#93 Pentite e altre storie di mafia
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Prologo
Di mafia so poco o niente. E il grosso di quel poco lo devo a Raccolto rosso di Enrico Deaglio.
LEA, GIUSY E ALTRE DONNE CORAGGIOSE
Ho scritto della storia vera da cui hanno adattato una serie che andrà su Disney+. Qui un pezzetto:
Certe famiglie infelici sono infelici allo stesso modo. Quelle di Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, ad esempio. Lea è tra le prime pentite di ‘ndrangheta a entrare nel programma di protezione. Racconta tutto, cambia città tredici volte in tredici anni, portandosi dietro la figlia Denise strappata a un padre mafioso. Ma la procura non riesce a corroborare le accuse e lo Stato abbandona Lea al suo destino. È passato tanto tempo, non ha più niente da temere assicura il marito che ha un bar copertura a Milano. Vanno a cena in due ma tornerà a casa uno solo. Non esattamente un precedente che ispira emulazione eppure il ménage mafioso è così insostenibile anche per Giusy e Concetta che ne seguiranno le orme, rompendo con padri, fratelli, mariti che le hanno umiliate e offese. Ma anche con madri e zie, perché The Good Mothers, la serie a partire dal libro omonimo dell’inglese Alex Perry, avrebbe «tranquillamente potuto chiamarsi The good and bad mothers, ma sarebbe stato meno titolo» confessa l’autore via Zoom da Hampshire, a sud di Londra.
Com’è che questo pluripremiato giornalista che ha scritto libri su un cecchino curdo (The Long Shot), sulla nuova Africa che si ridesta (The Rift) o sul volto nascosto della globalizzazione (Falling off the Edge) è arrivato a occuparsi del coté femminile della mafia più potente ma meno coreografica del nostro repertorio criminale? Semplice: «Ero in Sicilia per Newsweek a scrivere di migranti, che spesso servono proprio come manodopera per i vari business della mafia. Mi aiutava una fixer (il nostro non parlava né parla italiano, se non per farsi un’idea dei titoli di giornale, e ha investito pesantemente in traduttori, ndr) che poi sono andato a trovare a Roma e mi ha portato a teatro a vedere un monologo di cui non capii niente se non il nome della protagonista, Maria Concetta Cacciola, che poi cercai su Google. È nato tutto da lì». L’epopea delle prime pentite era stata raccontata in Italia, dice Perry, ma a pezzi (in verità Lirio Abbate nel 2013 ne aveva messe insieme parecchie in Fimmine ribelli).
A SACROFANO, CARMINATILAND
Qualche anno fa si parlò molto della versione amatriciana della mafia, tra mondo di sopra e mondo di sotto. Andai quindi a Sacrofano, patria del signore nero che di questo sistema (i giudici hanno negato che si possa parlare di mafia) era il dominus; Massimo Carminati.
SACROFANO. La scelta del menù, in tutti i banchetti, è un momento cruciale. Dice A, che si offre per provvedere al catering: «Va bè, tu famme sapé, basta che me lo dici per tempo». Risponde B, il festeggiato: «Fa' un primo, un primo, 'na cosa e poi la grigliata... tanto». Peccato che A è Massimo Carminati, er cecato o il Nero, protagonista assoluto di Mafia Capitale. E B è Tommaso Luzzi, allora ancora candidato sindaco di Sacrofano che discettava su cosa mettere in tavola per una cena in piazza per 4-500 persone, suoi potenziali votanti. I due, era il 6 maggio 2013, stavano parlando (intercettati dai Ros) negli uffici dell'Imeg, la società dell'imprenditore Agostino Gaglianone. La circostanza più incongrua, a quasi tre anni di distanza, è il finale: Carminati e Gaglianone stanno meritatamente al carcere duro (41 bis) mentre Luzzi siede indisturbato sul suo scranno di primo cittadino, con vista su Tonino, il miglior ristorante della città. Sebbene, ancora quindici mesi fa, il prefetto Gabrielli avesse chiesto a gran voce lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Cos'è andato storto?
