#78 Lo sceriffo di Voghera
Che spara e uccide un marocchino con problemi psichici; la storia di Moussa Baldé morto in un centro di accoglienza temporanea e quella degli africani di Castel Volturno presi a pistolettate
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L’ASSESSORE AMICO DI TUTTI
Vi ricordate la storia dell’assessore leghista alla sicurezza di Voghera che andava in giro con pistola e colpo in canna e che una sera si mise in testa di fare le ronde per conto suo, inseguendo un marocchino con problemi psichici fin quando quello gli tirò un cazzotto e poi partì un colpo e la vita di Youns El Boussettaoui si fermò ai 39 anni? Ecco, se ve ne ricordate bravi perché è un incendio che sui giornali si è spento presto. Ma soprattutto perché nella provincia in cui s’è consumato lo sparatore era amico dei poliziotti (essendolo stato anche lui in precedenza) e quando questi arrivano sul luogo del crimine lo lasciano indisturbato a subornare i testimoni. Ma era anche amico del procuratore, del presidente del tribunale che deve giudicarlo, che a sua volta è la sorella del sindaco e via connettendo i puntini di una grande famiglia leghisteggiante nel pavese. Se ne sarebbero dimenticati tutti se non fosse per la sorella della vittima, Bahija El Boussettaoui, che sembra un’Ilaria Cucchi marocchina, e dei due avvocati che la difendono col gratuito patrocinio. Sono andato a incontrarla e il pezzo è sul Venerdì in edicola. Inizia così:
Voghera. Alla fine, al di là dei tecnicismi, il succo della storia sta tutto nei cinquantatré secondi del video girato da un passante e pubblicato dall’agenzia Lapresse. C’è un uomo gravemente ferito per terra e quello che gli ha sparato, in piedi, a piede libero, indisturbato tra gli agenti, che spiega a un testimone maghrebino l’unica cosa decisiva: «L’importante è che hai visto che stava per darmi un calcio in testa…». Lo sparatore è Massimo Adriatici, assessore alla (sua) sicurezza. L’uomo che poco più di un’ora dopo, alle 23.40 del 20 luglio 2021, morirà di emorragia è Youns El Boussettaoui, italiano nato trentanove anni prima in Marocco. In città lo conoscevano tutti. I pendolari che lo vedevano dormire sulla panchina davanti alla stazione. Il barista che una mattina l’aveva beccato a toccarsi tra i tavolini. I carabinieri convocati più e più volte quando, per un verso o per l’altro, diventava molesto. E, con un ricovero coatto in psichiatria alle spalle e relativa fuga, non era uno facile da maneggiare. Andava curato. Invece l’assessore prima l’ha pedinato e poi, a chiarire chi comandava, gli ha mostrato la Beretta calibro 22 che portava sempre dietro. La preda non ha apprezzato, è volato un pugno e, dall’altra parte, è partito un colpo. A metà ottobre la procura di Pavia ha chiuso le indagini confermando per Adriatici l’eccesso colposo di legittima difesa, fattispecie immensamente più lieve dell’omicidio volontario che di solito si ipotizza in questi casi. Ma se se bracchi uno notoriamente disturbato e, di fatto, lo provochi, chi si è difeso da chi?
MOUSSA BALDÉ MORTO NEL CPR DI TORINO
Qualche tempo fa ero andato a Torino per raccontare la morte, in un centro temporaneo di accoglienza, di Moussa Baldé un ragazzo che era finito lì per essere stato picchiato selvaggiamente da italiani e che poi non regge e si suicida. Un estratto (il pezzo è qui):
Il caso nasce da un video tremendo in cui tre uomini si avventano, colpendolo alla testa con un portacenere a colonna e un altro oggetto cilindrico, su Moussa che continuano a prendere a calci una volta a terra. Sono 42 secondi di violenza in purezza. I tre, identificati in meno di un giorno e ora indagati a piede libero per lesioni aggravate, sono Ignazio Amato, 28 anni, di Palmi, Francesco Cipri, 39 anni, e Giuseppe Martinello, 44 anni, entrambi originari della provincia di Agrigento. Uno di loro ha dichiarato che il pestaggio era nato dal tentativo di furto di un cellulare. Moussa al suo avvocato Gianluca Vitale ha negato, dicendo che stava chiedendo l’elemosina davanti a un supermercato, e l’assalto sarebbe stato del tutto immotivato. Inutile dire che, ai fini della reazione barbarica, cambia poco, ma cerchiamo di capire che tipo era Moussa. Con l’aiuto di suo fratello maggiore Thierno Hamidou, architetto di 29 anni, che al telefono da Matoto, in Guinea – dove vive il resto della famiglia con i dodici figli che il padre, prima contabile e poi imprenditore edile, ha avuto da due diverse mogli – ci racconta: «Era un bravo ragazzo. Aveva fatto studi coranici fino a sedici anni, ma poi, per aiutare economicamente, aveva fatto l’elettricista per un paio di anni prima di decidere di partire per l’Europa per cercare migliori prospettive economiche». Trafila classica: via terra attraverso Mali e Algeria e da lì in barca fino in Sicilia da cui, poi, lo assegnano a una casa comunità di Imperia. È qui che fa il ciclo delle scuole medie, impara bene l’italiano e fa amicizia con Fofana Jibril, un ragazzo maliano che ora lavora e studia Scienze politiche all’Università e ricorda un «tipo molto intelligente, determinato, che nell’attesa di trovare un lavoro faceva volontariato in un’associazione che portava in piscina i disabili». Con Thierno, invece, Moussa parlava via Whatsapp o Messenger quando trovava un buon wifi: «Stava bene da voi, non si è mai sentito minacciato». A Imperia frequenta l’associazione La talpa e l’orologio di cui Guglielmo Mazzìa è membro storico: descrive un «ragazzo fiero, che partecipava alle manifestazioni antirazziste, magari un po’ impaziente». Sono tre anni d’altronde che aspetta che la commissione sulla domanda di asilo si pronunci. Esasperato decide di trasferirsi in Francia e se ne perdono i contatti. Chiede l’elemosina, vive per strada. Dopo un po’ viene espulso ma soprattutto manca l’appuntamento con la Commissione (non ha più un domicilio) e diventa clandestino. Una qualifica che, di ritorno in Italia, dirotta il suo tragitto di integrazione. A Ventimiglia dorme sotto un ponte in tende di propilene, la tipica plastica blu dell’Ikea, in un accampamento di fortuna. Vive di quel che gli danno fino all’incontro fatale del 9 maggio.
