#89 Viaggio al termine di Elon Musk
Vi tranquillizza che i testi di riferimento dell'uomo più ricco del mondo siano solo fantascienza?; il posto dove si studia "il futuro dell'umanità"; ritratto di mister Tesla; Gigacapitalisti
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NELLA BIBLIOTECA DI MR TESLA
Fabio Chiusi, che studia da sempre le cose digitali, ha scritto un libro, L’uomo che vuole risolvere il futuro (Bollati Boringhieri) che affronta il grande imprenditore nella sua dimensione ideologica. L’intervista sul Venerdì. Qui un estratto:
Il movente dichiarato dell'agire muskiano è salvare l'umanità. E non nella stanca formula degli startuppari da conferenze Ted («Vogliamo rendere il mondo un posto migliore») quanto nella sua dimensione letterale ed esistenziale. Da dove gli viene quest'afflato?
«Dalle letture. La fantascienza, per cominciare, Asimov su tutti e la sua Legge zero della robotica che, integrando le tre leggi precedenti, afferma che le macchine non dovranno mai nuocere all'umanità. Ma anche da Sam, spalla di Frodo nel Signore degli anelli, che vuole salvare il mondo e riafferma un altro principio muskiano, quello dell'ottimismo anche nei momenti peggiori. Saghe con sviluppi temporali molto lunghi che l'hanno preparato a prospettive di ampia gittata».
Più di recente sul suo scaffale sono spuntati esponenti del cosiddetto "lungoterminismo" e del "pronatalismo": cosa c'è di sbagliato in questi approcci alla moda?
«Parliamo di un gruppo di docenti di Oxford, da Toby Ord che immagina un "precipizio" sul bordo del quale pencoliamo e che potrebbe segnare l'inizio della fine o di Nick Bostrom dell'Istituto per il futuro dell'umanità, oltre che di William MacAskill che col suo "altruismo efficace" era anche l'ispiratore del padrone di Ftx, la piattaforma di criptovalute sensazionalmente fallita anche per le ruberie del fondatore. Tutti costoro sono convinti che il vero imperativo morale sia sventare i rischi esistenziali per l'umanità. Con, in testa, non tanto la crisi climatica ma lo sviluppo incontrollato dell'intelligenza artificiale».
BOSTROM, TRANSUMANISTA PENTITO
Uno degli intellettuali di riferimento di Musk l’avevo intervistato a Oxford qualche anno fa. La cronaca di quell’incontro (qui l’articolo intero, senza paywall) iniziava così:
Oxford. Nella stanza ci sono otto uomini e un transumanista. L’argomento del giorno è la solar radiation management, ovvero come schermare la terra dalle radiazioni del sole. Si tratta di far spruzzare nell’atmosfera, da palloni aerostatici, un aerosol gigante di solfato di zolfo che dovrebbe deflettere il calore. Un fisico va subito sul pratico: «Lo zolfo, ai prezzi correnti, dovrebbe costare circa un miliardo di sterline all’anno. L’intero progetto una decina. Ciò significa che, se anche rimanesse solo l’1 per cento del Pil mondiale, ce ne sarebbe sempre abbastanza per farlo continuare». Un ingegnere problematizza: «Sì, ma chi regolerebbe il termostato?». Se il sangue che scorre negli uffici per divergenze d’opinione sull’aria condizionata è di qualche indicazione, non sarà una barzelletta mettere d’accordo Cina e Stati Uniti. Niente in confronto all’eventualità di un termination shock bisbigliata dal relatore tedesco con espressione grave. Perché se il sistema dovesse funzionare bene, isolando grandi quantità di calore dietro alla barriera vaporizzata, e qualcuno (magari un terrorista) la disattivasse di colpo una vampata gigantesca investirebbe il pianeta con conseguenze catastrofiche. Come se spalancaste un forno che da anni immagazzina energia. Nick Bostrom, il direttore del Future of Humanity Institute, soppesa ogni argomento rigirandosi tra le mani una tazza decorata da cuoricini colorati colma dell’ennesimo caffè. Anni fa, per aumentare la sua capacità di concentrazione, aveva provato col Modafinil, un farmaco testato anche dai militari in Iraq e Afghanistan per restare svegli e vigili per giorni. Il transumanista, ovvero uno che non si rassegna ai limiti che l’evoluzione ha sin qui imposto sull’uomo in termini di potenzialità e durata della vita, è lui. È un aspetto di sé che oggi minimizza. Ancora a novembre scorso, in un torrenziale profilo sul New Yorker, il cronista segnalava l’avvistamento sulla sua caviglia di una medaglietta con i numeri di emergenza della Alcor, l’azienda di crionica che congela il corpo o solo la testa dei suoi clienti nella speranza che tra qualche decennio la medicina sarà in grado di ripararli. Oggi la medaglietta è sparita, o almeno è nascosta meglio («Preferisco non commentare su questo»). Avendo