Come questo borgo di settemila anime, tra cui oltre mille rumeni esercito di riserva dell'edilizia capitolina, essenzialmente famoso per i cavalli, l'aria buona e le pappardelle, sia diventato Cecatopoli rimane un mistero. Sta di fatto che non solo Carminati aveva stabilito qui la sua residenza, in una villa patrizia con uliveto annesso e telecamere di sorveglianza al cancello, ma anche Gaglianone, il suo palazzinaro di riferimento e Riccardo Brugia, sbrigativo braccio destro, per non dire di Cristiano Guarnera, signore del cemento cui la Finanza ha sequestrato beni per 100 milioni. Tutta gente molto liquida, che avrebbe potuto svegliarsi ogni mattina facendosi dare il buongiorno dal Colosseo, e invece preferiva un paesotto senza un cinema, senza negozi all'altezza dei loro portafogli, senza quasi niente se non un busto di Almirante che sovrasta la piazza principale da uno slargo omonimo che, alla qualifica, recita «statista». L'ipotesi migliore, nella sua sibillinità a doppio taglio, resta quella pronunciata dall'edicolante: «Boh, forse perché qui se magna bene». Altrimenti per il vantaggio di essere contemporaneamente vicino a Roma, a 20-30 minuti dall'epicentro degli interessi di Carminati (il benzinaio-quartier generale di Corso Francia) e lontano dai suoi riflettori, dal momento che se volevi organizzare incontri riservati in queste campagne davi meno nell'occhio. Almeno fino a quando non sono entrati in gioco i Raggruppamenti operativi speciali dei carabinieri.
FARE SOLDI CON GLI IMMIGRATI, ALLA ROMANA
Che fossero tecnicamente mafiosi o meno, senz’altro i criminali romani avevano trovato un modo di lucrare sull’accoglienza. L’incipit di un pezzo di allora:
Trieste. L’economia domestica dei rifugiati è un’arte. Con gli stessi soldi c’è chi riesce a ospitarli, come nel capoluogo friulano, in un tre stelle in pieno centro o in un bed and breakfast vista mare che in estate i turisti si contendono. Oppure, come nel caso romano di un posto noto come hotel Rebibbia, in un palazzaccio lontano da tutto tranne che dal carcere omonimo, dove in pieno inverno l’acqua calda e il riscaldamento «non funzionano» e in cui tutte le prese elettriche tranne una sono state disabilitate per tenere al minimo i consumi di quegli esosi di rifugiati che ogni tanto vorrebbero caricare il cellulare. Generalmente chi sta peggio costa anche di più. Il differenziale deve avere a che fare con l’ormai celebre massima di Salvatore Buzzi, capo di cooperative sociali rosse in affari con i neri nell’orrido plot di Mafia Capitale: «Con gli immigrati si fanno molti più soldi che con la droga». Che sia un’iperbole (il prezzo della cocaina, dal produttore al consumatore, lievita di oltre dieci volte) o una valutazione ragionieristica che sfuggiva al grande pubblico, vale la pena di capire come la solidarietà possa diventare un business. E su quali voci è possibile rubare. A danno degli stranieri assistiti e dei contribuenti autoctoni.
La cifra totem è 35 euro. I soldi che, stando alla disinformazione incendiaria che circola nelle periferie arrabbiate, andrebbero ogni giorno in tasca agli immigrati. In verità si tratta dello stanziamento che il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) ha previsto. «Il 99 per cento di questa somma» spiega Laura Famulari, nella sua stanza di assessore al sociale del comune di Trieste, «resta nell’economia locale». Sul tavolo ha una relazione aggiornata che dettaglia la destinazione media del denaro pubblico: 13,50 euro per l’alloggio (dai 4 negli appartamenti ai 19 negli alberghi, l’ultima spiaggia), 8,50 per il vitto, 9,50 per il personale, 1 per la pulizia e infine 2,50, la vera diaria per piccole spese. L’idea di lucrare sui disperati appare esotica: «Noi scongiuravamo che non ci mandassero troppe persone da Mare Nostrum perché ne avevamo già troppe». Mentre Luca Odevaine, altro imputato in Mafia Capitale, chiede di spedirne a Roma dieci volte di più, da 250 a 2500. Generoso, con gli amici.
