#86 Bye bye ufficio
L'avanguardia dei full remote; uffici mezzi vuoti a Milano, anche prima della pandemia; bossware, così ti spio; un deserto chiamato ufficio; è il momento delle Zoomtown?
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Prologo
Si parla tanto di rientrare in ufficio dopo la lunga parentesi dello smart working (a proposito, il termine piuttosto originale, che gli anglofoni non capiscono, è un’invenzione del Politecnico di Milano, in un convegno del 2012) mentre c’è gente che in ufficio proprio non ci ha messo mai piede. Me ne sono occupato nel numero in edicola del Venerdì.
FULL REMOTE, SMART WORKING COME SPORT ESTREMO
È una piccola nicchia o l’avanguardia della globalizzazione dei colletti bianchi, dove al posto degli operai cinesi ci sono i programmatori italiani? Vedremo. Un estratto:
Costantini è assunto da un’azienda italiana, contratto del commercio, reperibilità 9-18. Marino lavora per dei belgi, con busta paga inferiore a loro ma superiore agli italiani. Come tutti gli intervistati assicurano che senza pause caffè et similia la loro produttività è schizzata alle stelle. Ma l’unico modo per far funzionare questo telelavoro estremo è assicurare una buona comunicazione con colleghi e capi. La parola magica è Scrum (Systematic Customer Resolution Unraveling Meeting), un metodo per il lavoro “agile” (pronunciato all’inglese, giacché siamo entrati in una zona linguisticamente settata sul fuso californiano) che, con sintesi da fucilazione, spezzetta i compiti in piccole unità e prevede brevi ma frequenti aggiornamenti sullo stato di avanzamento. Gennaro Varriale, fondatore di Buzzoole che da Napoli si occupa con successo di marketing digitale grazie ai suoi dieci programmatori sparsi per l’Italia, ne è evangelista: «Fondamentali sono le “cerimonie”, ovvero i momenti quotidiani o settimanali in cui si fa il punto della situazione. Peraltro ogni programmatore deve fare note scritte sui problemi che incontra e soluzioni che trova che diventano così conoscenze a disposizione degli altri». I suoi dipendenti hanno massima flessibilità, ma Varriale ridicolizza le caricature di lavoratori a bordo piscina («Col sole sullo schermo non si vede neanche ciò che scrivi!»).
Ci sono gli assunti e i collaboratori. Appartiene alla prima categoria Alessandro Bagnoli, 29 anni, che lavora da Riccione per una fintech svizzera: «Prendo un 30 per cento in più di un pari grado italiano». Per non dire della scrivania da due metri, i due monitor e l’angolino che si è costruito a sua immagine e somiglianza. Non solo: «Se segnalo un programmatore che poi assumeranno mi riconoscono anche 2500 euro per aver portato uno bravo!». Altri mondi. Autonomo invece è il trentaquattrenne Nicola Lamacchia che vive a Brugherio per la fidanzata ma lavora per Percona, specialista americana di database. La partita iva non lo spaventa: «Guadagno il doppio di un italiano, anche se molto meno di un americano, e l’Inps me lo pago io». Il fuso orario per lui non è un problema perché la sua squadra di lavoro è composta da europei e un paio di indiani. Due volte all’anno fanno un incontro globale tra dipendenti («Temevo una specie di Coppa Cobram (la gara ciclistica aziendale di fantozziana memoria) ma alla fine è stato bello, anche se c’ho preso il Covid)». A Giussano, sempre in Brianza, vive e lavora per Sysdig, unicorno italiano che si occupa di sicurezza del cloud, Francesco Napoletano, che da un anno gestisce fullremote.it, newsletter con 3000 iscritti. Dice: «Risparmio due ore al giorno di spostamenti. E se ho una call notturna con colleghi americani mi prendo del tempo per me durante il giorno. Il rischio è impigrirsi, ma ho comprato un cane per costringermi a staccare». Irene Pellicoro si è trasferita a Berlino dieci anni fa («La paga era doppia rispetto a una italiana e da allora è aumentata del 5-10 per cento all’anno») e lavora per una fintech, servizi finanziari innovativi: «La maggior parte ha scelto il lavoro da casa totale, da fare ovunque in Germania. È possibile trasferirsi in Europa fino a tre mesi all’anno, comunicandolo via software aziendale». È felice del cambiamento ma denuncia giornate più dense, dove non è sempre facile fissare paletti su quando smettere di lavorare.
