#71 Oh mango, mango italiano...
In Italia è boom di frutta tropicale: quanto c'entra il clima e quanto l'economia?; con la protezione gli avocadi durano il doppio; i bitcoin vanno a carbone; a Cortona un super-festival
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Prologo
Alla fine ho preso il Covid. Lieve, lievissimo, alla moda dell’estate, ma m’ha bloccato in casa e spero di uscirne ad horas.
DAGLI AGRUMI AI FRUTTI TROPICALI
Credo peraltro d’averlo proprio preso a Palermo, mentre facevo il servizio di copertina di oggi sul boom della frutta tropicale prodotta nel nostro Paese. Il pezzo inizia così:
Palermo. Del mango non si butta via niente. La buccia depurerebbe la pelle, dai semi si ottiene un burro per la cosmesi, tramite “sferificazione” se ne ottiene una specie di caviale vegetale, il suo chutney è una composta pregiata nella cucina indiana, disidratato è uno spuntino venduto sui banchi di Ballarò, affettato finisce nelle vaschette della cosiddetta “quarta gamma” delle pause pranzo dei travet salutisti. Ma soprattutto, a differenza del maiale da cui deriva l’analogia di uso versatile, è di per sé tra i frutti più preziosi. Ed è per questo moltiplicatore economico rispetto ai tradizionali agrumi, assai più del riscaldamento del clima, che la Sicilia si sta progressivamente riconvertendo ai frutti tropicali. Papaya, avocado, litchi, maracuja, passiflora: sembra che non ci sia niente che non possa attecchire a queste latitudini. D’altronde, nel mondo rovesciato in cui (boccheggiando) stiamo imparando a vivere, l’olivo è arrivato sulle Alpi, trovi vigne a 1200 metri e arachidi in Toscana. Perché allora non il caffè nel cuore di Palermo?
Dalla politica all’agronomia il destino dell’isola è di essere un’avanguardia. Qui si testa oggi quel che accadrà sul continente domani. In questo antipasto di futuro la nostra guida è Vittorio Farina, brillante docente di frutticultura tropicale e subtropicale all’università di Palermo. Inizia con la storia: «I primi studi sono degli anni 50-60. Le prime cultivar piantate in quelli 60-70. I primi finanziamenti degli anni 80. Il boom arriva nel 2000». Il professor Rosario Schicchi che incontreremo più tardi va oltre mostrandoci, nel magnifico Orto botanico che dirige, un monumentale albero di avocado datato 1820. Quale che sia la data che scegliamo, tutte predatano l’allarme di Greta. Sta di fatto che «in meno di tre anni il numero delle coltivazioni di frutta tropicale è raddoppiato, raggiungendo i 1000 ettari essenzialmente tra Sicilia, Calabria e Puglia, perché i consumi sono raddoppiati negli ultimi cinque. E l’Italia» spiega il presidente di Coldiretti Ettore Prandini «al momento è in grado di coprire circa il 5 per cento dei consumi interni». Quindi c’è un ampio margine di crescita. Che incrocia la decrescita infelice di limoni e arance, i cui terreni coltivati si sono ridotti rispettivamente del 50 e del 30 per cento. Perché, con la concorrenza spagnola e turca, non convenivano più.
LA FRUTTA HIGLANDER
Qualche tempo fa ero andato a Maasdijk, in Olanda non lontano da Rotterdam, per raccontare l’idea di Apeel, una startup americana che punta a far durare il doppio la frutta, soprattutto i preziosi avocadi e manghi. Un estratto su come funziona la procedura:
Il primo choc è termico: se fuori è estate, quando ci passo, dentro è inverno profondo. Come guide ci sono Jean-Paul Geelhoed e Theo Sterrenburg, due dirigenti Apeel (su 25 dipendenti totali) e Hirich Khalaf di Nature’s Pride. Una collaborazione iniziata agli inizi del 2019 quando ancora le proporzioni erano invertite rispetto al 70 per cento di avocado («Percepito salutare come una verdura») e il 30 di manghi.
«Adesso è stagione di avocado peruviani» spiega Hirich «poi arriveranno quelli cileni, colombiani, messicani, israeliani, sudafricani, spagnoli. Prendiamo da tanti Paesi per averne tutto l’anno». Per il bene dell’impresa ogni ingranaggio deve essere accordato con gli altri. Ancora Hirich: «Per quanto noi possiamo essere bravi a trattarli, la vecchia regola vale sempre: shit in, shit out, che credo non abbia bisogno di traduzione. Quindi chiediamo ai nostri fornitori di raccogliere il frutto dall’albero quando il suo dry matter, l’indice di materia secca, è di 23. Dopo lunghi studi abbiamo scoperto che è il compromesso ottimale tra durata e sapore». A quel punto gli avocado, in container frigo, iniziano il loro viaggio: «Una ventina di giorni in mare. Due di deposito appena arrivati qui. E cinque per completare la maturazione». Mi porta in una di queste cinquanta (raddoppieranno presto) ripening room delle dimensioni di un garage per camion, dove con grandi ventilatori la temperatura iniziale di cinque gradi deve essere portata gradualmente a venti. A quel punto vanno messi in conto uno-due giorni per l’imballaggio e uno per arrivare nei supermercati, per un totale medio di circa un mese, «dalla fattoria alla forchetta», come usano dire.