NEL FAR WEST DI CASTEL VOLTURNO
Anni prima ero stato a Castel Volturno per raccontare un’altra sparatoria dove ad avere la peggio erano stati migranti. Il pezzo (da cui avevo ricavato anche un webdocumentario) iniziava così:
Castel Volturno. Da queste parti manca tutto, tranne l’ospitalità. Così, alla fine di un’intervista tra tante, ti chiedono di restare per pranzo. Dalla strada non asfaltata, piena di buche e circondata da case cadenti da dove escono innumerevoli giovani africani, di questa villa non si intuisce niente. La vista è totalmente ostruita da una recinzione di oltre tre metri, con minacciose lance alle estremità, da caserma più che da abitazione. Un cartello avverte: «Attenti al cane. E al padrone». L’immagine di una pistola sgombra il campo da qualsiasi sospetto di ironia. Chi l’ha appeso mi lascia entrare a patto che non riprenda niente. Men che meno il giardino e la piscina. Sua suocera ha preparato una pasta con salsicce piccanti, pomodoro e funghi. Fuori sono trentacinque gradi. Intorno alla lunga tavola, sei adulti e quattro bambini mangiano girando gli spaghetti in un cucchiaio. Chi non guarda la tv fissa la telecamera a circuito chiuso che punta la strada. La donna mi racconta che la vita a Pescopagano («Pescopa-ghana» l’ha ribattezzata qualcuno) è ormai insopportabile. Che i neri rubano, spacciano, fanno quel che vogliono. E quindi non c’è da meravigliarsi se, com’è successo la settimana prima, qualche bianco esasperato spara. Dice: «Ci hanno abbandonato» e invoca le istituzioni. Il padrone di casa annuisce con la testa. Poi, mentre arriva la caponata, confessa che ha fatto tredici anni in galera perché era «dinto o’ sistema», che è il modo in cui gli addetti ai lavori chiamano la camorra. Solo estorsioni, specifica. Ora vivacchia di lavoretti («Sì e no 500 euro al mese»), quando capita dà una mano ai vigilantes privati che qui gestiscono l’ordine pubblico. E la villa? «È di uno zio di mia moglie, che ce l’ha lasciata». L’ospitalità di queste parti, dove c’è chi butterebbe a mare i neri e scommette su una guerra civile a sfondo razziale, è leggendaria.
C’è un motivo di cronaca per questo allarme. La sera del 13 luglio, mentre quasi tutti guardano la finale dei mondiali, il trentenne ivoriano Youssuf Baba attraversa il centro di questa frazione derelitta tra Mondragone e Castel Volturno con una bombola del gas sulla bicicletta. Pasquale Cipriani, titolare della Custodia, un servizio di guardianìa che vigila per conto dei proprietari su alcune centinaia di villette lasciate vuote o in affitto, è di pattuglia col fratello Cesare. Fermano il ragazzo, gli chiedono dove ha preso la bombola. «Non sono affari vostri». Parte uno schiaffo. Il nero si difende e inizia una colluttazione. Qui le versioni si biforcano. Per i Cipriani arriva una dozzina di africani, circondano la loro macchina, li minacciano. Per Nicolas Gyan, un muratore che passa di lì, ci sono due bianchi che picchiano un fratello con dei bastoni e lui interviene per dividerli. C’è un’indagine sulla dinamica. L’esito, invece, è più chiaro. Cesare, il ventenne figlio di Pasquale e omonimo dello zio, viene avvisato e si precipita con una pistola non registrata, senza porto d’armi, con cui gambizza Youssuf e Nicolas. Decine di africani prendono d’assedio la vicina sede della Custodia. Tirano sassi, danno fuoco alle auto parcheggiate. Le fiamme si alzano verso il primo e il secondo piano dove vivono i familiari dei Cipriani, che rimangono intrappolati per quasi un’ora. L’indomani la via Domiziana viene bloccata: da una parte gli italiani, dall’altra i neri, nel mezzo la polizia, il sindaco e i rappresentanti delle associazioni di immigrati. Il peggio è scongiurato però a tutti torna in mente il settembre 2008, quando i sicari del boss Giuseppe Setola massacrarono sei ghanesi innocenti. E quando la comunità africana, sentendosi abbandonata, scese in strada, rovesciò cassonetti e divelse cartelli in una guerriglia estemporanea che si guadagnò il plauso di Roberto Saviano. «Quel trauma è sempre vivo» dice Jean-René Bilongo, un camerunense che ha vissuto a lungo qui e che oggi è un dirigente della Cgil, «e il sangue lo rinfresca. Vaglielo a spiegare che vogliono solo sparare alle gambe. Loro fanno massa e attaccano. Chi si sente di biasimarli?».