#79 Greta: non ci penso neanche a lasciare
Il libro della fondatrice di Fridays for future; quello in cui Elizabeth Kolbert apre (moderatamente) alla geoingegneria; Amitav Gosh sul catastrofozoico; Safran Foer e la resistenza a tavola
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LA PORTAVOCE HA SCRITTO UN LIBRO
Qualsiasi cosa vogliate pensarne, ha fatto più Greta Thunberg in quattro anni per aumentare la consapevolezza della crisi climatica, che tutti gli altri messi insieme nei decenni precedenti. Così, al termine di un inseguimento non facile, siamo riusciti a parlarle con l’occasione dell’uscita del suo The Climate Book. Un estratto (il pezzo qui):
Esiste un consenso nella comunità scientifica sulle soluzioni da adottare contro la crisi del pianeta?
"L'unico consenso è sul fatto che rapidissimamente dobbiamo abbandonare la nostra dipendenza dalle fonti fossili. Su come farlo ci sono ancora molte opzioni diverse". Pensavo a soluzioni come la geoingegneria. Una volta era la scusa usata dai negazionisti per non mettere mano al nostro stile di vita. Oggi anche persone come Elizabeth Kolbert, che nel libro firma uno dei contributi, sono più aperte all'idea. Lei che ne pensa?
"Che ancora oggi è spesso una scusa per non cambiare radicalmente le cose. Rischia di essere una grande distrazione. Solo i Paesi più ricchi potrebbero provare davvero a mettere in piedi sistemi del genere ma, se le cose andassero male, le conseguenze le pagherebbero maggiormente i Paesi poveri che non hanno avuto voce in capitolo nel decidere di realizzare, ad esempio, scudi di aerosol contro i raggi del sole". I ribelli del clima: "Perché siamo pronti ad andare in galera per salvare la Terra" di Stefania Parmeggiani 10 Novembre 2022 La pandemia ha dimostrato che, volendo, grandi cambiamenti di abitudini possono accadere di colpo. Perché non succede per i comportamenti che nuocciono al clima? "Perché la gente percepisce le conseguenze come distanti, sia geograficamente che nel tempo. Ma è un errore: basta pensare alle conseguenze delle inondazioni su decine di milioni di persone in Pakistan o quelle che la siccità ha sul cibo di oltre dieci milioni nel Corno d'Africa. Il fatto è che i potenti non sono mai direttamente coinvolti. E le aziende più responsabili dei guasti mettono le loro enormi risorse a disposizione dei lobbisti che puntano a rimandare o negare la necessità di qualsiasi tipo di azione. Diffondendo, com'è successo in passato per altre industrie pericolose, dubbi e altri elementi di distrazione dell'opinione pubblica".
KOLBERT E LA GEOINGEGNERIA
Il riferimento a Elizabeth Kolbert viene dall’intervista all’indomani dell’uscita del suo ultimo libro, Sotto un cielo bianco, dove faceva una moderata apertura alla geoingegneria. Il seguente:
Ecco, partiamo proprio da lì, dal geoengineering. Dalla risposta a valle, per ardite vie tecnologiche, alla domanda posta dalla crisi climatica. Nel libro incontra i migliori scienziati che se ne occupano: l’hanno convinta?
«Convinta no, è troppo. Diciamo che dopo aver parlato con loro sono diventata più ambivalente. O, per dirla con la formula sintetica del professor Andy Parker, in alcuni scenari “oscurare quel cazzo di sole potrebbe essere meno rischioso che non farlo”. Certo, lui immagina scenari piuttosto disperati. Ma la cattiva notizia è che potremmo arrivarci e anche in meno tempo di quanto si creda».
Tra le ipotesi descrive una flotta di Stratospheric Aerosol Injection Lofter (Sail), una costellazione di immensi aerei che dovrebbero rilasciare nell’aria una specie di barriera di spray di calcite o di solfato. Costo iniziale 2,5 miliardi di dollari. Raffreddamento rapido, un po’ come successe dopo la gigantesca eruzione del vulcano indonesiano Tambora nel 1815. Dove sta la fregatura?
«Intanto è difficilissimo immaginare un tale livello di cooperazione geopolitica. Se non tutti, serve l’accordo del maggior numero di Paesi con un’aviazione importante. Se ne parla da tanto tempo ma non ci siamo neppure messi d’accordo su un piccolo esperimento che doveva partire in Svezia l’estate scorsa e all’ultimo è stato cancellato. E immaginate se, una volta partiti, scoppiasse una guerra come quella in Ucraina…».
BENVENUTI NEL CATASTROFOZOICO
Qualche tempo fa, su come raccontare la crisi climatica, avevo discusso con Amitav Gosh, che aveva idee piuttosto chiare al riguardo. Qui un pezzo dell’intervista:
Siamo entrati mani e piedi nel catastrofozoico, l'èra del grosso guaio ambientale che abbiamo contribuito a creare. A negarlo a parole è rimasto giusto Trump e pochi altri incomprensibili bastian contrari. Nei fatti, invece, anche un'insospettabile categoria di sismografi, di solito molto sensibili, non ha rilevato il fenomeno: quelli in uso alla letteratura. La non fiction sbanca le classifiche se parla di cambiamento climatico. La fiction invece ne rimane attentamente alla larga. Lo scrittore indiano Amitav Ghosh si è interrogato tra i primi su questa colossale rimozione. Ne ha scritto in La grande cecità (Neri Pozza), a sua volta un saggio, e in qualche modo obliquo se ne occuperà ancora in L'isola dei fucili, il romanzo ambientato tra i migranti che cercano salvezza in Italia che uscirà il 7 novembre.
Perché il problema numero uno dell'umanità è così fragorosamente assente dai plot dei romanzi?
