#74 Uomini che vedono il futuro
Stephenson e il metaverso; Bostrom e il geoengineering; Srnicek e l'accelerazionismo; Piombino e il rigassificatore
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Prologo
«È molto difficile fare previsioni, specialmente riguardo al futuro». Niels Bohr, premio Nobel per la fisica.
STEPHENSON, MISTER METAVERSO
Mesi fa ho intervistato a Seattle Neal Stephenson, inventore trent’anni fa del termine “metaverso”, nonché uno che ha intuito tante altre cose. È la copertina del Venerdì in edicola. Qui giusto il cappello:
L'uomo che vede il futuro ha un pizzetto bianco, un doppiopetto blu e un anello di argento, oltre a un borsello per portafogli e cellulare che indossa a bandoliera sotto il giaccone. Neal Stephenson ha studiato fisica, deviato su geografia, imparato a programmare da solo sui manuali, giacché Youtube e i suoi tutorial sarebbero arrivati solo una ventina d'anni dopo. Nel '92 fu mandato il primo sms («Merry Christmas»), il web emetteva vagiti ma lui, in Snow Crash, immaginava – nell'ordine – una specie di codice Qr, una versione di Google Earth, il riconoscimento facciale, i gigacapitalisti che avrebbero puntato sullo spazio, i rider che portavano la pizza guidati dagli algoritmi e, soprattutto, il metaverso di cui tutti parlano senza sapere esattamente perché. Non una cosa simile, ma esattamente un universo alternativo con quel nome, un doppio digitale del mondo analogico in cui le persone interagiscono tramite alter ego (anche avatar, in questa accezione, è una sua trovata). Nel '99, in Cryptonomicon, parlava di criptovalute (il primo bitcoin sarà coniato dieci anni dopo). L'anno scorso negli Stati Uniti è uscito Termination Shock in cui torna al vecchio amore dell'emergenza climatica, la nostra inestricabile distopia quotidiana. Dove un miliardario, che come tipo umano assomiglia a Elon Musk, si mette in testa di risolvere il problema per fatti suoi è si inventa un enorme cannone che, sparando zolfo nell'atmosfera, dovrebbe creare una specie di pellicola gassosa che rifrange i raggi solari, raffreddando il pianeta. Il titolo si riferisce al tragico contraccolpo che potremmo subire se, a un certo punto, per i più svariati motivi, la pratica fosse interrotta. Ah, nel suo futuro prossimo il Texas è anche invaso dai cinghiali (ma questo, visto da Roma, è già il passato). Trattasi di volumone, come vari suoi altri che pure son finiti tra le letture di Obama e Gates, pieno di conoscenza approfondita, nozioni arcane, fattoidi, digressioni sapienziali che si ricompongono un attimo prima di diventare snervanti. Come ha notato un recensore, «non vuole solo raccontarti una storia: vuole istruirti». La migliore definizione del funzionamento della sua capoccia viene invece dal critico del New York Times: «Un intelletto speculativo poliedrico, un cervello collisore di adroni», come l'acceleratore di particelle che al Cern ha consentito la rilevazione del bosone di Higgs. È stato gentilissimo e puntuale al secondo. L'unico mistero è perché non abbia voluto incontrarci a casa sua piuttosto che nella hall di questo anodino albergo, con tanto di inestirpabile colonna sonora di Frank Sinatra. Ho insistito. Si è irrigidito. Quella che segue è la sintesi dell'incontro reso possibile dalla mia capitolazione.
UN TRANSUMANISTA E IL DOMANI DELL’UMANITÀ
Qualche anno fa, invece, a Oxford avevo incontrato Nick Bostrom, che per una maniera buffa per cui le cose di cui ci si occupa fanno rima tra loro, ospitava un seminario sul geoengineering, tema di cui si occupa Stephenson nel suo ultimo romanzo. L’incipit:
Oxford. Nella stanza ci sono otto uomini e un transumanista. L’argomento del giorno è la solar radiation management, ovvero come schermare la terra dalle radiazioni del sole. Si tratta di far spruzzare nell’atmosfera, da palloni aerostatici, un aerosol gigante di solfato di zolfo che dovrebbe deflettere il calore. Un fisico va subito sul pratico: «Lo zolfo, ai prezzi correnti, dovrebbe costare circa un miliardo di sterline all’anno. L’intero progetto una decina. Ciò significa che, se anche rimanesse solo l’1 per cento del Pil mondiale, ce ne sarebbe sempre abbastanza per farlo continuare». Un ingegnere problematizza: «Sì, ma chi regolerebbe il termostato?». Se il sangue che scorre negli uffici per divergenze d’opinione sull’aria condizionata è di qualche indicazione, non sarà una barzelletta mettere d’accordo Cina e Stati Uniti. Niente in confronto all’eventualità di un termination shock bisbigliata dal relatore tedesco con espressione grave. Perché se il sistema dovesse funzionare bene, isolando grandi quantità di calore dietro alla barriera vaporizzata, e qualcuno (magari un terrorista) la disattivasse di colpo una vampata gigantesca investirebbe il pianeta con conseguenze catastrofiche. Come se spalancaste un forno che da anni immagazzina energia. Nick Bostrom, il direttore del Future of Humanity Institute, soppesa ogni argomento rigirandosi tra le mani una tazza decorata da cuoricini colorati colma dell’ennesimo caffè. Anni fa, per aumentare la sua capacità di concentrazione, aveva provato col Modafinil, un farmaco testato anche dai militari in Iraq e Afghanistan per restare svegli e vigili per giorni. Il transumanista, ovvero uno che non si rassegna ai limiti che l’evoluzione ha sin qui imposto sull’uomo in termini di potenzialità e durata della vita, è lui.
