#69 Cinghiali e altre invasioni
Il sus scrofa va in città; la Xylella è stata molto fastidiosa; i robot erano già tra noi e lo saranno sempre di più; clamoroso: stagisti da 10.000 dollari al mese
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L’ERA DEL CINGHIALE IN BRANCO
Sono diventati i nemici pubblici numeri uno. Scorazzano in centro, come ragazzini in gita. Abbiamo cercato di capire di più perché il sus scrofa ora sembra preferire il centro storico al bosco. L’inizio del servizio di copertina del Venerdì in edicola:
Roma. Incontro mancato per una setola. A testimonianza del passaggio restano quattro cassonetti capovolti, col contenuto sparpagliato per terra, che ostruisce via dell’Acqua Traversa, zona Cassia antica, quadrante Nord-Ovest di Roma. Se non è stato un tifone straordinariamente circoscritto, sono stati i cinghiali. Che scendono indisturbati, per le provviste notturne, dalla vicinissima riserva naturale dell’Insugherata. È quasi mezzanotte. Da un paio d’ore con Valerio Nicolucci, giovane tecnico faunistico, cerchiamo di avvistare i bestioni che hanno colonizzato l’immaginario capitolino, e non solo. Parco delle Sabine. Parco di Talenti. Bosco della Marcigliana. La città è circondata dal verde. Invasa. Certi spartitraffico hanno l’erba alta di una savana. Nicolucci scruta l’orizzonte con una termocamera, un cannocchiale da quattromila euro per la visione notturna. Alla fine conta sette volpi. Avvista in lontananza due masse nere. Sono loro? È un attimo e scompaiono. Dove ieri ne avevano segnalati, oggi niente. Pronti ad alzare bandiera bianca, spuntano i cassonetti spiaggiati. «È il colmo» dice, «che i secchioni non siano interrati. È come invitarli a un banchetto. Per tacere del verde pubblico che, in queste condizioni, diventa un rifugio ideale. Hanno alloggio e vitto facile: il paradiso!».
UNA NAZIONE INVASA
Che diventa inferno urbano anche nel resto del Paese. “Rieti, scatta la caccia al cinghiale infetto”. “Genova: protesta contro l’abbattimento”. “Agricoltori pugliesi allo stremo” per i raid nei campi. “Cinghiali a spasso nel catanzarese”. “Molise, avvio ai corsi per il selecontrollo”, che è un modo mirato per farli fuori. Basta un giorno di titoli su Google News per capire che, se non l’èra, è sicuramente tornata l’estate del cinghiale nero. E, come con ogni problema che si rispetti, urge un colpevole all’altezza della situazione. Nella capitale sembrava facile: «È colpa della Raggi», l’ex-sindaca affondata (anche) sulla spazzatura. Ma ora lei non c’è più e i cinghiali restano. Allora dito puntato contro i cacciatori, che ieri li hanno ripopolati ma oggi sono arruolati per sterminarli. Non resta che il solito governo ladro, che ha cancellato i forestali. Come succede nove volte su dieci, le ragioni vanno a braccetto coi torti. Si tratta di quantificare le rispettive quote. Di un’emergenza prima tale solo per gli agricoltori che, via Coldiretti, protestano sotto al Parlamento per danni da 200 milioni di euro all’anno.
«È un dibattito surreale» esordisce il ricercatore Andrea Monaco negli uffici dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra). Con pochi punti fermi. Uno: «Dieci anni fa i cinghiali venivano avvistati solo in due città: Trieste e Genova. Adesso in 105». Due: «Non esiste un vero censimento ma, a partire dai 300 mila prelievi (eufemismo per uccisioni regolamentate) del 2020 stimiamo il totale in almeno un milione di esemplari». Tre: «A metà anni 50 i cinghiali da noi, tranne in Maremma e a Castel Porziano, erano quasi estinti. Sono state regioni e province, col beneplacito dei cacciatori, a fare le immissioni (altro gergalismo a indicare il ripopolamento) per ottenere una risorsa faunistica sfruttabile dal punto di vista venatorio, che significa anche consenso politico e tasse». I famosi cinghiali romeni che, da narrazione sovranista su altre specie presunte infestanti, avrebbero sostituito i nostri figliando di più («Non è così, dai test genetici la nostra specie risulta ancora italianissima»).
