#81 2022, la mia top ten
Ce la farà Gualtieri?; Frisco inferno; homeless a Helsinki: marcia su Lucca; rigassificare Piombino; più eolico; Greta è cresciuta; la settimana di 4 giorni; Voghera spara; l'inventore del metaverso
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Prologo
Dovevo andare a New York, ferie lungamente rimandate, un bel programmino, tutto cospirava per dieci giorni di felicità. Peccato che una lombalgia diventa un’ernia («Bella grossa, chirurgica» si congratula il tecnico della risonanza magnetica, con un ghigno da Menghele). Un passo una stilettata al cervello. Mi fanno un cannone di cortisone direttamente nella L4. Riposo assoluto per almeno due settimane. fisioterapia. Scongiuri. C’è di peggio, per l’amor di dio, ma poteva andare anche meglio. Da qui l’ispirazione iconografica per quel gran genio di David Shrigley. La versione britannica di quando mio nonno (ormai sempre più mon semblable, mon frère: anche lui aveva ernie, ma almeno sollevava pesi) diceva: «Bel tempo e brutto tempo/non durano mai tutto il tempo».
Di seguito un’auto top-ten della mia produzione di quest’anno sul Venerdì, la più bella rivista che esista in Italia («E ci dispiace per gli altri/Che sono tristi, che sono tristi/Perché non sanno più cos'è l'amor»)
1. ROMA, BELLA E PERDUTA
Poche settimane fa mi sono arrischiato a scrivere di Roma, città apparentemente ingovernabile, nel tentativo di capire se il sindaco Gualtieri, persona stimabile ma a quanto pare poco visibile in città, stesse facendo bene o no? Non lo so ancora. Spero di non essermi fatto abbindolare ma ho deciso di credere che l’uomo si sta dedicando ora alle cose difficile e invisibili per poter portare a casa poi risultati importanti più in là. Vigileremo:
ROMA. «Segui il sindaco!» intima un addetto dello staff ad Augusto, autista di vari primi cittadini, a bordo di una nevratile Y10. L'uomo obbedisce ma poi dissente: l'auto blindata davanti a noi ha, senza ombra di dubbio, preso una strada sbagliata. Gli agenti campani hanno fiduciosamente digitato "protezione civile" e Google Maps li sta portando altrove. Ed è così che il romanissimo dipendente comunale prende il comando e, a dispetto della bomba d'acqua che minaccia la capitale, porta a destinazione Roberto Gualtieri e il piccolo drappello dell'informazione. Che aveva il compito di raccontare una giornata con lui tra convegni sui femminicidi, inaugurazioni di parchi, visite a mercati rionali, varie ed eventuali in una città dove esplodono i cassonetti, prendono fuoco i bus e le strade sembrano bombardate di fresco. Per provare infine a rispondere a una domanda che, come un perfido ponentino, spettina le certezze anche di tanti che l'hanno votato. Ovvero: oltre all'annuncio del termovalorizzatore, che non è poca cosa ma dovrebbe diventare realtà nel 2025-26, che cosa ha fatto l'ex ministro dell'economia nel suo primo anno di consiliatura? O, per dirla con la feroce sintesi tutta romanesca di un tassista (di Samarcanda, badate bene, la cooperative più de' sinistra): «Gualtieri? Gualtieri chi?!?». Segue articolo in tre atti, tanti quante le occasioni avute per vedere l'uomo all'opera, con l'avvertenza quasi cechoviana per cui se al primo atto appare una musica di Morricone con ogni probabilità entro il terzo ci sarà un duello.
