#80 Ma Roma è davvero ingovernabile?
Gualtieri, il sindaco che c'è ma non si vede; Ama e i rifiuti impossibili; Atac specialista in autocombustione; il flop bike sharing e, per ultimo, i cinghiali. Cronache da un disastro capitale
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Prologo
Quando il mio capo mi ha chiesto di occuparmi di Roberto Gualtieri sembravamo già tutti avere la risposta. Che, più o meno, faceva così: il sindaco c’è ma non si vede. Sotto casa mia o dei miei amici i rifiuti c’erano ancora. I mezzi pubblici erano ancora comatosi. Le strade bombardate di fresco. Così almeno ci sembrava, accumulando aneddoti su aneddoti. È però vero che il plurale di aneddoti non è “dati”. E quindi, con l’animo il più possibile laico, sono andato a cercarli. D’altronde Gualtieri l’avevo votato anch’io e tutti i miei amici e facevamo tutti il tifo per lui contro le nostre impressioni. La ricerca è stata più difficoltosa del previsto. Ci son voluti sei mesi per fissare la giornata col sindaco che poi si è svolta indoor perché per due volte ci sono state allerte meteo. Quelli che lo staff intendeva come dati era solo una gragnuola di annunci che rendeva spesso impossibile una comparazione con quel che succedeva prima. Comunque alla fine il pezzo l’abbiamo portato a casa e mi sembra un pezzo onesto. I conti, quelli definitivi, si faranno tra quattro anni. Sperando di poter rispondere un convinto «no» all’interrogativo di questo numero di LSDC.
UN SINDACO INDOOR
Il pezzo è in tre atti. La presentazione del primo anno di consiliatura all’Auditorium. Una lunga intervista. Una giornata col sindaco, che doveva essere in giro per la città ma si è svolta essenzialmente al chiuso. Questo è un estratto dalla presentazione all’Auditorium:
L’inizio è previsto per le 18 ma l’evento, con scandalo forse solo per gli alloctoni, inizierà 35 minuti più tardi. Sul palco giusto il sindaco, molto in palla, per una performance che immagino lungamente preparata per recuperare in 70 minuti no stop 365 giorni di comunicazione perduta. Concetti chiave: «Roma si è rimessa in moto dopo almeno dieci anni di declino»; «Stiamo mettendo le basi per la trasformazione dopo aver trovato la macchina amministrativa ferma»; «Oggi la città è più pulita, ma non ancora come merita». E poi altri passaggi, a memoria e alla rinfusa: grande soddisfazione per un punteggio di 6,74 come qualità della vita, il più alto da quando viene misurato; tempo per avere carta d’identità digitale passato da 3 mesi a 1; rifiuti in discarica dal 30 al 3 per cento (ma è solo un progetto); bandi per assumere due giovani agricoltori; l’introduzione di un bot che, grazie all’intelligenza artificiale, dovrebbe rispondere alle domande dei turisti. Sul finale una gragnuola di titoli di attività svolte o annunciate che si affollano sul grande schermo alle spalle del sindaco, fino a saturarlo. A chiudere, con una rima sin troppo baciata rispetto alle ultime parole dell’oratore, parte Rome Wasn’t Built in a Day dei Morcheeba, gran classico del 2000 forse recuperato dall’ampio canzoniere giovanile del politico-chitarrista.
La sensazione complessiva, a caldo, è di fastidio: cosa c’è, esattamente, da festeggiare? Non era meglio un po’ più di understatement, peraltro da una persona seria e secchiona cui dovrebbe venire naturale e cui è capitata – essendosi candidato – la patata amministrativa più bollente del Paese? Tipo dire: «Cittadini, capisco il vostro scoramento: avete visto ancora poco o nulla perché il lavoro è addirittura più difficile del previsto. Però io ho una visione, ora ve la spiego e alla fine del quinquennio mi promuoverete o boccerete». Chiunque abiti a Roma sa che l’ordinaria amministrazione, tra gabbiani saprofaghi su ziggurat di rifiuti e strade che diventano torrenti alla prima pioggia, varrebbe da sola un soggetto su una metropoli distopica. E allora perché menzionare l’ultimo tormentone urbanistico, la «città dei 15 minuti», ovvero con tutti i servizi raggiungibili a piedi, che sarebbe bellissima se in quel medesimo intervallo qui non riesce a passare neanche il celeberrimo 64, torpedone preferito dai borseggiatori? Torno in redazione contrariato andante.
