#91 Contrordine compagni capitalisti
De Benedetti & Bernabè cantano la Marsigliese; quando il Fmi disse che il neoliberismo era un errore; l'arte di scrivere saggi
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Prologo
Tempi interessanti quelli in cui Carlo De Benedetti scrive un libro in cui sembra Elly Schlein e Franco Bernabè un altro in cui sembra Riccardo Staglianò versione Gigacapitalisti. Se c’erano ancora dubbi che non è più il momento (sempre che ci sia mai stato) di presidiare il centro politico, questi ultimi testacoda libreschi dovrebbero far capire che no. Che la sinistra faccia la sinistra, se no che ci sta a fare?
CDB E BERNABÈ DICONO: AVANTI POPOLO!
La settimana scorsa sul Venerdì ho fatto una specie di recensione doppia a due libri sorprendenti rispetto alle biografie dei due autori che, in vecchiaia, smentendo la teoria dell’incendiario che finisce pompiere, si scoprono più radicali.
Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del capitalismo. Sentite questa frase: «Sono maturi i tempi per un nuovo socialismo, radicalmente ambientalista, che riparta dai temi del lavoro e della sostenibilità per riconquistare un popolo perso nelle nebbie dello scontento». Un pezzo del programma di Elly Schlein? Macché, un passaggio di Radicalità, il sorprendente libro di Carlo De Benedetti, dalla Fiat a Cir, “razza padrona” in purezza. Oppure questa: «Le tecnologie hanno anche creato enormi concentrazioni di ricchezza che sfuggono a un controllo democratico (...) e hanno polarizzato il mercato del lavoro. Tutto ciò ha compresso e impoverito la classe media che rappresentava il baluardo della stabilità sociale e ha radicalizzato l’elettorato di molti paesi rafforzando i movimenti di estrema destra». Presa dall’acuminato Profeti, oligarchi e spie di Franco Bernabè (e del giornalista Massimo Gaggi) che ha guidato alcune tra le più grandi aziende del Paese, da Eni a Telecom Italia.
Due atti d’accusa cristallini sugli effetti nefasti di globalizzazione e neoliberismo come da sinistra, almeno dal centrosinistra governista delle tante, sempre più sbiadite permutazioni del Pci, si era persa memoria. Tempi interessanti quelli in cui aquile in doppiopetto sartoriale volano, almeno intellettualmente, dove gli spaventati passerotti progressisti non osano più. Tempi che forse spiegano perché una trentasettenne, con parole chiave più nette del solito, abbia espugnato il fortino del principale partito progressista.
È proprio il capitalismo, arriva a dire l’ingegnere con il lessico di chi protestava a Occupy Wall Street («la globalizzazione che ha distrutto i sindacati e disgregato e precarizzato il lavoro»), che non funziona più. E siccome si rende conto dell’effetto che un’affermazione del genere, in bocca sua, potrebbe sortire chiama in correità l’editorialista del Financial Times Martin Wolf e il fondatore dell’hedge fund Bridgewater Ray Dalio. Sebbene perfezionabile «il reddito di cittadinanza» è «una misura necessaria» dice De Benedetti, staccando in souplesse Enrico Letta, e abolirlo sarebbe «scarnificare la parte più penalizzata del Paese», il sud. Altro che autonomia differenziata, vagheggiata dal governo Meloni, o l’«imbroglio della flat tax» adorata da Salvini. Il nostro ex editore cita Oxfam, quando auspica che nuove tasse dimezzino il numero di miliardari sul pianeta entro il 2030. Ma anche il calcolo di Forbes secondo cui un’imposta supplementare del 2 per cento sul patrimonio di Bernard Arnault, «l’uomo più ricco del mondo, basterebbe a ripianare il deficit del sistema pensionistico francese».
SALARIO MINIMO O AI MINIMI?
Parla ancora di salario minimo come di «emergenza umanitaria» e ironizza sul fatto che «in compenso abbiamo salari al minimo, diminuiti del 3 per cento mentre in Germania aumentavano del 33 e in Francia del 31. Si chiede: «Tutti noi, ma primi fra tutti i sindacati, dovremmo porci una domanda: dove eravamo?». Già. Quindi si sbilancia davvero: «Sono favorevole alla patrimoniale e lo dico dal punto di vista di una persona che questa tassa per decenni l’ha pagata, in Svizzera (di cui è cittadino, anche se ora vive a Montecarlo), nella misura dello 0,9% del patrimonio». Dando una delusione a Matteo Renzi, che il Pd l’ha guidato, e l’ha sempre definita un «clamoroso errore». Chiede anche di ripristinare a livelli europei l’imposta di successione, ipotesi che Draghi aveva fatto rimangiare a Letta con un sibilo. Arriva addirittura a citare Kohei Saito, il marxista giapponese della decrescita, intervistato dal Venerdì e amato giusto dall’intrepida Luciana Castellina.