ASSOLO ALL'AUDITORIUM
Tutto ha inizio il 23 aprile con un messaggio WhatsApp al portavoce. In verità avevo chiesto l'email a un collega ma ho capito presto che il Campidoglio è un territorio dove la "chiocciola" è animaletto bandito e si comunica solo via WA, con un non infrequente ricorso ai vocali, scusabili giusto per neo-mamme troppo indaffarate per digitare. «Ci piacerebbe raccontare una giornata del sindaco, da mattina a sera. Ci possiamo lavorare?». La risposta arriva a stretto giro: «Sì ci lavoriamo». Seguono reminder. Rassicurazioni. Penultimatum. Sopravvenuti impegni del cronista. Alla fine di settembre viene fissata la data del 28 ottobre (sei mesi dopo la richiesta originaria), senonché scopriamo che l'8 novembre il sindaco, evidentemente intercettando una curiosità diffusa, presenterà all'Auditorium il bilancio del suo primo anno. Quindi tanto vale andare lì e capire se il resoconto è esaustivo o c'è margine, dopo, di approfondire. L'atmosfera è a metà strada tra la serata finale degli Oscar e un evento aziendale con forte ricorso a truppe cammellate, come si desume dall'imponderabile scatto degli applausi che non rispondono a logiche da comuni cittadini, tipo le mani spellate quando nomina il prefetto Frattasi. Distribuiscono anche un elegante quadernino rosso curato dalla Treccani che ha sulla copertina la voce "ripartire". L'inizio è previsto per le 18 ma l'evento, con scandalo forse solo per gli alloctoni, non inizierà che 35 minuti più tardi. Sul palco giusto il sindaco, molto in palla, davanti a un leggio per una performance che immagino lungamente preparata per recuperare in 70 minuti no stop 365 giorni di comunicazione perduta. Concetti chiave: «Roma si è rimessa in moto dopo almeno dieci anni di declino»; «Stiamo mettendo basi per trasformazione dopo aver trovato macchina amministrativa completamente ferma»; «Oggi la città è più pulita, ma non ancora come merita». Passaggi memorabili, anche se di grandezza e significato assai disomogenei tra loro: grande soddisfazione per un punteggio di 6,74 come qualità della vita, il più alto da quando lo misurano; tempo per avere carta d'identità digitale passato da 3 mesi a 1; rifiuti in discarica dal 30 al 3 per cento (ma è solo un piano); bandi per assumere due (sic) giovani agricoltori; l'introduzione di un bot che, grazie all'intelligenza artificiale, dovrebbe rispondere alle domande dei turisti. Sul finale una gragnuola di titoli di attività svolte o annunciate che si affollano sul grande schermo alle spalle del sindaco, fino a saturarlo. A chiudere, con una rima sin troppo baciata rispetto alle ultime parole dell'oratore, parte Rome Wasn't Built in a Day dei Morcheeba, gran classico del 2000 verosimilmente recuperato dall'ampio canzoniere giovanile del politico-chitarrista. La sensazione complessiva, a caldo, è di fastidio: cosa c'è, esattamente, da festeggiare? Non era meglio un po' più di understatement, peraltro da una persona seria e secchiona cui dovrebbe venire naturale, cui è capitata – essendosi candidato – la patata amministrativa più bollente del Paese? Tipo dire: «Cittadini, capisco il vostro scoramento: avete visto ancora poco o nulla perché il lavoro è addirittura più difficile del previsto. Però io ho una visione, ora ve la spiego e alla fine del quinquennio mi promuoverete o boccerete». Chiunque abiti a Roma sa che l'ordinaria amministrazione qui, tra gabbiani saprofaghi su ziggurat di rifiuti e strade che diventano torrenti urbani alla prima pioggia, varrebbe da sola un soggetto su una metropoli distopica. E allora perché menzionare l'ultimo tormentone urbanistico, la «città dei 15 minuti», ovvero con tutti i servizi raggiungibili a piedi, che sarebbe bellissima se in quel medesimo intervallo qui non riesce a passare neanche il celeberrimo 64, torpedone preferito dai borseggiatori? Quindi torno in redazione contrariato andante.
2. SAN FRANCISCO INFERNO…
A marzo sono andato a San Francisco per vedere gli effetti di disuguaglianza + Covid sugli homeless della città. Spaventosi:
SAN FRANCISCO. La scena più tremenda, nel film soft-horror che questa città è diventata, si materializza verso le sette di sera di un ordinario venerdì. Sotto alle vetrine piene di Rolex di Tourneau, nel baricentro commerciale di Market Street, c’è un uomo che striscia, a scatti, come tarantolato, con metà sedere fuori dai pantaloni e la faccia nell’angolo tra marciapiedi e parete del negozio. Un poliziotto lì vicino non fa niente, come non faccio niente io tranne restare pietrificato, né i passanti evidentemente abituati allo spettacolo. Quella stessa mattina, alla fermata Powell della metropolitana (come dire Piazza di Spagna o Montenapoleone) un altro vomita e barcolla pericolosamente sporgendosi sui binari. Nel pomeriggio, la vicinissima South of Market è una piazza di spaccio a cielo aperto, con tante tende di polipropilene azzurro, quello delle buste dell’Ikea, piene di esseri al grado zero dell’umanità. Come un campo profughi qualsiasi, se il campo profughi fosse però pieno di tossici all’ultimo stadio e si trovasse nel cuore di una delle città più oscenamente ricche del pianeta.