È nei due giorni di parcheggio iniziale, scaricati dai tir e analizzati a campione dagli specialisti per verificare che le partite non abbiano difetti, che avviene la magia. Ora è Theo, ex project manager del settore petrolifero lasciato a spasso dal Covid e riciclatosi qui (migliore battuta: «Sostenibilità, sostenibilità, ma allora che senso ha mettere un marchio adesivo su ogni singolo avocado?»), a farmi da guida.
Gli avocado, in questa fase, sono ancora duri come sassi. Un nastro trasportatore li trascina su una serie di rulli a torciglioni di setole che sono state irrorate del composto segreto a base di lipidi e glicerolipidi estratti da bucce, semi e polpa di altri frutti e che, quando i frutti ci rotoleranno sopra per venti-trenta secondi, verrà spalmato su ogni lato dell’ovale (questa è l’unica fase interdetta a foto o telecamera). Per la buona riuscita dell’impermeabilizzazione, per così dire, è fondamentale che il frutto sia spalmato uniformemente, non troppo né troppo poco.
A quel punto passeranno ad asciugare per tre minuti in un forno a 60 gradi e poi altri nastri li rimetteranno nelle scatole per finire nelle ripening room. Da dove saranno trasferiti al piano inferiore, alla temperatura di 7,3 gradi dove riposano anche tutti gli altri prodotti importati da Nature’s Pride e un braccio meccanico («Ognuno sostituisce otto-dieci addetti umani») li prende, con gran delicatezza, uno a uno per posizionarli in confezioni da due in su, con l’etichetta Eat Me e il marchio di Apeel, pronti per prendere la via della grande distribuzione.
MINARE I BITCOIN SFRUTTANDO IL CARBONE
Nell’ultima Galapagos mi occupo della chiusura del cerchio dell’industria delle criptovalute. Prima è andata in giro per il mondo per trovare l’energia più a buon mercato, poi hanno addirittura recuperato vecchie miniere inquinantissime per alimentare il loro business:
Della tendenza si occupa il Bulletin of Atomic Scientists partendo dal caso di Dresden, a nord di New York. Lì Greenidge Generation aveva chiuso per bancarotta nel 2011, salvo riaprire nel 2017 come impianto a gas. Che da allora però aveva prodotto poco o niente e oggi punta a utilizzare 85 dei 106 megawatt di capacità per minare criptovalute. Che il bitcoin e i suoi fratelli siano un'idrovora di elettricità è notorio. Alex de Vries, forse il maggior esperto al mondo, calcola che l'industria consuma 204,50 terawatt/ora all'anno, pari al fabbisogno della Thailandia. Una stima più conservativa del Cambridge Center for Alternative Finance parla di 115,4 terawatt/ora, poco più dell'Olanda.
A KIEV, PRIMA E DOPO
Nella newsletter del Venerdì (iscrivetevi, iscrivetevi, iscrivetevi!) segnalo anche un appuntamento di Cortona on the Move, un magnifico festival di fotografia dove sarei dovuto andare (tampone permettendo):
Cittadini di Kiev. Ecco i fidanzati Maksym e Liubov che dopo le prime bombe si sono trasferiti in una stazione della metropolitana. O Natalia, che fa la volontaria in una cucina da campo. O Roman, che gestiva una palestra di arti marziali e si è arruolato il giorno in cui i tank russi hanno varcato il confine. Sono alcuni dei volti, e delle storie, che il fotografo ucraino Alexander Chekmenev ha raccontato sul New York Times Magazine e, dal vivo, racconterà sabato sera sul palco del festival di fotografia Cortona on the Move. Dove è esposta anche la sua mostra Passport realizzata nel 1994 quando, all'indomani della dissoluzione dell'Urss, accettò di andare a scattare fototessere nelle case degli ucraini che dovevano cambiare i loro vecchi passaporti. Due prospettive intime, ed uniche, sul popolo di cui tutti parlano.
DA SENTIRE: MAMBO ITALIANO
Una vecchissima registrazione di Stefano Bollani, sentito dal vivo a Camaiore (Lucca), quando ancora non era famoso.
Epilogo
È morto Eugenio Scalfari. È stato un gigante del giornalismo ma non ho avuto la fortuna di conoscerlo da vicino. Chi l’ha fatto ne parla come di una specie di momento spartiacque. Senza dubbio è il campione di un’èra gloriosa che si chiude. Ha avuto una vita lunghissima e stento a immaginarne una più ricca di soddisfazioni.