D’altronde, come spiegava Gramsci, in un tempo in cui «il vecchio agonizza ma il nuovo non è ancora nato», i testacoda ideologici non mancano. Così ci tocca farci spiegare dal numero uno della banca JPMorgan Chase, Jamie Dimon, che le aziende devono pensare al benessere dei cittadini e non solo degli azionisti. O dagli economisti del Mit, fucina di robot che rimpiazzano uomini, quanto sia invece importante tutelarli. Se De Benedetti se la prende soprattutto con l’imbelle sinistra italiana, Bernabè, complice Gaggi che da anni racconta l’America, allarga lo sguardo a Bill Clinton reo di aver rottamato gli ultimi democratici ancorati al New Deal per mettere in pratica «la svolta ideologica neoliberista maturata durante l’amministrazione di Ronald Reagan». Una tumulazione della “Terza via” (CDB definisce «delinquenziale» Blair per la guerra in Iraq) che sarebbe stata impensabile da parte loro ancora pochi anni fa. Così, sotto il compiacente sguardo liberal, la finanza è diventata selvaggia, ha portato alla crisi del 2008 e «contrariamente alla narrazione in positivo degli anni novanta», gli anni in cui Bernabè era già pienamente Bernabè, ha tradito la promessa che la tecnologia avrebbe portato «una società più aperta, informata e consapevole, e dunque più democratica». Che è quanto una pubblicistica critica, cui anche il vostro scrivente ha contribuito, sostiene da tempo a prezzo di sgangherate accuse di luddismo.
BASTA FAR WEST DIGITALE
Per favorire lo sviluppo del capitalismo digitale si è pensato dunque che il modello migliore fosse il Far West. Il Communications Decency Act (1996) ha deresponsabilizzato le piattaforme per i contenuti postati. L’Internet Freedom Act (1998) ha fatto gli sconti ad Amazon a tutto svantaggio dei negozietti. E a rimediare non poteva certo essere Obama, «eletto con il sostegno delle compagnie della Silicon Valley» e con Chris Hughes (Facebook) e Eric Schmidt (Google) nella sua squadra. Giusto negli ultimi mesi del mandato la Casa bianca commissionò uno studio sull’impatto di robot e IA sul lavoro, dagli esiti non tranquillizzanti. Un dibattito, oggi con ChatGPT, più incandescente che mai. Bernabè cita vari studi e non ce n’è uno che neghi che i posti di lavoro diminuiranno e la transizione sarà dolorosa.
I sindacati hanno pronte le contromisure? Alle ultime politiche nessuno ha dato l’allarme. Possibile che tocchi farlo a due manager tra i più navigati e floridi? Certo il «tarlo» dello strapotere dei gigacapitalisti che può «minare le fondamenta della nostra democrazia» con cui chiude Bernabè è una metafora più piccola della talpa marxiana. De Benedetti, quasi ad attutire il colpo, dal canto suo si congeda dicendo che «nella vecchiaia si ritorna velleitari ed estremisti come gli adolescenti». Che, da vecchie volpi, abbiano solo fiutato lo spirito del tempo o che siano genuinamente preoccupati, le loro analisi sono serissime. Il nuovo Pd non potrà ignorarle.
ANCHE IL FMI C’HA RIPENSATO
Nel giugno del 2016 avevo scritto di un’autocritica simile, quella del Fondo monetario internazionale che aveva rivisto la sua posizione sul neoliberismo di cui era sin lì stato vestale indiscusso.
È come se il Papa riconsiderasse l’obbligo di castità per i preti. O il Gran Muftì di Al Azhar autorizzasse merende durante il Ramadan. Oppure se Renzi cominciasse a dubitare della rottamazione. Di questa magnitudine è stato lo stupore di fronte a un articolo dal titolo «Neoliberismo: sopravvalutato?» apparso, tra tutte le possibili testate, sulla rivista del Fondo monetario internazionale a firma dei vice-economista capo Jonathan Ostry e altri due autorevoli colleghi. Concentrarsi sul punto di domanda, soprassalto editoriale in zona Cesarini per attutire il colpo, sarebbe lo stesso abbaglio di chi, davanti alla Luna, non abbia occhi che per il dito. Fino a pochi anni fa la parola con la N, ideologia ufficiosa ma innominabile, non sarebbe apparsa neppure in un memo interno. Oggi, invece, viene sbertucciata coram populo nel sommario secondo il quale «invece di produrre crescita, alcune politiche neoliberiste hanno accresciuto la disuguaglianza, mettendo a rischio un’espansione durevole». Che ne è del Washington Consensus, la cura standard per i Paesi in difficoltà, tutta mercato e liberalizzazioni? E soprattutto: una volta ammesso l’errore teorico, nella pratica cambierà qualcosa?