A MILANO AI TEMPI DEL VUOTO VERTICALE
Qualche tempo fa, nel bel mezzo del lockdown mi ero avventurato fino a Milano, per vedere quanto alla lettera avessero preso il lavoro a distanza (spoiler: molto sul serio, già prima della pandemia). Qui l’articolo completo. Segue incipit:
Milano. Nel momento più ermetico del primo lockdown dentro la Torre Allianz erano ammesse solo ventidue persone. Che con oltre 2.400 metri quadri a testa, più di un terzo di un campo da calcio, significa prendere il distanziamento sociale terribilmente sul serio. Ora il limite è stato alzato a 250 ma in giro per i piani hai la sensazione che, al netto di operai che approfittano del deserto per fare manutenzione, se intonassi uno yodel l’eco lo manderebbe in filodiffusione. Dal grattacielo più alto d’Italia (Unicredit ha più metri ma qui sono 50 piani contro 33) la prospettiva su Milano è inedita, con decisamente più verde del previsto. L’espressione «osservatorio privilegiato», per una volta, da cliché diventa pura cronaca. Si vede nitido il Gran Paradiso, che ci guarda meno dall’alto in basso del solito, ma sul futuro degli uffici nella città fondata sugli uffici c’è ancora una discreta nebbia. Siamo saliti sin qui, ripercorrendo controcorrente l’indice Rt del Paese, per cercare di diradarla. Quasi tutti gli iconici quartier generali milanesi sono assolutamente interdetti agli estranei. Neppure la disponibilità a sottoporsi a un tampone seduta stante fa abbassare i ponti levatoi. Maurizio Devescovi, direttore generale del secondo gruppo assicurativo al mondo (superato di recente solo dal cinese Ping An) e uno dei ventidue che non hanno mai marcato visita, deve aver valutato che il rischio fosse gestibile. Dal suo stratosferico studio al quarantasettesimo piano, con due pareti-finestre il cui vetro è tempestato di pallini grigi per evitare che il sole arroventi le stanze affiancate, si vede il bosco verticale e si può anche guardare in casa dei Ferragnez, le altre star di Citylife. Lo svuotamento è iniziato ben prima della pandemia: «Dalla fine del 2016 abbiamo proposto a 600 persone di alternarsi su 300 scrivanie. Diventate, sull’entusiasmo della reazione, 600 e poi 1200. Oggi su 4.500 persone circa 2.400 sono in smart work. Con la formula di una coppia di lavoratori che si mette d’accordo su quando venire in sede, metà del tempo ciascuno». Una scelta, sempre reversibile. Che ha fatto risparmiare almeno un paio d’ore al giorno nel traffico a oltre la metà dei dipendenti che vengono dall’hinterland. Ma se a regime la metà lavorerà da casa – oggi sono praticamente tutti – significa che 25 piani resteranno vuoti? «No» dice Devescovi «aumenteremo gli spazi comuni per migliorare la qualità della vita delle persone, ad esempio la palestra e gli spazi dedicati a chi vuole/deve portarsi i figli piccoli in ufficio, con tanto di educatori a disposizione. Ospitiamo già la Fondazione Milano-Cortina 2026 che a regime occuperà quattro piani». Ancora nel 2016 i loro centri direzionali cittadini erano sette. Oggi due. Domani, verosimilmente, resterà questo. Ad aprire ad altri non ci pensano. «Almeno nei prossimi 8-10 anni ci saremo solo noi qui dentro» garantisce il manager.
BOSSWARE, LA COTTIMIZZAZIONE DELLO SMART WORKING
Qui di seguito una piccola selezione di Galapagos sullo smart working:
Sorridi, il padrone ti guarda. Negli occhi. Dalla webcam del computer. Il cosiddetto smart working, cui solo noi attribuiamo questa connotazione positiva senza sé e senza ma (Intelligente? Dipende. In America è, più fattualmente, work-from-home, WFH), mostra la corda. Anzi, il guinzaglio. Ovvero tutta una serie di software che consentono di monitorare a vari, crescenti livelli di intrusività, l'attività dei lavoratori a distanza. Per quanto tempo hai usato l'applicazione che ti serve per lavorare? Sei davanti allo schermo tutto il tempo? E cosa guardi? Esattamente, quanti tasti batti al minuto (e cosa scrivi)? Intrufolandosi nelle vite dei dipendenti e resuscitando una tecno-cottimizzazione di cui avremmo volentieri fatto a meno. ActivTrak, Time Doctor, Teramind e Hubstaff hanno visto le loro vendite schizzare con il lockdown e sono solo una minima avanguardia del cosiddetto bossware, il software dei capi, com'è stato prontamente definito (qui l'Electronic Frontier Foundation ne offre un'ampia e preoccupata tassonomia). Per completare il quadretto di Panopticon digitale, vien fuori che oltre al controllo automatico anche alcuni dipendenti in telelavoro sarebbero stati adibiti a spiare i loro colleghi.
