profitto normale era dell’1-2 per cento rispetto ai ricavi. Adesso quella percentuale si assesta su una media del 7-8 per cento. Un aumento enorme. Soprattutto se lo si confronta con altre grandezze aziendali, tipo la spesa per il personale che è circa il 20 per cento dei ricavi, da cui poi vanno detratti materie prime, costi di capitale (fabbriche e macchinari) e costi generali (ricerca e sviluppo, marketing ecc). Così, se il rapporto profitti-costi è passato da un decimo a poco meno di metà, nel caso di Apple e Facebook può diventare superiore al 300 per cento».
PERCHÉ TASSARE CHI HA TANTI SOLDI FAREBBE BENE A TUTTI
L’anno scorso avevo intervistato Emmanuel Saez, uno dei soci più stretti di Thomas Piketty. Aveva appena scritto un libro sul perché la tassazione è tutta sbagliata, a favore del capitale. Un estratto:
E poi proponete una tassa progressiva sul reddito che tenga conto anche di plusvalenze, dividendi e tutto ciò che arricchisce una persona...
«Questo è più difficile in Europa che negli Stati uniti perché da voi vige la mobilità all'interno degli stati membri, per cui se la Francia alza le tasse puoi trasferirti in Irlanda mentre, a meno di rinunciare alla cittadinanza, se sei americano le tasse dovrai sempre pagarle lì. Però si potrebbe rendere la vita difficile a chi valuta di trasferirsi, obbligandoli a versare le imposte nel paese d'origine per 5 o 10 anni dopo il trasferimento. Sarebbe un forte disincentivo».
Perché tassare di più i ricchi farebbe bene alla società nel suo complesso?
«Perché il denaro si trasforma in potere e il potere a sua volta costruisce le condizioni per il perpetuarsi del denaro. È la storia degli ultimi 40 anni. Nel dopoguerra, con quelle altissime aliquote marginali e con imposte di successione quasi confiscatorie (fino all'80 per cento mentre oggi la media è del 17 e solo per patrimoni oltre i 5 milioni), si sono trovati i soldi che hanno consentito la creazione della classe media più prospera della storia. Noi riteniamo che, per i ricchi, un'aliquota del 60 per cento sarebbe quella ideale per massimizzare l'imponibile a favore di tutti».
Che è più del doppio di quella attuale, non proprio un ritocco. Nel simulatore che avete costruito su Taxjusticenow.org ci si accorge che, anche con Biden presidente, le aliquote non cambierebbero molto rispetto a Trump. I cambiamenti radicali sarebbero stati con Sanders e Warren di cui siete stati consulenti ma che, inequivocabilmente, hanno perso. Cos'è che non vi fa perdere la speranza?
«In quel simulatore ognuno può vedere come cambierebbero le cose per le varie fasce di reddito modificando le aliquote. E anche accorgersi di quanto meno ricchi sarebbero stati Bezos e gli altri se le tasse non li avessero così scandalosamente favoriti. Con quei soldi avremmo avuto un'America migliore. Di quello parliamo anche con lo staff di Biden e i governatori di New York e della California. Di qui la speranza».
SE ANCHE IL FMI RIPUDIA IL NEOLIBERISMO
Qualche anno prima avevo registrato il gran ripensamento del Fondo monetario internazionale sull’ortodossia di cui era stato braccio armato. L’incipit:
È come se il Papa riconsiderasse l’obbligo di castità per i preti. O il Gran Muftì di Al Azhar autorizzasse merende durante il Ramadan. Oppure se Renzi cominciasse a dubitare della rottamazione. Di questa magnitudine è stato lo stupore di fronte a un articolo dal titolo «Neoliberismo: sopravvalutato?» apparso, tra tutte le possibili testate, sulla rivista del Fondo monetario internazionale a firma dei vice-economista capo Jonathan Ostry e altri due autorevoli colleghi. Concentrarsi sul punto di domanda, soprassalto editoriale in zona Cesarini per attutire il colpo, sarebbe lo stesso abbaglio di chi, davanti alla Luna, non abbia occhi che per il dito. Fino a pochi anni fa la parola con la N, ideologia ufficiosa ma innominabile, non sarebbe apparsa neppure in un memo interno. Oggi, invece, viene sbertucciata coram populo nel sommario secondo il quale «invece di produrre crescita, alcune politiche neoliberiste hanno accresciuto la disuguaglianza, mettendo a rischio un’espansione durevole». Che ne è del Washington Consensus, la cura standard per i Paesi in difficoltà, tutta mercato e liberalizzazioni? E soprattutto: una volta ammesso l’errore teorico, nella pratica cambierà qualcosa?