Qui, l’anno scorso, i morti per overdose sono stati più del doppio di quelli per Covid (697 contro 257). A dicembre la sindaca ha dichiarato, non senza polemiche, lo “stato di emergenza” per il Tenderloin, la zona più centrale e più disastrata. Che oggi ospita il Linkage Center, un grande recinto dove i messi peggio ricevono il naloxone, una specie di metadone, in un tentativo disperato di non farli andare all’altro mondo. Noi, i ragazzi dello zoo di San Francisco potrebbe essere il seguito americano del film che colonizzò l’immaginario psicotropo dei ragazzi degli anni 80. Come siamo arrivati a questo punto?
3. …E LA VIA FINLANDESE AGLI HOMELESS
Qualche mese dopo, incuriosito da un articolo dell’Economist che ne lodava la formula, sono andato in Finlandia per capire come, spendendo meno, erano riusciti a ottenere per gli homeless tanto di più che in California (un paradosso simile a quello della sanità).
HELSINKI. Sul letto singolo in ferro bianco c'è un piumino rosa con tre cuscini fucsia e un grande orso di pelouche, sempre nel colore più schifato dalle femministe, con un cuore rosso cucito sulla zampa. Sotto la tv puttini in ceramica; sopra, una cornice multipla per foto con al centro la scritta Love. Se non fosse per la testa di Bob Marley stampata su un manifesto di stoffa nessuno potrebbe dubitare che si trattasse della cameretta di una decenne in fiore. E invece ci vive Tuja, cinquantadue anni precocemente appassiti grazie a una potente marinata di droghe e alcol. Con un figlio che occasionalmente la viene a trovare, due figlie di cui preferisce non parlare e il dolore di un paio di cari amici morti di recente. Scalza, con una vezzosa cavigliera, chiacchiera al tavolino con un'ospite. Dopo anni a dormire per strada e un passaggio in una struttura più tradizionale ha finalmente vinto l'equivalente della lotteria essendo stata ammessa qui, nella tranquilla via Alppikatu, assieme a un'ottantina di altri ospiti. In una delle comunità assistite che, sfidando la candidatura al Premio Lapalisse, han deciso che per risolvere il problema dei senzatetto non ci fosse niente di meglio che mettergliene uno sulla testa. Compiendo così una rivoluzione silenziosa (i beneficiati sono categoria senza ufficio stampa) che confina col miracoloso: mentre in tutta Europa gli homeless aumentano, in Finlandia sono calati di oltre la metà. Com'è stato a possibile?
La risposta breve è: volendolo fortemente. Tutti insieme: comune, governo, chiesa. E poi facendolo, secondo un approccio sperimentale già visto all'opera per il reddito di base, testato per due anni, verificato e non ripetuto perché il benessere dei partecipanti era aumentato ma non le immissioni nel mercato del lavoro. Questo non è un paese per guerre di religione: se hanno un problema cercano una soluzione, se non funziona ne cercano un'altra.
4. LA MARCIA SU LUCCA
Quest’estate, prima della vittoria della Meloni, sono andato a Lucca per cercare di capire come una giunta di destra, con una non irrilevante trazione ideologica di Casapound, era riuscita a espugnare la cittadina notoriamente democristiana. Con il non imbarazzato aiuto di tanti ex-elettori di sinistra. Che poi si sono arrabbiati di come erano stati raccontati.
LUCCA. A domanda di Aldo Grandi, autore di una biografia di Almirante, di una fatwa contro la salute della Boldrini e direttore di La gazzetta di Lucca, il neo-assessore Fabio Barsanti risponde di essere stato con Casapound a Milano per festeggiare i fasci di combattimento fondati da Benito Mussolini cento anni prima. «Allora hanno ragione quando dicono che lei è, fondamentalmente, fascista?»: «Non l'ho mai negato». «Legislazione razziale?»: «Un errore». «La Repubblica di Salò?»: «Un onore». E via amabilmente conversando di quando ci vollero venti di sinistra per picchiare lui da solo. L'intervista, impeccabilmente titolata «Fabio Barsanti, fascista senza se e senza ma» è dell'8 aprile 2019 ma non si trova più sul sito che la ospitava, per un repulisti generalizzato degli archivi. Un disservizio che non sarà dispiaciuto per ambizioni istituzionali del fondatore di Casapound nella cittadina toscana una volta famosa per essere la mosca bianca democristiana in terra di comunisti. E che oggi ha aggiornato l'anomalia virando decisamente sul nero.