giustamente osservato che il campo dell’intelligenza artificiale, al quale ha dedicato il suo bestseller Super Intelligence. Paths, dangers, strategies (Oxford University Press), è stato molto danneggiato dalle affermazioni di scienziati che sembravano un po’ troppo eccentrici, credo che non voglia correre il rischio che alcune sue convinzioni di contorno dirottino l’attenzione dal piatto principale. Ovvero: esistono vari «rischi esistenziali», dal riscaldamento climatico alla tecnologia fuori controllo, e bisogna occuparsene prima che loro si occupino di noi. Se c’è uno che l’ha preso alla lettera è Bill Gates («Raccomando caldamente questo libro») che ha firmato, assieme a Elon Musk, Stephen Hawking e circa 400 altri scienziati e tecnologi, la lettera aperta che mette in guardia da un futuro prossimo in cui le macchine potrebbero superare gli uomini dal punto di vista cognitivo. «Non necessariamente una singola macchina più intelligente di un umano, ma anche un’intelligenza collettiva che cumulativamente lo supera» puntualizza lo svedese Bostrom, 43 anni, precoce lettore onnivoro, filosofo di formazione, una camicia di lino a righe verticali grigie che fa intravedere una maglietta a righe orizzontali rosse in un labirinto estetico-geometrico senza salvezza, «d’altronde su vari aspetti la comparazione ci vede in svantaggio. I neuroni funzionano alla frequenza di soli 200 Hertz contro i due miliardi di Hertz raggiunti ormai dai chip. Poi c’è la velocità di trasmissione dell’informazione: da 100 metri al secondo a quella della luce. Infine le dimensioni: il cervello ha il limite massimo della calotta cranica, un data server può essere infinito, basta aggiungere nuovi computer». Insomma, se la mettiamo sulla forza bruta non ce la possiamo fare.
VITA E OPERE DI UN “PAZZO” DI ENORME SUCCESSO
Tempo fa ci siamo occupati di raccontare l’uomo e l’imprenditore sulla copertina del Venerdì. Il pezzo iniziava così:
Scartabellando la vita e le opere di Elon Musk uno dei termini che ricorre di più è «pazzo». Davanti a un'aragosta fritta in inchiostro di calamaro il fondatore di Tesla e SpaceX chiede serissimo al suo futuro biografo: «Secondo te sono pazzo?». Ne dibatte spesso anche con l'ultima moglie, la musicista precedentemente nota come Grimes, oggi ribattezzata "c" (il simbolo della velocità della luce) che si definisce «un ibrido tra una fata, una strega e un cyborg» e che da ragazzina ha avuto la sua fase wiccana, un culto neopagano che celebra i cicli della natura, qualsiasi cosa ciò possa significare: «Sono più pazzo io o sei più pazza tu?». Soprattutto la domanda non è suonata peregrina quando, dopo un improvvido tweet a mercati aperti in cui aveva detto che era pronto a ricomprarsi la sua azienda a 420 dollari ad azione (un numero sinonimo di cannabis, per tutta una serie di fumosi motivi che Wikipedia dettaglia), il titolo prima era stato sospeso per eccesso di rialzo, poi l'autorità di Borsa gli aveva fatto due multe da 20 milioni di dollari l'una destituendolo temporaneamente da presidente dell'azienda e infine i suoi consiglieri d'amministrazione gli avevano tolto Twitter per tre mesi. Come a un Trump qualsiasi. Volendo gli esempi potrebbero moltiplicarsi ad infinitum, ma il senso l'avete capito. Se questo cinquantenne che si interroga (in nutrita compagnia) circa il suo stato di salute mentale fosse l'artista più quotato del momento, ci sarebbero precedenti e non scandalo. Ma si tratta dell'ingegnere, come gli piace definirsi, che ha deciso di rivoluzionare i trasporti privati e trasformare l'umanità in una specie multiplanetaria, apparecchiando su Marte il piano b per la Terra in rovina. Uno, per dirla altrimenti, che deve saper far di calcolo piuttosto bene ché altrimenti auto elettriche e razzi si schiantano. E che, sebbene si siano talvolta schiantati entrambi, il più delle volte ci riesce perché nel frattempo le Tesla cominciano a essere avvistate anche sulle strade italiane, i razzi partono alla volta della stazione spaziale internazionale al ritmo di una volta al mese e lui, in tutto questo, ha scalzato Jeff Bezos dal trono di persona più ricca del mondo con un patrimonio personale di oltre 200 miliardi di dollari, il Pil della Nuova Zelanda. O, per dirla con le equivalenze di Gigacalculator.com, «ci vogliono 23 settimane di lavoro a un italiano medio per guadagnare ciò (13 mila euro) che lui fa in 5 minuti». Se non proprio scioglierlo, cercheremo almeno di diradare il mistero dell'imprenditore più «visionario» (l'altro aggettivo ricorrente, nell'anglismo ormai sdoganato) in circolazione.
