#72 Se è nero posso infierire
Un nigeriano chiede l’elemosina a una donna bianca. L’uomo di lei lo uccide. Succede, dopo la tentata strage di Traini, nelle placide Marche.
All’indomani del tremendo omicidio di un incolpevole nigeriano da parte di un italiano imbestialito nel centro di Civitanova Marche, mentre stuoli di nostri connazionali documentavano coi telefonini il letale pestaggio, ripropongo un pezzo del maggio 2021. Ero andato a Macerata per cercare di capire che ne era stato delle vittime di Luca Traini. Storie diverse, con alcuni punti in comune. Soprattutto l’idea che le vite dei neri contino meno (“Chiedeva con insistenza l’elemosina alla mia donna” si sarebbe giustificato l’assassino) o anche niente.
CHE FINE HAN FATTO LE VITTIME DI TRAINI?
Macerata. Che fine hanno fatto le vittime di Luca Traini? Non sembra esserci domanda più esotica nella città resa giornalisticamente celebre dalla «tentata strage aggravata da odio razziale» (così la Cassazione che ha confermato 12 anni di carcere) avvenuta il 3 febbraio 2018 per mano di un culturista di ventott’anni, candidato consigliere leghista con un “dente di lupo”, il logo nazista pre-svastica, inciso sulla tempia destra, e una libreria domestica essenzialmente composta dal Mein Kampf. Non lo sa l’ex sindaco («Immaginavo che fossero sistemati»). Risultano irrintracciabili per i loro avvocati d’ufficio. Lo ignorano gli sparuti avventori del mercato di piazza Mazzini. «Vittime? Non saprei, ma grazie a Dio sono rimasti solo feriti» dice un commerciante, infilandosi in un labirinto di distinguo che sfocia in un programma di Rete 4 dove avrebbe visto brutte scene di degrado con protagonisti altri immigrati. Tra i pochi ad aver preso sul serio l’interrogativo ci sono gli autori del documentario in lavorazione Fortunatamente non si è fatto male nessuno, citazione carpita a un passante in quei giorni di paura e delirio a Macerata. Perché, se è vero che servono migliaia di morti per far scrivere di Africa, sei neri presi a pistolettate e impunemente ancora vivi equivalgono a nessuno. Anzi, a niente. Non è successo niente.
Chiedo i contatti a Gianfranco Bòrgani, legale di gratuito patrocinio del maliano Mahamadou Toure, ma l’ultimo cellulare che rimedia fa scattare «numero inesistente». Per evitare un viaggio a vuoto lo prego di verificare coi colleghi che hanno difeso gli altri e mi dice che no, «probabilmente non stanno più qui, se ne sono perse le tracce», non possono aiutarmi. Fortunatamente Marcello Maneri, il sociologo curatore di Un attentato “quasi terroristico” (Carocci), sa che il regista Daniele Gaglianone sta lavorando sul tema. Lui e Damiano Giacomelli, il suo socio locale, hanno già filmato due vittime e stanno cercando di convincere una terza. Almeno metà del gruppo, quindi, non è dispersa per il Paese.
LA NUMERO 1: JENNIFER OTIOTIO
La prima che incontro è Jennifer Otiotio. Nigeriana, 28 anni, lunghi dreads decolorati e una felpa rossa. Abita vicinissimo alla sede del Pd contro la quale Traini sparò ritenendolo il partito degli immigrati. Non parla italiano e pratica un inglese idiosincratico. Il dialogo è salvato da Idris, che lavora in una pasticceria ed è stato il suo salvatore in questa convalescenza senza fine. In Italia dal 2017 «in cerca di un futuro migliore» è stata colpita al deltoide sinistro, dieci centimetri sopra al cuore. Operata, è stata un paio di settimane in ospedale e non è mai tornata quella di prima. Nel senso che con quel braccio che le fa «ancora male», potrebbe fare «le pulizie, la cameriera ma non la badante perché non ho più la forza per sollevare nessuno». Dice di non «serbare rancore» contro lo sparatore ma la angustia non avere ancora il permesso di soggiorno. Con l’aggravante di non aver potuto rivedere i tre figli (6, 10 e 12 anni) che ha lasciato dai nonni. Nessuno ti ha aiutata almeno per questo? «No. E l’avvocato non risponde al telefono» dice dall’alto di una rassegnazione millenaria.