Al secondo turno del 26 giugno scorso i pochi votanti andati alle urne (4 su 10) hanno mandato con una maggioranza risicata (51 per cento) al governo della città Mario Pardini, ex presidente di Lucca Comics, con il cospicuo supporto (la sue liste hanno preso il 9,5%, solo un punto in meno di quella del sindaco) del neofascista Barsanti. Che, per rendere possibile l'exploit, a differenza di cinque anni fa non si è presentato sotto le insegne di Casapound (che pure, con l'8 per cento, fece segnare il record nazionale) ma con quelle della neonata Difendere Lucca. Da chi Barsanti non me l'ha voluto dire. Né ha voluto rispondere a qualche domanda in più sulla sua visione del mondo. Un'occasione persa per provare a capire com'è stato possibile che pezzi di società civile di sinistra, un sindaco in quota Pd e consiglieri cinquestelle abbiano tranquillamente appoggiato un fan del Ventennio. E, soprattutto, se il risultato è frutto di un peculiarissimo cortocircuito locale o si tratti invece di un esperimento di sdoganamento estremo – l'ultima volta che ho controllato avevamo pur sempre una Costituzione antifascista – che potrebbe fare scuola su scala nazionale.
5. PROPRIO A PIOMBINO IL RIGASSIFICATORE?
Più o meno nello stesso periodo mi hanno mandato a Piombino per raccontare la tenzone tra cittadini e stato centrale circa il rigassificatore che Roma aveva deciso di ormeggiare nel porto. Come sempre più spesso mi accade sono partito credendo di avere la risposta (i soliti nymbisti) e sono tornato con una posizione molto più sfumata (dopo tutto quel che hanno dovuto subire, proprio lì dovevano metterlo?).
Piombino. La ruota panoramica di piazza Bovio funziona da macchina del tempo della città. Se ci sali vedi il passato, la cokeria e gli impianti dismessi Ilva, Italsider, Lucchini che l’hanno forgiata. Sei seduto sul presente, ovvero il tentativo di trasformare un luogo di passaggio (per l’Elba) in una destinazione turistica. E non vorresti che quell’aspirazione fosse strangolata in culla dal futuro prossimo, inteso come la scelta della banchina est del porto come attracco della Golar Tundra, il rigassificatore galleggiante da 330 milioni di euro che il governo Draghi ha deciso di stazionare qui come parte della strategia per rendersi autonomi dal gas russo. Decisione che ha saldato un fronte del no locale che va da Fratelli d’Italia a Rifondazione. Contro il quale Carlo Calenda ha ipotizzato di mandare l’esercito, citando il casus come prova ontologica dell’incompatibilità con Verdi e Sinistra. Minaccia che ha galvanizzato i vari comitati civici che ha fatto notare che la nave contestata dovrebbe finire nelle stesse acque in cui, nel ‘500, i piombinesi respinsero l’attacco ottomano. Ieri Barbarossa, oggi la Snam. Con le vetrine del centro che, tra «saldi» in tedesco e cirillico, espongono lo stesso cartello «No rigassificatore» dalla grafica vampiresca. E, ribadendo la tautologia per cui «non esiste rischio zero», paventano disastri per le persone, l’ambiente, l’economia. È l’ennesimo episodio della centesima stagione della serie Nimby o stavolta è diverso?
Il primo livello della storia riguarda il destino di 35 mila piombinesi, 1600 dei quali esistenzialmente ormeggiati in una cassa integrazione lunga 14 anni per tamponare l’ennesimo salvataggio siderurgico fallito. Il secondo interpella il mix energetico di 60 milioni di italiani giacché gli impianti di rigassificazione sono investimenti importanti che si ammortizzano in almeno un quarto di secolo. E costruirli significa prendere una strada alternativa a quella, tanto invocata quanto poco praticata, delle rinnovabili.
6. VIA COL VENTO
Sempre in tema energetico a febbraio avevamo dedicato una copertina a come la Germania facesse sul serissimo sul fronte dell’eolico (magnifico reportage di Raffaele Oriani) e noi, invece, al vento giusto tante parole.