LA RESISTIBILE ASCESA DEI GIGACAPITALISTI
Su Musk & friends ho scritto anche un libro che si intitola Gigacapitalisti (Einaudi) e che inizia così:
A distanza di tempo il ricordo più vivido che ho della passeggiata sulla versione nautica di Versailles è la schiena di una donna. All'apparenza magrebina, china per terra ad appiccicare pezzetti di nastro adesivo azzurro su scalfitture nel parquet di rovere. Guasti che io, pur sforzandomi, non riuscivo a vedere. Lei sì. Il suo mestiere era di individuare i graffi impercettibili nel pavimento patrizio di quella nave da 160 milioni di euro. E poi quelli sui lavandini in travertino, sulle boiserie alle pareti e così via. A bordo anche la più piccola imperfezione era bandita. Lei doveva denunciarla, appiccicandoci sopra un nastro adesivo blu, e qualche specialista sarebbe intervenuto per sanarla. Mentre camminavo con soprascarpe di gomma per non peggiorare la situazione mi sono chiesto quanto guadagnasse per quel lavoro parossistico e ho provato a immaginarmi che casa avesse lei e quanta acribia potesse permettersi nella sua manutenzione. Milleduecento euro, il suo stipendio mensile, era quanto quella sontuosa abitazione marina consumava di cherosene in mezza giornata per tenere accese le luci. Lo sapeva? Ci pensava mai? E che effetto le faceva questa pantagruelica sproporzione? Centosessanta milioni di euro. Fermatevi un attimo a pensare. In equivalenze al tempo del Covid significano mascherine per tutta l'Africa o prime dosi Astrazeneca per quasi 90 milioni di esseri umani. (...)
Una ricchezza pericolosa (per la democrazia)
La parabola nautica, con i suoi record di business pandemico, serviva solo come location (dove piazzare i nostri eroi) e metafora (dell'andamento strepitosamente anticiclico dei loro portafogli). Ciò che proverò a fare, nelle pagine che seguiranno, è abbozzare un identikit dei campioni assoluti di questa nuova schiatta di ultra-ricchi. Non per invidia di classe – sono decisamente sazio con i soldi che ho e non trovo niente di male nel fatto che ci siano persone che ne hanno tanti di più – ma perché mi sembra che i patrimoni dei Bill Gates, Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg del mondo abbiano raggiunto dimensioni incompatibili con un buon funzionamento della democrazia. Nel senso che quelle spaventose quantità di denaro si traducono inevitabilmente in altrettanto potere. Compreso quello di interferire sulle leggi che decidono ad esempio quante tasse far pagare e a chi (vale la pena rammentare che questi signori hanno tutti almeno due mestieri: il proprio e quello di elusore fiscale). Studiandone le biografie il topos più ricorrente, e storicamente inedito, è che si tratta di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli stati.
Privati come Stati
Gates, come mi ha fatto notare un'amica no green pass al termine di un'intemerata altrimenti piena di fattoidi distorti e sfondoni puri e semplici, se la defezione dell'America minacciata da Trump fosse andata in porto, col suo 10 per cento sarebbe diventato il principale finanziatore dell'Organizzazione mondiale della sanità. Per dire. Bezos, se i suoi piani continuano a marciare come negli ultimi vent'anni, si candida a diventare l'emporio unico dell'umanità. Prima di Musk nello spazio c'erano andati sono Russia, Stati Uniti e Cina. Oggi questo Creso che sembra ancora scontare i danni del bullismo patito da piccolo è il fornitore ufficiale della Nasa per scarrozzare avanti e indietro i suoi astronauti. Nell'attesa di colonizzare Marte. Infine c'è Zuckerberg di cui sempre più commentatori (e investitori) chiedono la testa per offrirla in pasto alla pubblica opinione scandalizzata dalla serie crescente di rivelazioni su un cinismo aziendale innalzato a forma d'arte. E parliamo di uno che, se la sua creatura fosse una nazione, con quasi tre miliardi di cittadini sarebbe più popolosa della Cina. Con un livello di sorveglianza, sia detto per inciso, che Pechino si sogna. Com'è quindi che, nello spazio di una generazione, questi che chiamerò gigacapitalisti (in ossequio sia al gigayacht da 500 milioni di dollari che Bezos si sta facendo costruire dall'olandese Oceanco e che tutti loro potrebbero largamente permettersi, sia ai gigabyte e ai gigabit, unità di misura del mondo digitale di cui sono a vario titolo campioni), com'è, dicevamo, che sono diventati addirittura più potenti dei loro predecessori dell'inizio del secolo scorso?
