#90 La città del futuro avrà gli uffici vuoti?
A New York solo metà lavoratori sono tornati in presenza e non è un problema da poco; il triste risveglio di Manhattan dopo la pandemia; Milano, il vuoto verticale; en attendant l'"acciaio verde"
ARTICOLI. LIBRI. VIDEO. PODCAST. LIVE. BIO.
NEW YORK, LA MELA DIMEZZATA
Sono tornato a New York dopo qualche tempo. Lì la metà dei lavoratori non sono mai tornati in ufficio e le aziende fan di tutto per convincerli a tornare in presenza. Visti dall’Italia, basterebbe obbligarli. Ma la differenza è che lì c’è un mercato del lavoro molto caldo e, se tiri troppo la corda, il dipendente si licenzia e va a lavorare per qualcun altro. L’inizio del pezzo:
New York. Al ristorante Via Carota, dove nel tempo di un’attesa si poteva far fuori una bella fetta di un romanzo russo, ora non si arriva nemmeno in fondo a una rivista. In metropolitana il dibattito tra amici è addirittura su quale posto seduto preferisci: meglio vicino all’uscita o dentro, più riparato? Succede anche che la sontuosa New York Public Library, a dispetto degli orari ufficiali, un lunedì apra due ore dopo il previsto. E nessuno protesti. Non è che «la città che non dorme mai» sta cercando di dirci che, per forza maggiore pandemica, ha provato a fare un pisolino e… le è piaciuto? Certo è che l’eredità del Covid, il work from home, rischia di modificarne i connotati urbani come nessuna crisi mai.
Dal momento che solo metà dei lavoratori è rientrata in ufficio, spendendo 12 miliardi di dollari all’anno in meno in città, la metropoli corre a scartamento ridotto. Di «apocalisse degli uffici» parlano, in un paper recente, ricercatori di New York University e di Columbia. Immaginando il circolo vizioso, lo urban doom loop, che la preparerà: col crollo di lavoratori in presenza sprofonda il valore degli immobili da ufficio. E, con esso, le tasse per comprarli che poi finanziano i servizi locali. Non solo: gente ricca, con mestieri gestibili da remoto, si trasferisce al mare portandosi dietro shopping e tasse sul reddito. Bar e ristoranti soffrono, per non dire della morìa di lavasecco (chi ha bisogno di una giacca inamidata quando legioni restano in tuta alla scrivania?). Metropolitana e treni fanno meno corse. Gli homeless, scarseggiando i pedoni, spiccano. Tutte ulteriori ragioni per abbandonare la città. Dove crescono furti e rapine. Così altri decidono di far le valigie. Ma davvero siamo ai titoli di testa di 2023 Fuga da New York?
Se c’è uno che non ci crede affatto è Daniel Doctoroff, già vice del sindaco Michael Bloomberg che gli affidò la rivitalizzazione del financial district terremotato dall’11 settembre. Come fondatore di Sidewalks Lab, la divisione di Google per innovare le città, ha firmato il piano “New New York”, in 40 punti su 159 pagine, per traghettarla fuori dalle secche del Coronavirus. «Magari la città non sarà la stessa» concede nei locali di Bloomberg Philanthropies, dove ospiti e dipendenti possono approfittare di una colazione stellata, altra strategia per motivarli a presentarsi, «ma potrebbe diventare migliore. A patto di fare le cose per bene». Ovvero lavorare lungo tre direttrici: «La prima è rendere ancora più attraenti alcune zone, sia con interventi strutturali come la ristrutturazione di Fifth Avenue (nei rendering marciapiedi raddoppiati a discapito della carreggiata, in una sorta di cripto-pedonalizzazione, à la Marino) che con eventi temporanei che funzionino da magnete. E poi convertire il maggior numero possibile di uffici in appartamenti visto che, a quanto pare, il lunedì e il venerdì si presentano giusto il 30 e 15 per cento dei lavoratori».
COM’È TRISTE MANHATTAN SOLTANTO DUE ANNI DOPO
La prima volta che ero a tornato a New York dopo la pandemia il cambiamento mi aveva fatto piuttosto impressione e avevo messo in fila un po’ di sintomi qui.
MILANO, IL VUOTO VERTICALE
Andare a Milano, la città degli uffici, durante il lockdown era stato molto istruttivo. Una città spettrale, l’ombra di se stessa. Il pezzo iniziava così:
Milano. Nel momento più ermetico del primo lockdown dentro la Torre Allianz erano ammesse solo ventidue persone. Che con oltre 2.400 metri quadri a testa, più di un terzo di un campo da calcio, significa prendere il distanziamento sociale terribilmente sul serio. Ora il limite è stato alzato a 250 ma in giro per i piani hai la sensazione che, al netto di operai che approfittano del deserto per fare manutenzione, se intonassi uno yodel l’eco lo manderebbe in filodiffusione. Dal grattacielo più alto d’Italia (Unicredit ha più metri ma qui sono 50 piani contro 33) la prospettiva su Milano è inedita, con decisamente più verde del previsto. L’espressione «osservatorio privilegiato», per una volta, da cliché diventa pura cronaca. Si vede nitido il Gran Paradiso, che ci guarda meno dall’alto in basso del solito, ma sul futuro degli uffici nella città fondata sugli uffici c’è ancora una discreta nebbia. Siamo saliti sin qui, ripercorrendo controcorrente l’indice Rt del Paese, per cercare di diradarla.