A Riccione vogliono fermare il vento. Con le mani. Di un'inedita coalizione di consiglieri comunali da Fratelli d'Italia al Pd, fino a Italia Nostra, che hanno pigramente ribattezzato «ecomostro» l'impianto eolico che dovrebbe sorgere a venti chilometri dalla costa. Microcosmo locale degli ostacoli nazionali sulla strada verso la decarbonizzazione. Sì perché a quella distanza una pala di 250 metri ingombra l'orizzonte come l'unghia di un mignolo. È come se un pisano avesse da ridire su un grattacielo costruito a Lucca. Nymbismo come malattia infantile dell'immobilismo. Di questo episodio parlo via Zoom, prima dell'infuriare della guerra in Ucraina, con Valentina Bosetti, ordinaria di economia dei cambiamenti climatici alla Bocconi e presidente di Terna, il gestore della rete elettrica nazionale: «Peraltro se scruti il mare dalla riviera romagnola oggi vedi diverse strutture legate alle fonti fossili: quella vanno bene? Preoccuparsi per la flora marina è fondamentale, ma se accetti il problema del cambiamento climatico devi anche accettare di cercare soluzioni. Il solare è una di queste, ma in prospettiva ha un potenziale minore dell'eolico offshore che, tra l'altro, ha anche il vantaggio di non finire nel giardino di nessuno, eppure…». Quindici anni fa, quando da matematica computazionale ha cominciato a occuparsene, l'obiezione era tecnologico-economica: l'energia pulita costava di più di quella sporca. Oggi non più, anzi è vantaggiosa, e la resistenza è amministrativo-psicologica. Ancora Bosetti: «Le aziende pronte a investire ci sono. Ma le ultime aste sono andate parzialmente deserte perché per parteciparvi c'è bisogno dell'autorizzazione. Che magari il Mite (transizione ecologica) dà, mentre il Mibac, la regione, il comune non sono d'accordo. O qualche comitato. Ed è così che, in media, ci vogliono sette anni quando dovrebbe bastarne uno. Si dovrebbe decidere una volta per tutte quali sono le zone adatte, per il sole, il vento, e utili al sistema, e poi procedere». L'emergenza energetica innescata dalle sanzioni contro la Russia per l'invasione rende il discorso, e la transizione, ancora più urgenti.
Lo stesso ministro Roberto Cingolani, con un discreto contorsionismo verbale, aveva dichiarato che l'Italia «arriverà al 72 per cento (di produzione elettrica da rinnovabili, oggi siamo al 38) entro il 2030» ma, se continuiamo a questo ritmo, «ce ne potrebbero volere cento» di anni. Ha ragione Cingolani 1 o Cingolani 2? Tra una crisi e l'altra, ha risposto via email. Sui tempi: «L'accelerazione del decreto semplificazioni (nuova commissione dedicata per la valutazione dell'impatto ambientale; permessi che da 1200 giorni medi dovrebbero scendere a 300; poteri sostitutivi del governo in caso di rallentamenti) consentirà il cambio di passo. Nell'ultima asta del 2021 avevamo assegnato 200 KW; nei primi due mesi del 2022 già 1,8 GW. Ed è solo l'inizio». Tra gli snellimenti di recentissima approvazione «il decreto energia liberalizza le installazioni sui tetti e sulle aree private per autoconsumo». Sul perché la tutela paesaggistica non blocca il resto d'Europa: «Fermo restando l'importanza del paesaggio, le misure per ridurre i cambiamenti climatici devono avere la priorità. Il nostro poderoso piano di installazione di rinnovabili non può e non deve essere ostacolato». Intanto, sull'onda bellica, da una parte il governo ha sbloccato d'imperio sei parchi eolici (e a Taranto sta per completare il primo offshore) mentre dall'altra Draghi ha accennato alla possibile riapertura temporanea di centrali a carbone, col governatore di Banca d'Italia Ignazio Visco che avverte di possibili scostamenti «dal sentiero di decarbonizzazione intrapreso». Vedremo.
7. GRETA È CRESCIUTA
Ho anche avuto la fortuna di intervistare Greta Thunberg, dopo un percorso periglioso in cui mi sono avvantaggiato anche di varie domande predisposte dal mio bravissimo collega Michele Gravino, sul suo libro The Climate Book. Alcune domande e risposte:
Ci sono cose nuove che ha imparato da questo lavoro?
«Ho capito meglio che la crisi climatica è collegata con molte altre crisi. Che è anche una crisi del sistema economico, di oppressione del sud del mondo che ha meno responsabilità ma paga un prezzo più alto. Che l’approccio giusto non è quello binario ma piuttosto quello intersezionale, che analizza non solo l’oppressione ma i modi e le culture che l’hanno generata. Insomma mi ha aiutato a connettere i punti e ad allargare lo sguardo».