L’autocritica ovviamente è parziale, ma le due politiche rivelatesi controproducenti sono i pilastri dell’ortodossia economica degli ultimi tre-quattro decenni. Da una parte la liberalizzazione dei capitali, che si spostano senza intralcio nelle nazioni con occasioni più ghiotte. Dall’altra il consolidamento fiscale, meglio noto come austerity, ovvero la convinzione che quando un paese è indebitato deve soprattutto tagliare la spesa pubblica. Riguardo al primo punto gli autori hanno censito, dall’80 a oggi, oltre 150 casi di importanti flussi di capitali verso 50 paesi stranieri. Una volta su cinque quell’improvvisa ricchezza si è trasformata in altrettante crisi. Sul secondo punto, «le politiche di austerità non solo generano sostanziali costi di welfare sul lato dell’offerta (salari e flessibilità, ndr), ma danneggiano anche la domanda, così peggiorando la disoccupazione». Gli autori dunque prendono ulteriormente le distanze dalla tesi, sostenuta tra gli altri da Alberto Alesina di Harvard e dall’ex capo della Bce Jean-Claude Trichet, sui presunti effetti espansivi dell’austerity. Anzi: «Nella pratica una riduzione della spesa pari a un punto percentuale del Pil aumenta la disoccupazione di lungo periodo dello 0,6 per cento e aumenta di 1,5 punti l’indice Gini di disuguaglianza». In buona sostanza: la toppa è peggio del buco.
IL RITORNO DELL'ÈRA DEL FATTURATO-PER-IMPIEGATO
L’ultima Galapagos è dedicata a un gran ritorno, suggerito dalle ondate di licenziamenti nel settore tecnologico. Eccola:
Da amministratore delegato di General Electric Jack Welch venne ribattezzato «Neutron Jack» perché, come le bombe al neutrone, uccideva le persone lasciando intatti i palazzi. La sua metaforica carneficina, tra 1981 e 2001, ammonta a circa 100 mila licenziamenti. Negli ultimi sei mesi, conteggiando gli ultimi annunci, Amazon e Meta insieme ne avranno totalizzati quasi la metà. Son quindi sulla buona strada per polverizzare il vecchio record (anche se è vero che le buste paga ad Amazon erano praticamente raddoppiate rispetto al pre-pandemia). Numeri, e vite, a parte la nuova drastica cura dimagrante di organici sembra resuscitare nella Silicon valley una metrica aziendale a lungo dimenticata. Staremmo per rientrare, giura Business Insider, nell'èra del fatturato-per-impiegato (Fpi). I sopravvissuti alle sforbiciate dovranno infatti provare il loro valore dimostrando di generare una congrua quantità di dollari per il datore di lavoro. Questa maniera per valutare il contributo individuale era particolarmente in voga dopo la crisi finanziaria del 2008. Allora un'analisi di mercato calcolò che un singolo impiegato di Google generava un milione di dollari contro i 930 mila di uno di Amazon (i profitti per impiegato, invece, erano rispettivamente di 210 mila e 31 mila perché la seconda ha spese "fisiche" decisamente superiori). Se fate lo stesso giochino dividendo il fatturato della vostra azienda per il numero di dipendenti otterrete il vostro Fpi. Non sarà necessariamente una bella sorpresa.
Epilogo
Buona Pasqua!