Venendo qui mi ero interrogato sui mancati risarcimenti. Quelli che, in teoria, la suprema corte ha confermato ma che non vedranno mai perché Traini risulta nullatenente. Come ha potuto permettersi la difesa in Cassazione di Franco Coppi, il Federer dei penalisti, che a cose normali costerebbe 20-30 mila euro? Ha pagato Forza Nuova che aveva adottato la causa del vendicatore marchigiano? No, spiega l’avvocato, l’ha fatto gratis, perché gliel’ha chiesto il difensore locale, un amico. A nessuno è venuto in mente uno slancio analogo nei confronti dei neri. L’essersi beccati del piombo nella carne per la maldestra follia omicida di un italiano non è valsa loro alcuna spinta nell’accidentato percorso verso la regolarizzazione.
IL NUMERO 2: OMAR FADERA
Me lo conferma, la sera dopo, Omar Fadera. Si sveglia all’alba e rientra sfinito alle otto di sera da un cantiere a 40 chilometri. Gambiano di 26 anni, le cuffie sotto al cappuccio, quando non fa il muratore è un appassionato dj.
Quel sabato mattina stava andando al mercato per comprare un cappello perché dormiva all’addiaccio dopo che la onlus dove stava l’aveva buttato fuori per uno spinello e, girandosi verso la strada, aveva visto uno in auto che lo puntava con la pistola. «Se non mi fossi girato, invece di prendermi nel sedere la pallottola mi avrebbe trapassato il bacino» dice in italiano. Dopo le cure un amico l’aveva ospitato per due settimane: «Aveva un letto singolo. Lui si stringeva il più possibile e io stavo col tronco dove lui teneva le gambe». Poi Gabriella, attivista del centro sociale Sisma, aveva contattato la Caritas che prima l’aveva accolto in prova per poi tenerlo due anni. «Mi avevano dato anche le chiavi: imbiancavo, controllavo i ragazzi» dice nella casetta che ha rimesso a posto e che appartiene a Silvio, che chiama «zio» e ha conosciuto nel periodo diocesano. La piccola ditta per cui lavora è gestita da un kosovaro che lo paga 1400 euro al mese di cui, al netto della fatica ancestrale, è molto fiero. «Se arrivasse un risarcimento mi farebbe piacere, ma non credo. La cosa più dura però è dover andare a rinnovare i documenti in questura ogni tre mesi». Non fosse stato per una dipendente gentile di Ubi Banca, non avrebbe potuto neanche aprire il conto: «Lavoro. Pago le tasse. Che senso ha rendere così difficile la vita alle persone?». Bella domanda.
La giro al giurista Francesco Adornato, rettore dell’Università che è una dei principali datori di lavoro del paese. Nel magnifico ufficio del palazzo Romani Adami mi parla dei «semitoni cecoviani» che dal paesaggio avrebbero tracimato sul carattere dolce dei maceratesi, cita Flaiano e argomenta sulla mezzadria che avrebbe alimentato un misto di subalternità e individualismo che non li ha aiutati a elaborare il trauma. La parte che si avvicina più a una vera risposta è quella per cui «dopo lo shock (dell’omicidio abominevole da parte dello spacciatore nigeriano Innocent Oseghale di Pamela Mastropietro, che Traini si era incaricato di vendicare), dopo il fallimento di Banca Marche e il rapporto Svimez che definisce la regione un “secondo Mezzogiorno” la città non si è ancora ripresa e il problema di quei sei ragazzi è rimasto ancor più laterale». Una conclusione cui non si arrende il drammaturgo Andrea Fazzini. Nel suo Chant d’amour, che riprende Jean Genet ed è ispirato al caso Traini, ha voluto mettere in scena le ragioni della «negritudine» (dei sei feriti) di fronte a quelle della «bionditudine» (di Pamela). Mi parla del «clima catramoso» che si respirava in città all’indomani degli spari, dei commenti da denuncia sul gruppo facebook Sei di Macerata se… e dei troppi che, considerando unica vittima la comunità dei cittadini, non potevano allargare il cordoglio ai senza documenti. Resta che la strumentalizzazione del depezzamento (termine da anatomopatologhi) del corpo della ragazza era valso alla Lega «il salto dallo 0,6 al 21 per cento alle elezioni europee», a un mese dai fatti. Il lockdown ha rimandato la prima maceratese dello spettacolo e sarà interessante vedere come sarà accolta.