Esiste un consenso nella comunità scientifica sulle soluzioni da adottare contro la crisi del pianeta?
«L’unico consenso è sul fatto che rapidissimamente dobbiamo abbandonare la nostra dipendenza dalle fonti fossili. Su come farlo ci sono ancora molte opzioni diverse».
Pensavo a soluzioni come la geoingegneria. Una volta era la scusa usata dai negazionisti per non mettere mano al nostro stile di vita. Oggi anche persone come Elizabeth Kolbert, che firma uno dei contributi, sono più aperte all’idea. Cosa ne pensa?
«Che ancora oggi è spesso una scusa per non cambiare radicalmente le cose. Rischia di essere una grande distrazione. Solo i paesi più ricchi potrebbero provare davvero a mettere in piedi sistemi del genere ma, se le cose andassero male, le conseguenze le pagherebbero maggiormente i paesi poveri che non hanno avuto voce in capitolo nel decidere di realizzare, ad esempio, scudi di aerosol contro i raggi del sole».
La pandemia ha ha dimostrato che, volendo, grandi cambiamenti di abitudini possono accadere di colpo. Perché non succede per i comportamenti che nuociono al clima?
«Perché la gente percepisce le conseguenze come distanti, sia geograficamente che nel tempo. Ma è un errore: basta pensare alle conseguenze delle inondazioni su decine di milioni di persone in Pakistan o quelle che la siccità ha sul cibo di oltre dieci milioni nel Corno d’Africa. Il fatto è che i potenti non sono mai direttamente coinvolti. E le aziende più responsabili dei guasti mettono le loro enormi risorse a disposizione dei lobbisti che puntano a rimandare o negare la necessità di qualsiasi tipo di azione. Diffondendo, com’è successo in passato per altre industrie pericolose, dubbi e altri elementi di distrazione dell’opinione pubblica».
Oppure fingendo di aver capito la lezione, cercando di rifarsi una verginità verde, come succede nel cosiddetto greenwashing?
«Le stanno provando tutte pur di non cambiare niente. Quella del greenwashing è una forza enorme, tanto più ora che le aziende energetiche hanno fatto profitti stratosferici. A voler cercare un aspetto positivo di questa vicenda c’è che il greenwashing è la conseguenza della maggior consapevolezza della popolazione che un cambiamento serve. Prima non serviva perché i consumatori non si rendevano conto di quanto grave fosse la situazione».
La guerra in Ucraina poteva diventare un’occasione unica per spingere sulle rinnovabili e invece registriamo nuovi record di uso del carbone. Non facciamo mai la cosa giusta?
«Dei vari programmi di aiuti finanziari europei solo il 2 per cento è dedicato alle cosiddette energie verdi. È l’ennesimo fallimento. Mentre le compagnie energetiche fanno segnare profitti inediti».
8. È ARRIVATO IL MOMENTO DI LAVORARE 4 GIORNI?
Nei dintorni del primo maggio abbiamo dedicato una copertina a un tema di cui in queste ultime settimane si parla molto: la settimana di quattro giorni. Un punto di vista particolarmente intelligente era stato quello di un sociologo portoghese che insegna in Gran Bretagna:
Insomma, a giudicare da questo piccolo campione, qualcuno se la gode di più o semplicemente tira il fiato ma tanti hanno invece incanalato qualche energia residua su possibili piani B resi impraticabili dal full time. Quello dell’occasione per sprigionare creatività è uno degli argomenti forti di Pedro Gomes, economista portoghese al Birkbeck dell’università di Londra (ci studiò il giovane Marx) e autore di Friday Is the New Saturday, una specie di manifesto a favore della settimana breve. «Nella storia dell’economia molta innovazione è scaturita fuori dal posto di lavoro» dice in collegamento Zoom: «Henry Ford concepì da casa il motore delle sue auto. Steve Wozniack inventò il Mac nelle pause dal suo lavoro principale. Phil Knight ha concepito le Nike mentre aveva un altro negozio. J. K. Rowling ha creato Harry Potter in quel che restava dalle sue giornate come insegnante. È nel tempo libero mentale che le idee migliori vengono alla luce».