Baroni di rapina 2.0
Parlo del gruppo di imprenditori statunitensi che nei cinquant'anni tra il 1865, fine della guerra civile americana, e l'inizio della Prima guerra mondiale, fu largamente responsabile della trasformazione della società in cui operavano da agricola a industriale. E che in quel traghettamento ammassarono anche enormi fortune. (...) Ma al di là del pallottoliere, che pur conta, quali sono similitudini e differenze tra i «baroni di rapina» e i «sultani del silicio» secondo una nomenclatura rilanciata dall'Economist qualche anno fa? Molto, rispondeva il settimanale liberale, economicamente super pro-mercato e politicamente conservatore: «Sono gli Übermenschen degli ultimi 200 anni di capitalismo americano, le persone che sentono il futuro nelle loro ossa, lo fanno accadere e a volte si spingono troppo oltre». Che è già, considerata la fonte, un discreto segnale di allarme. E, come i «malfattori di grande ricchezza» di un tempo, anche questi «nuovi capitalisti stanno perdendo la loro patina» accusati da sempre più fronti di applicare le stesse spudorate strategie di subornare politici, impiegare lavoro precario, danneggiare i concorrenti e soprattutto monopolizzare i mercati perché se «Rockefeller una volta controllava l'80 per cento del petrolio mondiale oggi Google detiene il 90 del mercato delle ricerche in Europa e il 67 negli Stati uniti». Ieri come oggi la «somiglianza che colpisce di più è il fatto di aver rimodellato le basi materiali della civiltà». Leland Stanford e E.H. Harriman stesero oltre 200 mila miglia di binari creando le ferrovie. Andrew Carnegie rimpiazzò il ferro con l'acciaio, reinventando l'edilizia e tutto il resto. Ford inaugurò l'era dell'automobile. Bill Gates ha messo un pc in ogni casa. Larry Page e Sergey Brin li hanno riempiti di tutta la conoscenza del mondo. Mark Zuckerberg ha collegato in una piazza virtuale quasi 3 miliardi di persone. «Come le ferrovie resero possibile per oscure aziende di rivoluzionare dal cibo (Heinz) al bucato (Procter & Gamble), internet consente ad altri imprenditori di rivoluzionare ogni cosa dalle vendite al dettaglio (Amazon) ai trasporti (Uber)». Ieri come oggi il successo ottenuto in un settore ha fatto sviluppare loro un appetito insaziabile anche per quelli vicini. Il solito Rockefeller comprò foreste, creò fabbriche per trasformare il legno in barili, produsse componenti chimici per la raffinazione e mise in piedi flotte di navi e treni per trasportare i suoi prodotti. Jezz Bezos dal commercio in proprio è passato ai server che rendono possibile quello di tutti gli altri, alla robotica che gestisce i magazzini, allo streaming che invoglia sempre più persone ad abbonarsi a Prime e così via. Elon Musk dalle auto elettriche alle batterie, ai pannelli solari per alimentarle. L'edizione 2019 del rapporto della Internet Society ha coniato il termine di «total service environments», ambienti a servizio totale. Ovvero della tendenza delle piattaforme a diventare una destinazione onnicompresiva, espandendosi nel maggior numero di direzioni possibili, offrendo sempre nuovi servizi e contenuti, sia per trattenere gli utenti che aumentare i fatturati.