MENTRE A PRATO I CINESI…
I cinesi italiani son stati sempre raccontati come mafiosi. Ma, come mi spiegava una sinologa italiana che abita a Parigi, lì nessuno da degli evasori ai cinesi perché quasi nessuno in Francia evade. Gli immigrati prendono la forma del posto dove vivono. A Prato, dunque, ci sono anche i cinesi criminali. L’attacco:
PRATO. Nella piazzetta di via Pistoiese, quella famosa per i tazebao con gli annunci di lavoro, ora stazionano quattro auto della polizia. Controllano le auto che passano per la modesta arteria della Chinatown pratese. «Fermano solo loro» assicura Luciano Luongo, un prof di lettere che l'attraversa sempre indenne. Chiedo a un agente se quel vistoso dispiegamento ha a che fare con i recenti raid contro la «mafia cinese». «No, controlli di routine ma di mafia qui...» e conclude con un gesto della mano che allude a grosse, inconfessabili quantità. L'esibizione muscolare delle forze dell'ordine nella città più cinese d'Italia non si ferma ai posti di blocco. Di notte, con coreografia alla Apocalypse Now, sempre più spesso si alzano in volo elicotteri che piombano su fabbriche gestite da orientali. Trecento controlli l'anno scorso, il doppio previsto per quest'anno. Non c'è dubbio su quale sia stato lo scoglio etnico contro cui s'è schiantata la barca del centrosinistra dopo sessantatré anni di governo della capitale del tessile. E la nuova giunta di Roberto Cenni, fondatore della catena di confezioni Sasch, accusata dall'opposizione di delocalizzare a sua volta in Cina, ha imparato la lezione. Quindi non sorprende, in questo clima da pericolo giallo, che la notizia del blitz anti-riciclaggio su scala nazionale si conquisti tutte le prime pagine dei giornali locali.
Operazione Cian Liu, l'hanno chiamata: 8 regioni, un centinaio di indagati, 17 cinesi e 7 italiani arrestati. Oltre tre miliardi di euro che, dal 2006 al 2009, hanno lasciato Prato, il fiorentino e l'Italia intera per andare a ingrossare oscure casse cinesi. Attraversando l'oceano nei canali opachi dei Money2Money, money transfer fondati e gestiti da un'organizzazione sino-italiana. Chi li spediva, chi li riceveva e soprattutto che origine avevano quei soldi? L'accusa è riciclaggio. Sarebbero i proventi dei reati più diversi, dalla contraffazione all'evasione fiscale, dalla tratta di clandestini alla prostituzione. I media hanno titolato «mafia cinese», creatura giudiziariamente sfuggente ma di sicuro appeal popolare. È il capo di imputazione del pm, derubricato poi ad associazione per delinquere semplice dal gip Michele Barillaro. Nel dubbio, il ministro dell'Interno Roberto Maroni si è congratulato con la guardia di finanza: «La lotta alla mafia, anche a quella cinese, proseguirà senza tentennamenti». Ma di cosa parliamo quando parliamo di mafia cinese in Italia?
L'ipotesi maior prevede un coinvolgimento diretto delle Triadi nel nostro paese. Come la Cina manifatturiera invade il mondo con le sue merci, quella criminale esporterebbe i suoi gangster in occidente. L'unico riscontro giudiziario riguarda però l'operazione Gladioli rossi (dal tipo di fiore che veniva recapitato come minaccia di morte) che nel '98 aveva smantellato a Firenze la famiglia Hsiang che manteneva rapporti con membri delle Triadi a Parigi. L'ipotesi minor, falsariga di quest'indagine, è invece di cinesi che vivono qui da tempo e avrebbero ricostruito una struttura mafiosa.
A LAMEZIA C’ERA SPERANZA
Qualche anno fa mi mandarono a scrivere di un sindaco calabrese che non sembrava certi sindaci calabresi. Eccolo:
LAMEZIA TERME. Il sindaco vorrebbe l'insalata di mare ma è finita. «E il pescespada?», «Fenuto». Il prosciutto anche. Idem gli spinaci. E le pesche. Il cavolfiore c'è ma congelato («fa lo stesso») assieme a una fettina di manzo che a tirarla per terra rimbalzerebbe. D'altronde alle tre di pomeriggio il meglio se n'è andato. Va così tutti i giorni, tutti i giorni che si ricorda di pranzare almeno. Gli altri commensali ci ridono su. Ormai hanno sintonizzato il loro orologio gastrico sul fuso del primo cittadino. Intorno a quel tavolinetto di formica, in quel locale illuminato da un neon triste, solitario e finale, continuano ad infervorarsi su piani regolatori, fondi europei e «il sogno di una casa-museo da dedicare a Franco Costabile», un poeta ermetico locale che Google evidentemente sottovaluta, morto suicida a quarantun'anni. Alla fine il primo cittadino è il più veloce a guadagnare la cassa. Sono ventiquattro euro per cinque persone. E in quello scontrino, e nel quadretto mesto e febbrile della colazione di lavoro appena conclusa, c'è il marchio di fabbrica di questa amministrazione. La giunta Speranza. Che è sia l'attributo di un cambiamento possibile che il cognome di Gianni, l'uomo che da cinque anni lo incarna.