L’avvocato Borgani, barba bianca risorgimentale che spunta dalla mascherina, mi offre un panino al ciauscolo nel suo studio. Gli racconto dell’assurdità dei permessi di soggiorno ancora pendenti. Se il reato, come auspicò Roberto Saviano, fosse stato inquadrato come attentato terroristico a sfondo razziale, le vittime avrebbero avuto diritto a risarcimenti dallo Stato (mancava però l’elemento eversivo dell’ordine costituzionale). L’ultima chance che intravede per far avere qualche soldo ai feriti è quella che la Cassazione ha riconosciuto, recependo una direttiva europea, nel caso di una donna violentata a Torino da autore ignoto: «Lì lo Stato è subentrato perché non è riuscito a trovare il colpevole. Qui il colpevole è noto, ma non ha risorse e, con un’interpretazione estensiva...». Non sarà facile e resta il problema di rintracciare i clienti. Romano Carancini, l’ex sindaco ora consigliere regionale, ammette che la città non si è troppo interrogata su che fine avessero fatto: «Dopo il vulnus non si è più parlato di loro» e aggiunge che l’amministrazione attuale, a trazione leghista, ha smantellato i progetti a favore degli immigrati. Il produttore del documentario Giacomelli mi racconta della paziente tessitura fatta per convincere i ragazzi a essere nel film che, se tutto va bene. uscirà a fine 2022. Ma la rimozione è stata bipartisan se anche Irene Rapanelli, attivista di Potere al popolo che ha partecipato (con le consuete, freudiane piccole differenze tra loro, centri sociali, Anpi ecc.) all’organizzazione della manifestazione del 10 febbraio 2018, confessa di aver ripensato a cosa fosse stato di loro quando l’ha intervistata Gaglianone. «Abbiamo fatto attività mutualistiche: raccolte alimentari, sportelli di ascolto» ma onestamente non le era venuto in mente, come succedeva negli anni remoti del «soccorso rosso», di trovare un principe del foro che prendesse in carico i sei sparati per una lotta ad armi pari. Lo dice esplicitamente Sammy Kunoun, sindacalista Cisl, nigeriano laureato in Italia: «Sono vittime due volte: la prima, degli spari; la seconda, del sospetto (in città non volevano più affittare ai nigeriani) e poi del disinteresse. Ma hanno legali loro, non è che posso chiamarli io: dovrebbero seguirli».
IL NUMERO 3: KOFI WILSON
«Siamo stati trattati da animali» rilancia in inglese Kofi Wilson, la terza vittima che sono riuscito a rintracciare. È un ganese di 25 anni, venuto su un barcone nel 2016, che ha lavorato da muratore fino al proiettile che gli ha bucato una spalla: «Nei due anni successivi sono andato avanti a Oki e antidolorifici, che poi ho dovuto ridurre perché ho un problema di cuore» mi dice su una panchina dei Giardini Diaz, piazza dello spaccio ai tempi della collera di Traini. Oggi lavora in un distributore: sabato e domenica, sui 450 euro al mese che integra raccogliendo verdura nei campi. «Ma non posso esagerare con gli sforzi perché sennò mi rifà male tutto. Basta un colpo di tosse per sentire scariche nel petto» dice, più arrabbiato che triste. Condivide un appartamento con altri quattro africani ed è l’unico di quelli che ho incontrato (di Gideon Azeke e Festus Omagbon non si sa più niente) ad avere il permesso di soggiorno. «Non voglio ripensare a quel giorno perché il ricordo mi fa andare il sangue alla testa. In ospedale la polizia mi sequestrò il telefono per due mesi. Quando finalmente raccontai ai miei familiari cosa mi ero successo mio fratello notò l’assurdità: “Non ti era successo niente di male neppure in Libia!”. Fossi stato italiano non sarebbe andata così». È l’unica certezza. Nessuno avrebbe neppure pensato di puntargli contro una Glock in un tragico sparatutto di provincia. Traini aveva in auto dei ceri di Mussolini. Dice Borgani: «Era l’anello debole di una catena che altri tiravano da tempo». Gli stessi che hanno elettoralmente lucrato dalla sua tentata strage. Ma, oltre al placido immaginario degli abitanti, ha ancora senso ribadire che le vere vittime, nella carne e non nei simboli, che per l’amor di dio sono importanti ma non dirottano il corso delle vite e tolgono il sonno, sono stati sei ragazzi incolpevoli. A Macerata tendono a dimenticarsene. A Roma, ministero degli interni, pure.