L’autocritica ovviamente è parziale, ma le due politiche rivelatesi controproducenti sono i pilastri dell’ortodossia economica degli ultimi tre-quattro decenni. Da una parte la liberalizzazione dei capitali, che si spostano senza intralcio nelle nazioni con occasioni più ghiotte. Dall’altra il consolidamento fiscale, meglio noto come austerity, ovvero la convinzione che quando un paese è indebitato deve soprattutto tagliare la spesa pubblica. Riguardo al primo punto gli autori hanno censito, dall’80 a oggi, oltre 150 casi di importanti flussi di capitali verso 50 paesi stranieri. Una volta su cinque quell’improvvisa ricchezza si è trasformata in altrettante crisi. Sul secondo punto, «le politiche di austerità non solo generano sostanziali costi di welfare sul lato dell’offerta (salari e flessibilità, ndr), ma danneggiano anche la domanda, così peggiorando la disoccupazione». Gli autori dunque prendono ulteriormente le distanze dalla tesi, sostenuta tra gli altri da Alberto Alesina di Harvard e dall’ex capo della Bce Jean-Claude Trichet, sui presunti effetti espansivi dell’austerity. Anzi: «Nella pratica una riduzione della spesa pari a un punto percentuale del Pil aumenta la disoccupazione di lungo periodo dello 0,6 per cento e aumenta di 1,5 punti l’indice Gini di disuguaglianza». In buona sostanza: la toppa è peggio del buco.
Una prima abiura del consolidamento fiscale come unica via d’uscita dalla crisi era già arrivata nel 2012 a firma Olivier Blanchard, allora capo economista dell’Fmi. «Ora però la critica si allarga» spiega Maurizio Franzini, docente alla Sapienza e coautore con Mario Pianta di Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle (Laterza), «e si aggiungono nuove tessere teoriche che vanno a formare un mosaico sempre più completo di pensiero alternativo coerente. Che, peraltro, mi trova pienamente d’accordo». Chiedo un’interpretazione autentica anche a Carlo Cottarelli, economista del Fondo più noto da noi come il mister spending review precocemente tagliato dal governo: «Dopo la crisi il Fmi ha cambiato molto le sue politiche fiscali. Nel 2008, per la prima volta, ha suggerito ai Paesi che potevano permetterselo di aumentare i propri deficit del 2 per cento del Pil. Era una reazione realistica allo shock che il mondo aveva subito». Lui, che pure ne aveva sostenuto «la sterzata a sinistra», ha appena scritto Il macigno (Feltrinelli) su come alleggerire il debito e davanti all’articolo dei suoi colleghi oggi fa il pompiere: «Nel senso che, nell’allentare la cinghia, bisogna distinguere tra Paese e Paese. L’Italia, ad esempio, non rientra tra quelli cui l’Fmi consiglia di lasciarsi l’austerità alle spalle. Anzi, insistendo su quella strada, auspicherebbe che raggiungessimo un surplus di bilancio per il 2019. Mentre io sarei già molto contento se arrivassimo a un pareggio».
Il caso resta. L’israeliano Haaretz parla di rapporto «rivoluzionario», il britannico Guardian di «morte del neoliberismo dal di dentro», l’americano Time dei «ripensamenti del veri credenti della globalizzazione». I titoli che mi fanno più impressione sono quelli quasi uguali di Fortune («Anche il Fmi ora ammette che il neoliberismo ha sbagliato») e Forbes («Anche l’Fmi vede 30 anni di neoliberismo come uno sbaglio»). Dove hanno vissuto in questi decenni? Circa le stupefacenti capacità digestive e autoassolutorie dell’establishment statunitense mi viene in mente una battuta fulminante del giornalista investigativo Seymour Hersh: «Stiamo parlando del Paese che ha sganciato la seconda bomba su Nagasaki». Quanto a pentimenti senza conseguenze, neppure Alan Greenspan ci scherza. In un’audizione al Congresso nell’ottobre 2008, all’indomani dell’esplosione della finanza fuori controllo che aveva benedetto, l’ex governatore della Federal Reserve, alla domanda se «la sua ideologia (il neoliberismo, ndr) l’ha spinta a prendere decisioni che vorrebbe non aver preso?» rispondeva così: «Sì, ho trovato un difetto. Non so quanto significativo o permanente esso sia. Ma ciò mi ha molto seccato».