Il suo libro, che arruola alla causa pensatori di sinistra come di destra, rappacificando Keynes con Hayek, squaderna otto argomenti in favore del cambiamento. Gli giro subito qualche obiezione standard che, in passato, hanno strangolato in culla il nostro dibattito: abbiamo una bassa produttività, come potremo permetterci di lavorare meno? «È vero il contrario! Con produttività si intendono due cose distinte: la quantità di output, beni o servizi, che un singolo lavoratore produce in un’ora ma anche il totale della produzione di un Paese. Nella prima accezione, se abbassate il denominatore (ore) il numeratore (prodotto) aumenta. E un lavoratore più riposato fa meno errori, riduce il turnover – che è un costo –, si dà meno malato. Ma anche nella seconda accezione c’è un miglioramento. Perché la produttività di ristoranti, alberghi, cinema vuoti è bassissima. Se organizziamo la settimana allungando il weekend questi luoghi vedranno molti più clienti. Insomma, bisogna guardare all’economia nel suo complesso». Non la mette in difficoltà neppure la nostra spaventosa percentuale di disoccupazione giovanile che fa dire allo scettico: “servono più ore, per questi ragazzi, non meno”? «Anche qui bisogna guardarsi dall’apparente buon senso, sollevando lo sguardo. L’industria del tempo libero, particolarmente rilevante da voi, impiega molto personale giovane o temporaneo: l’aumento dei consumi li favorirà indirettamente creando maggior domanda. Aggiungo un gran tema per l’Italia: quello della scarsa natalità. Con uomini e donne che lavorano non c’è tempo né per pensare né, sembra una sciocchezza ma non lo è, per praticare il sesso: un ribilanciamento di orari gioverebbe anche a quello». L’ultimo argomento è quello della riconciliazione di una società sempre più polarizzata: «Quando Roosevelt varò, col New Deal, la settimana di cinque giorni l’America si sbarazzò del populismo per cinquant’anni. I Trump e Bolsonaro prosperano in un clima dove i diritti dei lavoratori fanno passi indietro invece di progredire».
9. L’ASSESSORE LEGHISTA DAL GRILLETTO FACILE
C’è una storiaccia di cui ci siamo dimenticati troppo presto. È quella dell’assessore leghista alla sicurezza di Voghera cui piacevano le pistole, le ronde e a un certo punto ha ammazzato – per eccesso di legittima difesa, sostiene da subito la procura – un marocchino di nome Youns El Boussettaoui. Sono andato a incontrare sua sorella:
Voghera. Alla fine, al di là dei tecnicismi, il succo della storia sta tutto nei cinquantatré secondi del video girato da un passante e pubblicato dall’agenzia Lapresse. C’è un uomo gravemente ferito per terra e quello che gli ha sparato, in piedi, a piede libero, indisturbato tra gli agenti, che spiega a un testimone maghrebino l’unica cosa decisiva: «L’importante è che hai visto che stava per darmi un calcio in testa…». Lo sparatore è Massimo Adriatici, assessore alla (sua) sicurezza. L’uomo che poco più di un’ora dopo, alle 23.40 del 20 luglio 2021, morirà di emorragia è Youns El Boussettaoui, italiano nato trentanove anni prima in Marocco. In città lo conoscevano tutti. I pendolari che lo vedevano dormire sulla panchina davanti alla stazione. Il barista che una mattina l’aveva beccato a toccarsi tra i tavolini. I carabinieri convocati più e più volte quando, per un verso o per l’altro, diventava molesto. E, con un ricovero coatto in psichiatria alle spalle e relativa fuga, non era uno facile da maneggiare. Andava curato. Invece l’assessore prima l’ha pedinato e poi, a chiarire chi comandava, gli ha mostrato la Beretta calibro 22 che portava sempre dietro. La preda non ha apprezzato, è volato un pugno e, dall’altra parte, è partito un colpo. A metà ottobre la procura di Pavia ha chiuso le indagini confermando per Adriatici l’eccesso colposo di legittima difesa, fattispecie immensamente più lieve dell’omicidio volontario che di solito si ipotizza in questi casi. Ma se se bracchi uno notoriamente disturbato e, di fatto, lo provochi, chi si è difeso da chi?
10. «IL METAVERSO? ALTRO CHE ZUCKERBERG, L’HO INVENTATO IO»
A un certo punto sono stato anche a Seattle per incontrare Neal Stephenson, lo scrittore di fantascienza che, trent’anni fa, aveva inventato il termine “metaverso” di cui si parla molto ma chissà se ne si farà mai qualcosa. In ogni caso non a breve.