SRNICEK E GLI ACCELERAZIONISTI
Per superare il capitalismo, non da oggi, c’è chi scommette sulle macchine. Un estratto.
Roma. «Non è il lunedì che detesti, è il tuo lavoro» recita uno dei capitoletti di Inventare il futuro di Nick Srnicek e Alex Williams (Nero Editions, pag. 362, e. 17), ricombinando la saggezza popolare stampigliata su tante t-shirt. La buona notizia, dal loro punto di vista, è che il lavoro ha i giorni contati. Sarà sostituito dalle macchine, come mette in guardia da qualche tempo una letteratura sempre più copiosa. I due autori però si staccano dal mucchio dei preoccupati in una fuga baldanzosa: non dobbiamo temere il rimpiazzo, dobbiamo invocarlo, desiderarlo, pretenderlo. Perché la piena automazione farà esplodere le contraddizioni del capitale e ci condurrà trionfalmente verso un nuovo umanesimo. Traghettandoci, per dirla con due immagini care a Marx, dal «regno della necessità» al «regno della libertà». Destinazione mitologica, dal tragitto accidentato, con un mezzo di locomozione che non convince chi scrive ma che vale la pena di prendere sul serio.
Srnicek e Williams, giovani scienziati sociali della scena londinese, avevano fatto già parlare di sé pubblicando nel 2015 il Manifesto per una politica accelerazionista in cui anticipavano alcuni dei temi parzialmente sostenuti anche in Postcapitalismo, il fortunato volume di Paul Mason. Il loro saggio aveva finito per suscitare più entusiasmo a destra che a sinistra e forse questo spiega perché nelle trecento e passa pagine del libro odierno non figura mai la parola accelerazionismo, che è un po’ come se il filosofo di Treviri, dopo aver dato alle stampe il suo Manifesto, avesse espunto «comunismo» dalla produzione successiva. Ma tant’è.
E IL FUTURO DELL’ENERGIA IN ITALIA?
Non dovrebbe essere il gas, se vogliamo rispettare gli accordi sottoscritti (Fit for 55 e altri). E allora c’è bisogno del rigassificatore? A Piombino? Una storia, uscita sul Venerdì scorso, che ha una dimensione locale e una nazionale (della seconda si occupa quest’estratto):
Già, ma era realistico accelerare sulle rinnovabili per compensare i 30 miliardi di metri cubi (Bcm) russi? Qui la storia fa l’upgrade nazionale. Chiedo a Massimo Tavoni, ordinario di economia ambientale al Politecnico di Milano nonché direttore di vari importanti centri di ricerca: «Non fosse stato per la geopolitica non parleremmo certo di nuovi rigassificatori. In ogni caso per rispettare il Fit for 55 (-55% di gas serra rispetto al 1990 entro il 2030) dovremmo ridurre del 40 per cento, giusto la quota russa, la nostra dipendenza dal gas». Ma l’energia mancante dove la recuperiamo? «A spanne direi: 5-10 Bcm da altri paesi del Mediterraneo. Per il resto facendo efficienza. Per gli edifici c’è stato l’ecobonus, ma mancano gli incentivi per le pompe di calore, che dimezzano i consumi. E campagne di sensibilizzazione per un uso consapevole, dall’aria condizionata nelle case al riscaldamento negli uffici. Almeno 5 Bcm si possono risparmiare così. Per il resto accelerare su rinnovabili ed elettrificazione. Peraltro è falso dire che il rigassificatore servirà per non restare al freddo il prossimo inverno. Per questo non ci resta che ridurre la domanda e aumentare gli stoccaggi».
Anche il dirigente di ricerca al Cnr Nicola Armaroli, smontando l’inverosimile traguardo invernale, dice che «nel breve termine l’unica strada, come ha dichiarato anche Von Der Leyen, è risparmiare. Da lì possono venire 3-5 Bcm. E con un piano straordinario per i pannelli solari termici, trasformando in qualcosa di utile il caldo che cuoce i tetti italiani per molti mesi, potremmo recuperare altri 3 Bcm. 5 si otterrebbero facendo andare a piena capacità i tre rigassificatori esistenti. Se dall’Algeria riusciamo a spuntarne 10 in più, il totale si avvicina all’ammanco russo». Lista della spesa a parte, anche lui ci tiene a smentire il racconto del gnl pulito: «Magari estratto in Texas, con il fracking, portato a liquefare in Louisiana, poi settimane attraverso l’Oceano, arriva al rigassificatore dove verrà scaldato per essere immesso nei tubi che ce lo portano a casa. Del 100 per cento originario ne resta l’80, tra consumi energetici e perdite nel tragitto, al punto che la Nrdc americana ha calcolato che l’impatto ambientale nel ciclo di vita non è molto peggiore di quello del carbone». Sia lui che Tavoni evocano il termine stranded assets, “beni incagliati”, ovvero il rischio che i rigassificatori vengano abbandonati prima di essere ammortizzati perché incompatibili con i traguardi ambientali che ci siamo dati. Cattedrali nel deserto, ma in mare. Ormai i 330 milioni sono stati spesi, garantiti dallo Stato, e da qualche parte il terminale andrà. Basta sapere che è una lunga digressione rispetto alla strada maestra verso la decarbonizzazione che tutti invocano.
Epilogo
Reportage che contiene una notizia abbastanza sconcertante che non ha avuto l’eco che meritava: nei primi cinque mesi del 2022, mentre impazzavano gli appelli all’autonomia energetica dalla Russia, operatori italiani hanno sestuplicato l’export di gas all’estero. A proposito di patriottismo.