Chiediamo allo storico
Sebbene l'Economist sia un gran giornale, è pur sempre un giornale. Per il raffronto storico meglio chiedere a uno specialista. Noam Maggor, che insegna alla Queen Mary University of London, è l'autore di Brahmin Capitalism che per i tipi della Harvard University Press ha raccontato l'America industriale della fine del diciannovesimo secolo. Dopo le doverose cautele di rito («Paragoni in epoche diverse sempre difficili») approva il parallelo, che può contribuire «a un'utile conversazione pubblica»: «Allora chi possedeva le ferrovie e il telegrafo decideva i prezzi da praticare agli agricoltori che le usavano per spedire le merci o quelli per far circolare le informazioni. Amazon, Google e Facebook non sono in condizioni tanto diverse». «Discriminazione» era il termine che ricorreva più spesso nelle denunce dei produttori di allora: «Non doveva essere un privato a decidere i vincitori e vinti di quel commercio. All'epoca era chiaro ma poi, fino a oggi, la dottrina antimonopolistica è stata interpretata in chiave di consumer welfare, ovvero di tutela dei consumatori dal rialzo dei prezzi. E lì Amazon ha avuto buon gioco nel dire che con loro i prezzi andavano addirittura giù». I parallelismi proseguono, sul fronte della lotta alla sindacalizzazione, tanto odiata dai robber barons quanto dagli odierni gigacapitalisti. «Ma quella di pensare ai dipendenti di Amazon come a un gruppo circoscritto di una fase temporanea – come Lincoln diceva del lavoro in fabbrica, in attesa che ognuno diventasse imprenditore di se stesso – che non ci riguarda è un errore di prospettiva perché il trattamento di quei lavoratori si riverbererà, come sempre è avvenuto, su tutti gli altri» avverte Maggor. Infine c'è l'attitudine dell'opinione pubblica: i gigacapitalisti sembrano più amati che disprezzati. «Anche Richard Hofstadter, uno degli storici più importanti del secolo scorso, sosteneva la stessa cosa dei robber barons» dice Maggor «ma poi storici successivi hanno mostrato gli scioperi, le marce, la violenza: una storia di conflitti. Quando faccio lezione cito l'esempio di George Pullman, il cui nome è diventato sinonimo di bus, che da un giorno all'altro tagliò del 30 per cento i salari dei suoi dipendenti per fronteggiare una crisi economica lasciando intatti quelli dei manager e quando morì dovettero seppellirlo in una speciale cripta di metallo per paura che venisse riesumato per spregio dagli anarchici. Se Hofstadter leggesse oggi Time che celebra Musk come uomo dell'anno, l'ammirazione dei media mainstream nei confronti dei Gates, Jobs e così via, arriverebbe forse alla stessa conclusione. Ma c'è una corrente di odio che non va sottovalutata. La stessa che Trump, fra tutti i politici possibili, è stato così scaltro da cavalcare quando ha puntato il dito contro Big tech in difesa dell'America manifatturiera. Una rabbia montante che, fino al 1930, fu sottovalutata come oggi. Allora c'è voluto un Franklin Delano Roosevelt per incanalarla, ora non so chi sarà, ma so che è un sentimento che esiste e ha ottime ragioni».
...e cosa dovrebbero avere!
(...) Nel 1911, accogliendo l'iniziativa del dipartimento di giustizia, la corte suprema decretò lo smembramento della Standard Oil in trentaquattro distinte società. John D. Rockefeller si ritirò in silenzio da ogni carica. In una recensione sul New Yorker di An Ugly Truth: Inside Facebook's Battle for Domination di Sheera Frenkel e Cecilia Kang Jill Lepore ricorda il ruolo decisivo della Tarbell nell'aver apparecchiato lo spezzatino di un secolo fa. Le assonanze di oggi con ieri sono vistose. Solo la reazione è diversa. Molto più urbana. Anzi questi gigacapitalisti – sarà che trafficano in merci molto meno sporche di petrolio e acciaio – il più delle volte fanno simpatia. Colpa dell'eterno elemento afrodisiaco del potere, di politici spesso non all'altezza della situazione e di tanti giornalisti – o quanti, che si bevono la retorica siliconvallica di «rendere il mondo un posto migliore» o che di ogni nuovo smartphone non trovano di meglio da dire che è «il migliore di sempre» – che preferiscono vestire i panni dei cheerleader che quelli dei guastafeste. Ecco, tra tanti difetti, almeno quest'ultimo ce lo siamo fatti mancare. E in questo libriccino, che vorrebbe essere una specie di keisaku (il bastoncino che il maestro zen usa per ridestare chi, nella meditazione, si assopisce, pur non essendo io né maestro né tantomeno zen), un keisaku editoriale con cui proviamo a dire: fate attenzione. Perché i nostri concittadini hanno dato prova di essere sin troppo zen rispetto alle mostruose disuguaglianze di cui sono vittime o spettatori ma la loro pazienza – immagino, reputo, spero – non è infinita.