Cambierà qualcosa dopo l’articolo? Ostry, l’autore principale, sul Financial Times ha ammesso che cinque anni fa non sarebbe mai uscito e che è arrivato il momento di riconsiderare tutto perché «la crisi ci ha detto: “Il modo in cui abbiamo pensato non può essere giusto”». Il suo superiore, l’economista-capo Maury Obstfeld, ha minimizzato («Il paper è stato ampiamente mal interpretato»), ha parlato di «evoluzione, non rivoluzione» e ha smentito «cambiamenti importanti nel loro approccio». Però, fa notare Franzini, di fronte a evidenze così precise se non cambieranno le politiche vuol dire che «altri fattori le determinano, di cui siamo autorizzati a non pensare troppo bene». Di certo il braccio che scrive le terapie e negozia i prestiti resta più ortodosso della testa che le concepisce. L’anno scorso, per dire, un altro paper riabilitava i sindacati, stabilendo un rapporto tra loro declino e aumento delle disuguaglianze. Una talpa scava a Washington. C’è solo da capire dove arriverà, quando, e quante macerie per allora troverà in superficie.
L’ARTE DI SCRIVERE SAGGI
Su uno o due Venerdì fa avevo recensito un bellissimo libro:
Arduo è definire il saggio, inteso come genere letterario. D'altronde il nome stesso deriva da tentativo, sforzo. Mix di esattezza e evasione, acuminato e vulnerabile, «una forma in grado di istruire, sedurre e sconcertare in egual misura» riassume Brian Dillon nel suo magnifico Scrivere la realtà (Il Saggiatore, pag. 200, e. 19) che ne tallona la storia «fino all’attuale status di modesta fonte di introiti editoriali». Secondo Starobinski «saggiare deriva da exagiare, che significa soppesare. Un termine affine è examen: lancetta, la barra lunga e stretta sull’asse della bilancia. Il saggio potrebbe quindi essere il soppesare esigente, l’esame ponderato, ma anche lo sciame verbale da cui si sprigiona lo sviluppo». In ogni caso una scrittura senza unità, come ricorda il poeta William Carlos Williams («La capacità di un saggio sta nella molteplicità, nell’infinita frattura, nell’incrociarsi di forze contrapposte»). Dal saggio si deve imparare qualcosa, non foss'altro su noi stessi, ma l'erudizione dovrebbe «fondersi mediante la magia della scrittura in modo tale da non lasciar sporgere un fatto, né lacerare da un dogma la superficie dell’ordito». Conterrà elenchi, repertori, inventari: è il luogo della paratassi. Come disimballare e ordinare i libri, l'esempio benjaminiano dell'eterna procrastinazione, anche il saggio può diventare la «scusa per non riuscire mai a impegnarsi nel progetto di una vita, di un’intera carriera». Frammentaria è la sua natura. Così il testo finisce per diventare «ricettacolo di quanto vola nell’aria e il suo artefice deve stare all’erta in attesa della preda giusta». Attesa languida e sfinente che può impegnare un'intera esistenza. Non necessariamente invano. L'autore cita giganti (Barthes, Woolf, Adorno) e geni misconosciuti come Elizabeth Hardwick che, nel '62, descrive così una dipartita: «È morto, grottescamente come Valentino, con misteriose donne gementi al letto di morte. Gli ultimi mesi, le agonie finali, la fine assolutamente dolorosa sono stati un dramma sordido e spettacolare di cuori infranti, mogli infuriate, medici irritabili, astanti frenetici, dicerie e fraintendimenti, negligenza e permissività omicida». Oppure Cyril Connolly che ha al suo attivo la seguente frase: «Imprigionato in ogni uomo grasso c’è un magro che fa segni disperati per uscire». Il saggio, prescrive Dillon, «dovrebbe avvolgerci in un incantesimo con la prima parola, e noi dovremmo semplicemente ridestarci, rinfrescati, all’ultima». Così avviene col suo e lo ringraziamo.
Epilogo
Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci.
Mahatma Gandhi