Apparenti predestinazioni onomastiche. Bill Clinton era nato a Hope, speranza, e i suoi spin doctor ci hanno ricamato sopra non poco. E quando nel 2005 il comune di Lamezia Terme è uscito dal secondo commissariamento per infiltrazioni mafiose ed è andato al voto, questo cinquantaseienne prof di storia e filosofia che sembra il gemello mansueto di Oliver Stone era sia il nome che l'uomo giusto al momento giusto. Segretario del Pci di Cosenza a 25 anni lascia la politica con la morte di Berlinguer. Quindi si laurea e comincia a insegnare, dedicandosi anche al volontariato, dentro e fuori l'Arci. «Nel 2001 la destra vince con il 70 per cento. L'anno dopo arriva lo scioglimento. La città sembrava irrecuperabile. E ho pensato, assieme ad altre persone, che era arrivato il momento di fare le cose che dicevo da ragazzo» spiega dal suo ufficio comunale dove passa le giornate schermato da due segretarie e alcuni commessi. Ovvero dimostrare che una politica pulita era possibile anche in mezzo al fango più implacabile. Detta altrimenti, mettere in pratica la lezione di Berlinguer. Il suo partito naturale, l'ennesima incarnazione del Pci, però non lo candida. Ci pensano due liste civiche. Vince con il ?? per cento. E il giorno stesso qualcuno incendia con cinque litri di benzina la porta del consiglio comunale. Benvenuto in 'ndranghetaland. «In campagna elettorale avevo detto che non volevo i voti della mafia. Che se mi eleggevano non avrei governato in nome loro». Vorrebbero dargli subito la scorta, ma lui preferisce di no: «Sarebbe stato l'opposto di quel che volevo incarnare: un sindaco vicino ai cittadini». Il prefetto gli dà retta. Ma dopo due settimane arriva una busta che contiene bossoli e riferimenti inquietantemente precisi a sua figlia piccola. Prima gli affiancano un agente in borghese poi, dopo altri proiettili per corrispondenza, un'auto fissa della Guardia di finanza che non lo lascerà un secondo. Passa tre anni sotto tutela prima che ritengano che il pericolo imminente è passato. «È stato pesante» racconta oggi «soprattutto perché non volevo che in paese si facessero l'idea che mi ero montato la testa. Volevo, soprattutto, che la gente avesse anche fisicamente accesso a me in un comune che li aveva abbandonati da troppo tempo a se stessa».
Epilogo
Cambiando argomento sulla newsletter del Venerdì ho commentato una lettera aperta di oltre mille specialisti che dicono che sarebbe il caso di rallentare con l’intelligenza artificiale.
Il fatto che la firmi anche Elon Musk, uno che nel 2015 aveva denunciato i «rischi esistenziali» dell'intelligenza artificiale salvo poi inserire AI nei nomi degli ultimi suoi due figli, non deve confondere: la lettera aperta che chiede di mettere in pausa la ricerca sull'Ia va presa terribilmente sul serio. Non fosse per il fatto che il suo primo firmatario è Yoshua Bengio, uno dei tre vincitori dei Turing Prize, il Nobel del settore. Che è come se Henry Ford avesse scritto un manifesto preoccupato della diffusione delle automobili. Nei primi posti della lista figurano anche Steve Wozniak, il cofondatore della Apple, e un buon numero di giganteschi scienziati informatici. Compreso Max Tegmark, presidente del Future of Life Institute al Mit e uno che che otto anni fa, quando l'avevo conosciuto a Austin, Texas, in occasione del raduno annuale dell'Association for the Advancement of Artificial Intelligence (AAAI) già si interrogava su come insegnare alle auto senza pilota chi sacrificare, tra un giovane e un vecchio, in caso di collisione inevitabile. Dunque questi signori scrivono: «Dovremmo lasciare che le macchine inondino i nostri canali di informazione con propaganda e falsità? Dovremmo lasciar automatizzare tutti i lavori, compresi quelli più soddisfacenti? Dovremmo sviluppare menti non umane che alla fine potrebbero superarci in numero, intelligenza, fino al punto di renderci obsoleti e sostituirci?» (virgolettato tradotto da DeepL). Chiedono una pausa volontaria di sei mesi nella ricerca, per fissare paletti condivisi. In sua assenza, una moratoria imposta dagli stati. È una richiesta molto seria, fatta da gente che – a differenza della stragrande maggioranza della popolazione – sa esattamente di cosa stiamo parlando. Liquidarli come luddisti sarebbe una barzelletta.