AMA, PIÙ RIFIUTI PER TUTTI
Tre anni fa mi ero occupato del problema numero uno della capitale, e della partecipata che doveva risolverlo. Un estratto (il pezzo intero qui):
Scrivere sui rifiuti di Roma è una missione quasi suicida. Già tanta carta è andata sprecata. L'argomento è complesso, farcito di sigle arcane (tmb, fos, css), le responsabilità diffuse. Ci proviamo senza pretesa di esaustività (servirebbe un libro) ma con l'ausilio di un paio di digressioni in Veneto e in Lombardia dove i rifiuti si trasformano nella proverbiale opportunità, felice lato b della crisi romana. Partiamo da alcuni numeri. Roma produce 1,8 milioni di tonnellate all'anno. Significa circa 5000 tonnellate al giorno, di cui solo il 44 per cento viene differenziato. Restano 3000 tonnellate di indifferenziata cui, ogni giorno, trovare una collocazione. Dove vanno a finire? Circa 1200 nei due impianti di trattamento meccanico biologico (tmb) di Malagrotta, gestiti dalla Colari che si scrive Consorzio Lazio Rifiuti ma si legge Manlio Cerroni, il ras nella cui discarica per cinquant'anni è finito il grosso della monnezza romana. Fino a cinque anni fa quando, con sprezzo del pericolo, l'allora sindaco Ignazio Marino l'ha fatta chiudere. Il novantenne avvocato non si è perso d'animo e, attraverso i suoi due tmb, tratta ancora circa un quarto dei rifiuti capitali. Altre 650 tonnellate vanno invece nel tmb Ama di Rocca Cencia e 400 andavano a quello, sempre pubblico, del Salario che un misterioso incendio ha messo fuori uso a dicembre. Anche se Ama riuscisse a spazzare le strade (cosa che non è, disco giallo docet), non saprebbe dove portare i rifiuti. Che infatti per 1000-1500 tonnellate al giorno emigrano fuori provincia (Frosinone, Aprilia) quando non fuori regione (Abruzzo). Prima domanda ingenua: non converrebbe costruire qualche nuovo tmb per avvantaggiarsi della tariffa imposta dalla regione di 104 euro a tonnellata rispetto ai 175 che pretende Cerroni e ai 120 dei forestieri?
LA DIFFERENZIATA FA GUADAGNARE, TRANNE CHE QUI
Recita ogni bignamino sul ciclo dei rifiuti: «La differenziata è un utile, l'indifferenziata un costo». Nel primo caso i consorzi pagano la plastica 300 euro a tonnellata, la carta 70 e il vetro 50, per citare giusto i materiali più importanti. Nel secondo è il gestore che deve pagare i tmb per separare l'umido dal secco, i tritovagliatori per sminuzzare i rifiuti prima di interrarli o bruciarli, le discariche per ospitarli o i termovalorizzatori per bruciarli. A Roma anche questa certezza vacilla. Neppure la differenziata porta soldi. Dichiara Alessandro Filippi, direttore generale di Ama dal dicembre 2014 al marzo 2016, in un'audizione Parlamentare del 26 ottobre 2016, ai tempi di Mafia Capitale: «In Ama il costo della differenziata era sempre a perdere». Lui però indice nuove gare, strappa prezzi normali e alla fine l'azienda «passa da una marginalità negativa di circa 1,5 milioni a una positiva di 2 milioni». Insomma, incassa. Come premio viene fatto fuori con il presidente che l'aveva scelto, Daniele Fortini, non appena i grillini conquistano il Campidoglio. Dalla trascrizione di quella testimonianza si apprendono altri sapidi dettagli. Uno: mediamente il 55 per cento dei mezzi era fuori uso (Filippi riesce a portarlo al 25). Due: per cominciare a rendersi autonomi dai privati, abbandonano Rocca Cencia di Cerroni (si calcola che costasse 185 mila euro al giorno ai cittadini) e suppliscono con un tritovagliatore mobile, un frullatore grande come un paio di container che separa i rifiuti solo un po' peggio di un tmb («È costato 50 mila euro ma, con quel che abbiamo risparmiato ce lo siamo ripagati in otto giorni»). Tre: Ama non era proprietaria neppure dei cassonetti, ma preferiva affittarli a 1800 euro ogni cinque anni, quando il costo di possederli per sempre era di 650. Fermatevi un attimo a riflettere. È come un ristorante senza pentole o un servizio di trasporti con metà delle auto fuori uso (quest'esempio forse non è così esotico, e si trovano analogie sullo stesso parallelo). La somma di queste stupefacenti inefficienze dà come risultato una Tari da 270 euro pro capite contro i 185 di Treviso.