Quasi tutti gli iconici quartier generali milanesi sono assolutamente interdetti agli estranei. Neppure la disponibilità a sottoporsi a un tampone seduta stante fa abbassare i ponti levatoi. Maurizio Devescovi, direttore generale del secondo gruppo assicurativo al mondo (superato di recente solo dal cinese Ping An) e uno dei ventidue che non hanno mai marcato visita, deve aver valutato che il rischio fosse gestibile. Dal suo stratosferico studio al quarantasettesimo piano, con due pareti-finestre il cui vetro è tempestato di pallini grigi per evitare che il sole arroventi le stanze affiancate, si vede il bosco verticale e si può anche guardare in casa dei Ferragnez, le altre star di Citylife.
Lo svuotamento è iniziato ben prima della pandemia: «Dalla fine del 2016 abbiamo proposto a 600 persone di alternarsi su 300 scrivanie. Diventate, sull’entusiasmo della reazione, 600 e poi 1200. Oggi su 4.500 persone circa 2.400 sono in smart work. Con la formula di una coppia di lavoratori che si mette d’accordo su quando venire in sede, metà del tempo ciascuno». Una scelta, sempre reversibile. Che ha fatto risparmiare almeno un paio d’ore al giorno nel traffico a oltre la metà dei dipendenti che vengono dall’hinterland. Ma se a regime la metà lavorerà da casa – oggi sono praticamente tutti – significa che 25 piani resteranno vuoti? «No» dice Devescovi «aumenteremo gli spazi comuni per migliorare la qualità della vita delle persone, ad esempio la palestra e gli spazi dedicati a chi vuole/deve portarsi i figli piccoli in ufficio, con tanto di educatori a disposizione. Ospitiamo già la Fondazione Milano-Cortina 2026 che a regime occuperà quattro piani». Ancora nel 2016 i loro centri direzionali cittadini erano sette. Oggi due. Domani, verosimilmente, resterà questo. Ad aprire ad altri non ci pensano. «Almeno nei prossimi 8-10 anni ci saremo solo noi qui dentro» garantisce il manager.
È IN ARRIVO L'ACCIAIO VERDE?
Cambiando argomento, ecco l’ultima Galapagos:
Il conte Lev Perovski ha colpito ancora. Perché, dopo essere state impiegate per rendere il vetro ultra-resistente, le perosvkiti, la famiglia di minerali che quasi due secoli fa scoprì sugli Urali ora promettono di rendere la siderurgia "amica dell'ambiente". Che non sarebbe risparmio da poco dal momento che per produrre una tonnellata di acciaio se ne rilasciano nell'atmosfera quasi il doppio di CO2, rendendo l'industria responsabile del 7-9 per cento dei gas serra antropogenici. Sin qui la principale promessa verso un "acciaio verde" era legata alla sostituzione dell'inquinantissimo coke, come reagente per estrarre l'ossigeno dall'ossido di ferro, con il pulito idrogeno. Ma la tecnologia è acerba e i costi della conversione nell'ordine dei miliardi di euro per impianto. E qui entrano in gioco Yulong Ding e Harriet Kildahl dell'università di Birmingham, in Gran Bretagna, proponendo un processo alternativo che riciclerebbe, in un circuito chiuso, il carbonio generato con un risparmio nei dintorni del 90 per cento di emissioni e di un ordine di grandezza sui costi. La spiegazione di come ciò chimicamente avvenga è una giungla di tecnicismi in un cui giusto l'Economist si è buttato uscendone indenne. Per i lettori meno esigenti basti sapere che le perovskiti (nella fattispecie il composto BCNF1), strappano un atomo di ossigeno dalla CO2, lo assorbono nella loro struttura a cristalli e si lasciano dietro un CO che viene utilizzato per la riduzione del minerale a ferro metallico al posto del carbone. Funzionano, con semplificazione da ghigliottina, come spazzini del processo. Spazzini molto efficienti se, in un ulteriore paper, i ricercatori calcolano che con 870 milioni di dollari si potrebbero convertire, in meno di cinque anni, i due principali impianti britannici e l'investimento si ripagherebbe in meno di due anni grazie all'eliminazione del costoso coke dall'equazione. Il tutto al netto del gigantesco guadagno ambientale, pari a un risparmio del 3 per cento delle emissioni britanniche. Presto che è tardi!