Il bracciale elettronico di Amazon, che un breve e furibondo dibattito provocò da noi, al confronto potrebbe candidarsi al premio Privacy Champion (come probabilmente lo battezzerebbe un politico italiano). D'altra parte la loro piattaforma Mechanical Turk chiedeva ai freelance che la usavano il permesso di usare la fotocamera del computer per verificare, a intervalli casuali, che fossero davvero sul pezzo, pena decurtazioni di paga.
Ovviamente, come gli hacker e le aziende di antivirus sono lo yin e lo yang della stessa industria, anche il bossware è la levatrice di una serie di nuovi software per scoprirli e disattivarli. C'è solo da capire se il datore, scoperto il tentativo di resistenza, ti licenzierà in tronco o no.
FARANNO UN DESERTO E LO CHIAMERANNO UFFICIO
Ci sono due traduzioni originalissime in inglese per italiani praticamente incomprensibili da inglesi-inglesi. Trattasi di open space e smart working. Il primo, che i nativi chiamano open plan office, è la disposizione delle scrivanie in un unico grande spazio, in teoria per incentivare l'interazione, in pratica per risparmiare spazio e quindi soldi dell'affitto. La seconda è la modalità di lavoro da remoto, che in un anno è passata da interessare 500 mila a 8 milioni di italiani, che gli americani chiamano work from home, lavoro da casa (non necessariamente intelligente). Sul mito del primo approccio è già stato scritto molto. Uno studio recente dimostra che, se l'aumentata collaborazione era lo scopo, non è stato centrato dal momento che le interazioni faccia-a-faccia sono crollate del 70 per cento. «In assenza di barriere fisiche» ha scritto l'Economist «i lavoratori creano un "quarto muro", indicando attraverso espressioni facciali o risposte spicce il desiderio di essere lasciati in pace». Sul secondo fronte la partita è ancora tutta da giocare. La banca Hsbc ha annunciato che consentirà a 1200 dipendenti, soprattutto nell'assistenza clienti, di lavorare da casa anche dopo la pandemia. È parte di un piano che punta a risparmiare il 40 per cento dei costi legati agli uffici.
Come fa carpire bene Workplace, un documentario di Gary Hustwit, ci sono tanti modi possibili per ripensare l'ufficio. Tra cui quello di riprogettarlo, come fa la protagonista società di consulenza RG/A, a partire dalle esigenze dei lavoratori. In alternativa – o come complemento – al lavoro da casa va di moda parlare di hot desk, o come decideremo di ribattezzare le scrivanie a rotazione, dove il primo che arriva meglio alloggia. Ne avevamo parlato anche in un articolo sullo stato degli uffici a Milano, titolato Il vuoto verticale. Superare l'ufficio è un'occasione, ma tutto dipende da come sarà pensata l'alternativa.
È IL MOMENTO DELLE ZOOM TOWN?
Lo smart working ha un buon ufficio stampa. Non si contano gli articoli sulle orde di professionisti già con le valigie in mano per trasferirsi in ameni borghi o in mari cristallini dal momento che le catene alle scrivanie erano ormai rotte. Zoom Town, le avevano anche battezzate. Si scopre, ma va, che era una notizia fortemente esagerata. Il grosso di chi lascia le grandi città lo fa per città più piccole ma vicine, a una fermata di treno o poche di bus. Il 18% di chi ha salutato San Francisco, ad esempio, è finito nella contea di Alameda County, dall'altra parte della baia. Uno studio di CityLab ha calcolato che l'84% di quelli che sono andati via da una delle 50 principali città americane da marzo 2020 a febbraio 2021 sono rimaste nella stessa area metropolitana. Che, al netto dei pochi fortunati che possono trasferirsi in montagna d'inverno e al mare d'estate, mi sembra infinitamente più realistico. Altri ricercatori americani, stavolta dell'università di Chicago, hanno anche calcolato che quando la pandemia finirà circa il 20% delle giornate lavorative si svolgeranno da casa contro il 5% di prima (avevamo scritto su Milano). È un grosso cambiamento ma non una rivoluzione. Comuni particolarmente previdenti si interrogano su come diventare attrattivi per potenziali nuovi residenti. Robert Luongo, il city planner di Weymouth, 58 mila abitanti a un tiro di schioppo da Boston, dice a Wired: "I negozi torneranno? La gente è stanca di ordinare online tornerà a uscire? La verità è che non abbiamo idea di quel che succederà". Risposta onesta. Intanto in Italia, dove notoriamente mancano i dati, l'osservatorio Facile.it registra una tendenza: nel primo semestre 2021 il 77% degli italiani ha chiesto mutui per case in comuni sotto i 250.000 abitanti, sottolineando che si tratta di +7% rispetto al 2017. Che non è la fine del mondo. E soprattutto non sappiamo dove vivevano prima. Zoom Town è un termine efficace ma è presto per dire se si può tradurre.
Epilogo
Bye bye, dall’ufficio.