ATAC, SPECIALISTA DI BUS IN FIAMME
Sette anni fa avevo invece scritto di un altro scandalo capitolino, quello dell’azienda dei trasporti. Di seguito un estratto (il pezzo intero qui, senza paywall):
ROMA. I gabbiotti dei capolinea davanti alla stazione Termini sono il precipitato dello sfascio. In uno di questi cubi di vetro e alluminio di tre metri per tre un meccanico discute animatamente con quattro-cinque colleghi. Provo a entrare e un'anziano mi fulmina: «Te pare er momento de fa' 'e domande?». Riprovo due banchine più in là in un gabbiotto meno congestionato nonostante l'aria condizionata drammaticamente fuori uso. Il capoturno, quello che con un mozzicone di matita segna chi prende servizio e quando sui due delle linee più trafficate per il centro, è un ciociaro ben piantato con una ricetta semplice quanto irrealistica: «Mille autisti in più e cinquecento mezzi nuovi». Peccato che stia parlando di un'azienda sul baratro, che in dieci anni ha perso quasi 1,6 miliardi di euro, più di Alitalia quandao ancora era il golden standard delle dilapidatrici di soldi pubblici. In maniera bipartisan, ancorché con picchi spaventosi sotto l'amministrazione Alemanno, la municipalizzata dei trasporti romani Atac è diventata una specie di microcosmo di tutto quello che non va nel Paese. Politica clientelare. Manager irresponsabili. Dipendenti impuniti. Compreso uno che prende la parola, smettendo per un secondo di addentare un panino, per lamentare che «da due anni non prendiamo nemmeno il premio di produzione!». E non gli viene nemmeno in mente che, anche solo restando in Italia e neanche scegliendo gli esempi più virtuosi, un suo collega macchinista di metrò guida 700 ore all'anno contro le 850 di Napoli e le 1200 di Milano. «Ma lo stress si Roma è superiore» obietta indispettito, lui che infatti sul bus fa un orario di sei ore e dieci.
La colpa è sempre di qualcun altro. Della Regione in arretrati totali pari a un miliardo e duecento milioni di euro di trasferimenti. Dei ricambi che mancano. Dei «70 dirigenti = 1000 autisti», tormentone suggestivo ma circa tre volte sovrastimato, che ritornerà spesso. C'è anche un autista tozzo, maldisposto, con gli occhiali neri da bodyguard che doveva essere partito un quarto d'ora fa, ma il suo autobus ha il «motore irregolare», che singhiozza. Aspetta istruzioni. Arrivano dopo un'altra decina di minuti: «Devo andare in rimessa a prendere un'altra vettura. Coi mezzi». Se va tutto bene, calcolando un'ora e venti a corsa, quando si rimetterà a guidare ne avrà perse quattro. Che è come se un chirurgo passasse mezza giornata in giro per la città a rimediare i ferri. Spesso si affaccia un turista per chiedere informazioni (il servizio preposto è stato esternalizzato). Ci sono anche occasionali utenti italiani che accennano comizietti estemporanei. Mi sento esattamente sull'epicentro di un'inefficienza profondissima. Hanno tutti un piccolo pezzo di ragione che insieme producono un torto colossale. Di fronte al peggioramento del servizio a luglio, per lo sciopero bianco che gli autisti negano ma senza il ricorso al quale si faticherebbe a giustificare un'impennata del 300 per cento di vetture giudicate inidonee rispetto al luglio scorso, il sindaco Marino ha fatto la voce grossa: «Azzererò il Cda e cercheremo un partner privato». Nemmeno un emiro ubriaco la comprerebbe in queste condizioni, ha ironizzato a distanza l'ex sindaco Rutelli. Gli esperti danno ragione al secondo. Fosse un'impresa privata l'Atac sarebbe morta da tempo. Ma come e perché è arrivata al coma farmacologico in cui versa da anni?
IL FRAGOROSO DISASTRO DEL BIKE SHARING
Nel 2013, non potendomene fare una ragione, avevo indagato sul perché in qualsiasi altra capitale il bike sharing funzionasse benissimo tranne che qui. Un estratto (dal pezzo intero, senza paywall):
Nel parcheggio dietro al parlamento ci bivaccano le auto blu. In quello vicino alla fontana di Trevi le colonnine si sono piegate sotto il peso dei maxi-menu di un ristorante che le usa come appoggio. Alla stazione Termini, dove si narra di un cantiere biblico, è desolantemente vuoto. La circostanza che, in burocratese, chiamino «stallo» la stazione delle bici a noleggio aggiunge al danno la beffa. A quattro anni dal lancio il bike sharing a Roma è più che fermo: non esiste. Kaputt. Da 160 che erano (poche, pochissime, una gag), dopo furti, riacquisti e altri furti, sono rimaste in teoria una dozzina. In pratica zero, confessa un alto dirigente. A Parigi, dov'è partito solo un anno prima, sono passate da 7 mila a 20 mila. Un certo spread di civiltà. Che è solo uno dei motivi per cui questa storia si merita il trasloco dalla cronaca locale a quella nazionale. E, in prospettiva, un capitolo di un'eventuale libro sull'inarrestabile erosione del capitale civico nostrano. Gli ingredienti ci sono tutti: gli sprechi pagati dai contribuenti; la tracotanza della politica, saldata con la sua totale irresponsabilità; l'insipienza dei manager pubblici; la resa dei cittadini rispetto a qualsiasi protesta. Così il monumentale fiasco del servizio di mobilità a pedali della Capitale è diventato la quintessenza dell'Italian Job. Funziona in tutto il mondo, ma anche a Torino e Milano, e da Brescia a Bari, tranne che qui. Perché? E soprattutto, cosa abbiamo fatto per meritarcelo?