«Per tutta una serie di motivi. Il primo, mi sembra, è che la narrativa contemporanea si concentra molto sugli individui, sull'interiorità, mentre il clima è un tema collettivo. Così ripiegata su se stessa la letteratura ha a cuore solo archi temporali che si esauriscono nella vita del protagonista, mentre la crisi del pianeta ha una scala cronologica molto più lunga». Non è stato sempre così. Durante la guerra fredda, per dire, le preoccupazioni per il contesto erano molto più presenti in pagina...
«Senz'altro. Ed è da poco uscito un libro che rivela come molta della letteratura americana di allora fu fortemente influenzata dallo Iowa Writers Workshop, una scuola di scrittura finanziata dalla Cia dove si mise a punto il mantra dello show don't tell, mostra senza spiegare, che ha marchiato a fuoco lo storytelling statunitense. Considerato il committente, è chiaro che il conflitto fosse ben presente nei testi».
Oggi invece la crisi del pianeta vira subito verso la distopia. E la fiction diventa science fiction, con la caduta di rango che il genere comporta: perché?
«Parte della colpa è anche delle riviste letterarie importanti come la London Review of Books o la New York Review of Books che, a quanto pare, recensiscono volentieri ogni meritevole saggio sul tema ma mai i pochi ardimentosi che provano ad affrontarlo narrativamente. D'altronde quando romanzieri famosi come Jonathan Safran Foer o Jonathan Franzen ne scrivono lo fanno generalmente non nella loro veste primaria, ma in quella secondaria di saggisti. Lo stesso vale per Arundhati Roy, una stilista sublime e una donna con una forte coscienza politica. Ne ho parlato di recente con Annie Proulx che è profondamente sensibile al tema che appare di striscio in vari suoi libri ma mi ha confessato che non si sente di dedicargli tutto un libro. Perché? Non lo sa neppure lei ma è un problema serio, diffuso, che merita approfondimento».
FOER E LA DIFFERENZA TRA IDEA E AZIONE
parole saggissime aveva avuto anche Jonathan Safran Foer, fresco di un libro su come salvare il pianeta a partire da quel che si mette in tavola. Un estratto:
Nel libro lei ricorda le limitazioni che l’America accettò in tempo di guerra quando le città lungo la costa spegnevano le luci all’imbrunire per impedire ai sommergibili tedeschi di scorgere le navi in uscita dai porti, e la benzina veniva razionata («Quando vai in macchina da solo vai in macchina con Hitler!»). L’analogia con la guerra, nel nostro contesto, è calzante?
«Sì, nel senso che in gioco è il nostro stile di vita. La vita stessa. La differenza è che stavolta stiamo da entrambe le parti della barricata. Il che è psicologicamente difficile, giacché è molto più facile immaginare un nemico, sentirsi superiore a lui. Quando ho iniziato a scrivere questo libro pensavo che avrei voluto dire qualcosa agli altri, per poi scoprire che soprattutto volevo dire qualcosa a me stesso. Più ci pensavo più mi sentivo confuso e imbarazzato dalle mie stesse reazioni».
Uno dei principali argomenti che usa è proprio la distanza tra comprensione del fenomeno e azione: come si possono unificare?
«Tendiamo a dividere il campo in due: quelli che credono al riscaldamento climatico e quelli che non ci credono. E siamo soddisfatti di appartenere al campo giusto. Però questa divisione soffre di un doppio problema. Il primo è che tendiamo a sopravvalutare drammaticamente le dimensioni di chi non ci crede, ovvero il 16 per cento, meno degli americani che negano l’evoluzione o il fatto che la Terra orbiti intorno al sole. Quindi c’è un vasto consenso, però ci piace lo stesso gettare la colpa su chi non ci crede. Il secondo problema è che questa divisione non è decisiva: al pianeta, o ai nostri nipoti, non frega niente se ci importa o no. Ai bambini curati per la malaria dal 46 per cento del patrimonio di Bill Gates importa se lui si sente buono o meno? O a quelli che muoiono perché Jeff Bezos dà solo il 4-6%? Ecco, è un’idea molto ebraica, ma non dovremmo sopravvalutare l’importanza dei nostri sentimenti, perché chi siamo è determinato da ciò che facciamo. In pochi altri settori più che sul climate change, che io preferisco chiamare “crisi del pianeta”, questa confusione tra sentimenti e azioni è pericolosa. Non basta scrivere “Dobbiamo fare qualcosa” su una maglietta. C’è un incendio da spegnere, è ozioso dire che vogliamo spegnerlo mentre in realtà continuiamo a buttarci legna sopra».
SE IL CORRIERE VIEN DI NOTTE..
Nell’ultima Galapagos scrivo di un’idea spagnola di spostare le consegne del commercio elettronico di notte, per decongestionare il traffico cittadino. Un estratto:
Nel rapporto Aecoc sul Last Mile Logistics Impact Index si quantifica che nel 2019, a Madrid, le consegne equivalevano al 38% della circolazione stradale, quota che potrebbe arrivare al 47 nel 2025. E Manuel Pérez Romero, presidente del IE Center for Sustainable Cities, sostiene che è indispensabile immaginare nelle città un sistema di anelli con diversi livelli di intensità logistica. Segnalando, peraltro, come molte delle spedizioni veloci, tipo quelle entro 24 ore, non sono sempre indispensabili, «non consentono l'ottimizzazione della distribuzione e generano molte inefficienze. Andare a ritirarle presso il punto vendita di quartiere o un locker ridurrebbe esponenzialmente l'impatto della logistica. Toglieremmo molti veicoli dalle strade e le loro conseguenze negative». Insomma, una migliore calibrazione di orari e zone potrebbe migliorare l'efficienza, ridurre il traffico e con esso le emissioni. Non sono obiettivi di poco conto.