#70 Come evitare l'estinzione
Uno scudo solare ci salverà?; all'istituto sul futuro dell'umanità ne parlano seriamente; sulle tracce del pianeta a pezzi con Elizabeth Kolbert; quella volta che mi son buttato a Ischia
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“OSCURATE QUEL CAZZO DI SOLE!”
A un certo punto, piuttosto in là nella lettura, l’autrice lo esplicita: «Questo libro racconta di persone che stanno cercando di risolvere problemi creati da altre persone che cercavano di risolvere altri problemi». L’autrice è Elizabeth Kolbert del New Yorker, premio Pulitzer con il precedente e magnifico La sesta estinzione (Neri Pozza) probabilmente la miglior giornalista di temi ambientali in circolazione. Le persone sono gli specialisti che stanno provando a disinfestare i fiumi dalle carpe argentate (che altri specialisti avevano incautamente introdotto per ripulirli). Oppure a succhiare la CO2 dall’aria per seppellirla nelle profondità della roccia. O ancora a raffreddare il pianeta bombardando l’atmosfera di particelle riflettenti che lo schermino dai raggi del sole. Ma siamo anche noi tutti che, per il solo fatto di produrre e consumare, abbiamo spinto il mondo su un piano inclinato di arroventamento che è molto difficile, ma non per questo meno imperativo, arrestare. Infine Sotto un cielo bianco (Neri Pozza) è il titolo del libro e allude alla colorazione che la volta celeste potrebbe assumere nel caso in cui, qualora cominciassimo davvero a schermare le radiazioni solari, di colpo poi smettessimo di farlo: «Bianchiccio, lattiginoso, come quello delle città con molto smog. Ovviamente è solo un’ipotesi perché nessun esperimento del genere è stato ancora condotto».
Ecco, partiamo proprio da lì, dal geoengineering. Dalla risposta a valle, per ardite vie tecnologiche, alla domanda posta dalla crisi climatica. Nel libro incontra i migliori scienziati che se ne occupano: l’hanno convinta?
«Convinta no, è troppo. Diciamo che dopo aver parlato con loro sono diventata più ambivalente. O, per dirla con la formula sintetica del professor Andy Parker, in alcuni scenari “oscurare quel cazzo di sole potrebbe essere meno rischioso che non farlo”. Certo, lui immagina scenari piuttosto disperati. Ma la cattiva notizia è che potremmo arrivarci e anche in meno tempo di quanto si creda».
AL SEMINARIO DI GEOINGEGNERIA
Di geoengineering avevo sentito parlare al Future of Humanity Institute di Oxford una volta che ero andato a intervistare Nick Bostrom, autore di Superintelligenza. Il pezzo iniziava così:
Oxford. Nella stanza ci sono otto uomini e un transumanista. L’argomento del giorno è la solar radiation management, ovvero come schermare la terra dalle radiazioni del sole. Si tratta di far spruzzare nell’atmosfera, da palloni aerostatici, un aerosol gigante di solfato di zolfo che dovrebbe deflettere il calore. Un fisico va subito sul pratico: «Lo zolfo, ai prezzi correnti, dovrebbe costare circa un miliardo di sterline all’anno. L’intero progetto una decina. Ciò significa che, se anche rimanesse solo l’1 per cento del Pil mondiale, ce ne sarebbe sempre abbastanza per farlo continuare». Un ingegnere problematizza: «Sì, ma chi regolerebbe il termostato?». Se il sangue che scorre negli uffici per divergenze d’opinione sull’aria condizionata è di qualche indicazione, non sarà una barzelletta mettere d’accordo Cina e Stati Uniti. Niente in confronto all’eventualità di un termination shock bisbigliata dal relatore tedesco con espressione grave. Perché se il sistema dovesse funzionare bene, isolando grandi quantità di calore dietro alla barriera vaporizzata, e qualcuno (magari un terrorista) la disattivasse di colpo una vampata gigantesca investirebbe il pianeta con conseguenze catastrofiche. Come se spalancaste un forno che da anni immagazzina energia. Nick Bostrom, il direttore del Future of Humanity Institute, soppesa ogni argomento rigirandosi tra le mani una tazza decorata da cuoricini colorati colma dell’ennesimo caffè. Anni fa, per aumentare la sua capacità di concentrazione, aveva provato col Modafinil, un farmaco testato anche dai militari in Iraq e Afghanistan per restare svegli e vigili per giorni. Il transumanista, ovvero uno che non si rassegna ai limiti che l’evoluzione ha sin qui imposto sull’uomo in termini di potenzialità e durata della vita, è lui.