Inanellare una così inesorabile serie di errori non è un risultato banale. Anche per sbaglio, una mossa giusta poteva capitare. Invece no. Tutto ha inizio nel giugno 2008, èra Veltroni. Nell'ultimo scorcio del suo mandato, il sindaco che ha già importato le archistar non vuole che il Tevere sfiguri con la Senna. Tutti parlano del successo di Vélib, le bici parigine un tanto all'ora. Si fa avanti Cemusa, una società spagnola di affissioni che ne ha fatto esperienza in città di medie dimensioni. Mettono sul piatto 19 stalli, per 263 colonnine e 160 bici, più la manutenzione complessiva per sei mesi. L'aperitivo lo offrono loro, sperando che poi al Comune venga appetito. Nel frattempo però il cosmopolita Walter lascia per fondare il Pd e la sperimentazione passa in eredità a Gianni Alemanno. Il nuovo assessore all'ambiente Fabio De Lillo mette onestamente a verbale la sua estraneità invitando all'inaugurazione il predecessore Dario Esposito. La giunta non sa bene che farne di quel regalo. Nel dubbio prolunga di sei mesi la sperimentazione spagnola. Perché nel frattempo i romani, nonostante le leggende che la città non si presti alle due ruote (i ciclisti abituali sono decuplicati negli ultimi due anni, arrivando a quota 170 mila), si sono appassionati. Nel 2009 si vendono 3500 card. L'anno dopo 4500, per oltre 50 mila euro di introiti. Considerato il numero ridicolo di mezzi è quasi un successo. Per le vie congestionate del primo municipio, il sancta santorum del centro storico, non c'è di meglio. L'ansa barocca come la City. Anche la città eterna si muove. È incredibile, ma vero. O almeno sembra.
PER NON PARLARE DEI CINGHIALI…
Quest’estate abbiamo dedicato una copertina del Venerdì anche a un’altra specialità capitolina. Giusto un assaggio:
Roma. Incontro mancato per una setola. A testimonianza del passaggio restano quattro cassonetti capovolti, col contenuto sparpagliato per terra, che ostruisce via dell’Acqua Traversa, zona Cassia antica, quadrante Nord-Ovest di Roma. Se non è stato un tifone straordinariamente circoscritto, sono stati i cinghiali. Che scendono indisturbati, per le provviste notturne, dalla vicinissima riserva naturale dell’Insugherata. È quasi mezzanotte. Da un paio d’ore con Valerio Nicolucci, giovane tecnico faunistico, cerchiamo di avvistare i bestioni che hanno colonizzato l’immaginario capitolino, e non solo. Parco delle Sabine. Parco di Talenti. Bosco della Marcigliana. La città è circondata dal verde. Invasa. Certi spartitraffico hanno l’erba alta di una savana. Nicolucci scruta l’orizzonte con una termocamera, un cannocchiale da quattromila euro per la visione notturna. Alla fine conta sette volpi. Avvista in lontananza due masse nere. Sono loro? È un attimo e scompaiono. Dove ieri ne avevano segnalati, oggi niente. Pronti ad alzare bandiera bianca, spuntano i cassonetti spiaggiati. «È il colmo» dice, «che i secchioni non siano interrati. È come invitarli a un banchetto. Per tacere del verde pubblico che, in queste condizioni, diventa un rifugio ideale. Hanno alloggio e vitto facile: il paradiso!».
Epilogo
Detto questo, uno resta a vivere a Roma perché ci lavora e perché, nonostante tutto, è bellissima. Però sfibrante. Compreso il tassista di ieri sera che, al momento del pagamento, dice «no, niente carte perché ci vogliono dieci minuti per pagare». Che è una cazzata monumentale ma corrisponde, temo, allo spirito del tempo insufflato dal nuovo governo. Sì, dai, torniamo al contante che siamo/eravamo secondi in Europa quanto a evasione fiscale e magari, con quest’ultimo aiutino, possiamo arrivare finalmente sul podio. Evviva!