SEATTLE. L'uomo che vede il futuro ha un pizzetto bianco, un doppiopetto blu e un anello di argento, oltre a un borsello per portafogli e cellulare che indossa a bandoliera sotto il giaccone. Neal Stephenson ha studiato fisica, deviato su geografia, imparato a programmare da solo sui manuali, giacché Youtube e i suoi tutorial sarebbero arrivati solo una ventina d'anni dopo. Nel '92 fu mandato il primo sms («Merry Christmas»), il web emetteva vagiti ma lui, in Snow Crash, immaginava – nell'ordine – una specie di codice Qr, una versione di Google Earth, il riconoscimento facciale, i gigacapitalisti che avrebbero puntato sullo spazio, i rider che portavano la pizza guidati dagli algoritmi e, soprattutto, il metaverso di cui tutti parlano senza sapere esattamente perché. Non una cosa simile, ma esattamente un universo alternativo con quel nome, un doppio digitale del mondo analogico in cui le persone interagiscono tramite alter ego (anche avatar, in questa accezione, è una sua trovata). Nel '99, in Cryptonomicon, parlava di criptovalute (il primo bitcoin sarà coniato dieci anni dopo). L'anno scorso negli Stati Uniti è uscito Termination Shock in cui torna al vecchio amore dell'emergenza climatica, la nostra inestricabile distopia quotidiana. Dove un miliardario, che come tipo umano assomiglia a Elon Musk, si mette in testa di risolvere il problema per fatti suoi è si inventa un enorme cannone che, sparando zolfo nell'atmosfera, dovrebbe creare una specie di pellicola gassosa che rifrange i raggi solari, raffreddando il pianeta. Il titolo si riferisce al tragico contraccolpo che potremmo subire se, a un certo punto, per i più svariati motivi, la pratica fosse interrotta. Ah, nel suo futuro prossimo il Texas è anche invaso dai cinghiali (ma questo, visto da Roma, è già il passato). Trattasi di volumone, come vari suoi altri che pure son finiti tra le letture di Obama e Gates, pieno di conoscenza approfondita, nozioni arcane, fattoidi, digressioni sapienziali che si ricompongono un attimo prima di diventare snervanti. Come ha notato un recensore, «non vuole solo raccontarti una storia: vuole istruirti». La migliore definizione del funzionamento della sua capoccia viene invece dal critico del New York Times: «Un intelletto speculativo poliedrico, un cervello collisore di adroni», come l'acceleratore di particelle che al Cern ha consentito la rilevazione del bosone di Higgs. È stato gentilissimo e puntuale al secondo. L'unico mistero è perché non abbia voluto incontrarci a casa sua piuttosto che nella hall di questo anodino albergo, con tanto di inestirpabile colonna sonora di Frank Sinatra. Ho insistito. Si è irrigidito. Quella che segue è la sintesi dell'incontro reso possibile dalla mia capitolazione.
Come le venne l'idea del metaverso in un libro in cui hacker trafficano file infetti che mandano in tilt i computer e friggono i cervelli di chi li maneggia?
«Era la fine degli anni 80. L'internet come la conosciamo era di là da venire. Provai a immaginare un ambiente virtuale in cui le persone potessero interagire l'una con l'altra. Il termine divenne popolare tra i tecnologi. E ora che governano il mondo, alcuni stanno provando a creare qualcosa del genere. La fattibilità la si deve soprattutto all'industria dei videogiochi che ha creato le grafiche e la possibilità di giocare online a distanza. Quindi metaverso è diventato sinonimo di prodotti che non esistono ancora ma dovrebbero esistere presto e sui quali Big tech spera che la gente spenderà soldi. Dal momento che le possibilità di ciò che si può fare nei confini degli attuali schermi si stanno assottigliando».
Epilogo
Un indovino mi ha detto che più persone convincete a iscriversi a LSDC più possibilità avete di avere un 2023 all’altezza, se non al di sopra, delle vostre aspettative.
Più o meno il tariffario fa così:
1 amico convinto = troverete 50€ sul marciapiede
2 amici = baristi e bariste vi guarderanno con altri occhi e disegneranno cuori nei vostri cappuccini
3 amici = quel fastidioso dolorino alla cervicale sparirà d’incanto
4 amici = aumento del 10% delle vostre entrate annuali
5 amici = troverete l’amore (chi ce l’ha già ne troverà un altro, sostitutivo o complementare)
Da 6 in su le vostre buone vibrazioni, all’unisono con quelle dei vostri amici, faciliteranno la pace in Ucraina.
Buon tutto (e sempre viva il Venerdì)!