A PROPOSITO DI SESTA ESTINZIONE
Tornando alla Kolbert, l’avevo intervistata in occasione del suo libro precedente: La sesta estinzione. Un estratto
La sesta estinzione è un titolo perfetto per un libro documentatissimo, molto ben scritto e, perciò, profondamente inquietante. Come se non bastasse, se lo sono trovato già pronto, perché Siamo nel mezzo di una sesta estinzione si chiamava lo studio della National Academy of Sciences in cui l’autrice si è imbattuta nel 2008. «Ancor prima di leggerlo rimasi sorpresa dalla titolazione» ricorda, «perché la scienza usa le parole con più cautela di noi giornalisti. Poi lo lessi e capì che valeva la pena scavare». Negli anni successivi ha quindi viaggiato tra Panama e Perù, dall’Australia alla foresta amazzonica, dall’Italia al giardino di casa sua, per cercare prove che corroborassero la tesi. Ovvero, semplificando, che in altri periodi della storia (ad esempio alla fine della grande glaciazione, non a caso la quinta estinzione), abbiamo già conosciuto importanti cambiamenti di temperatura. Però mai avvenuti in fretta come oggi. Con le sue parole: «L’odierno riscaldamento globale ha luogo con una velocità almeno dieci volte maggiore. Gli organismi dovranno migrare, o in alternativa adattarsi a quel ritmo». Non si annuncia una passeggiata di salute. La causa di questo declino turbo è quella che gli autori dello studio originario chiamano la «specie infestante», non esattamente un eufemismo per indicare gli uomini. La presa di coscienza di vivere in un’èra prioritariamente caratterizzata dal segno lasciato dall’attività umana risale solo a una decina di anni, quando il chimico olandese Paul Crutzen, Nobel per i lavori sul buco dell’ozono, la battezzò Antropocene (quel giorno un suo collega, alla moglie che gli chiedeva com’era andata in laboratorio rispose con un’insuperabile «Il lavoro va bene, ma sembra che potrebbe esserci la fine del mondo»). Con il nostro dissennato consumo di energia («Già nel 1890 il chimico Svante Arrhenius aveva avvertito che bruciare combustibili avrebbe portato a un pianeta più caldo»), con una produzione industriale irresponsabile, con tutte le apparentemente irrinunciabili abitudini con cui familiarizzano ora anche 2 miliardi e mezzo tra cinesi e indiani, stiamo facendo girare il motore del pianeta a una velocità che potrebbe risultargli fatale.
ANCH’IO, NEL MIO PICCOLO, MI SONO TUFFATO
Sull’onda dell’entusiasmante lettura kolbertiana avevo ripercorso una della sue tappe, nelle acque acide davanti a Ischia:
Su questo formidabile laboratorio naturale veglia la squadra di ricerca della Stazione zoologica Anton Dohrn, che ha sede su un promontorio che sovrasta il porto, nella villa rossa che fu del celebre naturalista tedesco, darwinista entusiasta. «È come una macchina del tempo che ci mostra oggi quel che può succedere domani» riassume Maria Cristina Buia, uno dei quattro ricercatori. Scientificamente non è un vantaggio da poco. E posti così, nel mondo, ce ne sono giusto tre in Papua Nuova Guinea e uno in Giappone, oltre a un'altra manciata con caratteristiche simili ma non identiche. Un'unicità che non si desume dall'entrata modesta che la Stazione deve forzosamente condividere con il dehors di un ristorante, costringendo a un ridicolo zigzag tra i tavoli. Chissà che deve aver pensato Amit Kumar, il dottorando indiano che vedo armeggiare con un microscopio, o i vari studiosi da tutto il mondo che vengono qui in processione. Maria Cristina Gambi, altra ricercatrice veterana, scuote la testa: «Quando segnalammo una distesa di importanti alghe rosse quelli che volevano sloggiarle per fare lavori al porto ci guardarono come guastafeste. Ma la nostra missione è difendere questo ambiente, studiarlo e ricavarne avvertimenti per il benessere del pianeta». Mi mostra una mappa per cui, oltre alla peculiarità delle eruzioni di Co2, questa zona vanta anche quella di trovarsi sul confine bio-geografico internazionalmente noto come 14 divide, dai gradi minimi che qui raggiunge la temperatura marina. O forse è meglio dire che si trovava, dal momento che il termometro è quasi ormai fisso su 15, il livello che sino a pochi anni fa competeva al canale di Sicilia. Il corrispettivo climatico del risalire della linea della palma di cui parla Sciascia. Che anche in questo caso non annuncia buone notizie. Durante l'immersione Bruno Iacono, che per la Stazione costantemente documenta con foto e video le modificazioni dell'habitat, attaccata a uno scoglio mi indica una patella anomalmente bianca. «La sua conchiglia è stata corrosa dall'acidificazione, che varia e può scendere anche sotto il Ph 7. Immaginate di metterla sotto aceto. Per resistere lei produce più carbonato di calcio, ma se anche sopravvive il suo comportamento cambia, e con esso varie dinamiche connesse" si sforza di ridurre la complessità Buia. Valerio Zupo è lo specialista di molluschi. Ha scoperto che, dopo aver mangiato alcuni nutrienti che si trovano sulle posidonie acidificate, molti gamberetti locali cambiano sesso: «Lo fanno attraverso l'apoptosi, ovvero la morte programma di alcune cellule, in questo caso il gamete maschile, ed è l'ennesimo meccanismo adattativo nei confronti dell'ambiente modificato". Una specie di eutanasia selettiva di certi organi che potrebbe dare indicazioni utili nella cura del cancro. L'ennesima, radicale risposta evolutiva per sopravvivere in un ambiente diventato ostile.
Epilogo
Nell’ultima Galapagos riprendo un vecchio dibattito: internet ha ucciso la classe media o gli sta dando una seconda chance (creativa)? Nello scontro tra Jaron Lanier e Kevin Kelly io sto decisamente col primo.