XYLELLA, ALTRA SPECIE INFESTANTE
Nel settembre del 2019 sono andato in Puglia per cercare di capire come una tragedia in slow motion come quella della xylella fosse stata possibile. Tra gli ingredienti pensiero magico, politici populisti e una diffusa cultura del sospetto che poi sarebbe traslocata nella testa dei no-vax. L’incipit:
GALLIPOLI. È inutile piangere sull'olio versato. Ma è necessario capire perché la Puglia, che da sola valeva la metà della produzione nazionale, nell'ultimo anno l'ha dimezzata. Fanno 1,2 miliardi di euro persi, nelle stime di Coldiretti. E c'entrano 21 milioni di alberi morti per un batterio arrivato dal Costarica con un nome esotico che è tutto un understatement: Xylella fastidiosa. Sventuratamente sei anni fa molti salentini l'hanno preso alla lettera: un fastidio, di cui sarebbero sbarazzati come di certe zanzare agostane. Mentre Bruxelles diceva «sradicare subito le piante infette», Bari rispondeva «niente fretta, troveremo una cura». I coltivatori si incatenavano agli alberi. I comitati denunciavano le sempre turpi multinazionali. E un'armata raccogliticcia di santoni pretendeva di curare l'equivalente di un cancro vegetale con l'omeopatia. Da allora però il contagio ha continuato a salire verso nord a una media di due chilometri al mese e non accenna a fermarsi. La storia, ieri raccontatissima a livello regionale, stramerita la ribalta nazionale perché offre una perfetta cartografia psichica del Paese in cui viviamo oggi. A partire dal sospetto sistematico nei confronti della scienza. Il populismo dei politici che, pur di non perdere un pugno di voti, lo vellicano. La supplenza della magistratura (e i suoi sbandamenti). Per non dire di giornalisti che, malintendendo la lezione del follow the money, immaginano cospirazioni anche dietro al totale dello scontrino del caffè. Insomma, l'Italia al tempo dell'uno vale uno.
Breve cronologia. Nell'autunno del 2013 un numero anomalo di olivi comincia a seccare. Giovanni Martelli, emerito di fitopatologia all'università di Bari, c'era ai tempi dell'epidemia che negli anni '60 aveva massacrato le viti in California e suggerisce: «Potrebbe essere xylella». Ha ragione. Il governo Renzi nomina commissario speciale per l'emergenza il generale della forestale Giuseppe Silletti e gli dà 300 uomini. Ma i coltivatori non ne vogliono sapere di tagliare alcunché. Mentre le piante deperiscono, cresce un sottobosco di terapeuti alternativi. L'agricoltore Ivano Gioffredda che indica in comuni funghi i veri colpevoli e, in un video commissionato dalla portavoce dei 5S all'Europarlamento Rosa D'Amato (celebre anche per avere attribuito una dichiarazione falsa sull'inutilità dell'espianto all'autorità mondiale Alexander Purcell), diventa l'eroe della resistenza alla pensée unique brussellese. Il batteriologo Mario Scortichini che propone aerosol di rame e zinco suscitando poi un'indagine interna dell'ente per cui lavora che sospetta un conflitto di interesse. L'imprenditore Luigi Botrugno che ha inventato un sapone speciale con cui lavare le piante, galvanizzando il senatore grillino Lello Ciampolillo. Gli olivicultori fanno ricorso al Tar contro le sradicazioni. Nel dicembre 2015 è la Procura di Lecce a sequestrare le piante "condannate" e ipotizza addirittura per i ricercatori il reato di disastro ambientale. I curanti sarebbero gli untori, come nell'epopea giudiziaria della virologa Ilaria Capua che fu incredibilmente accusata di aver spacciato l'influenza aviaria. «Si tratta di uno dei provvedimenti giudiziari più strani e inspiegabili degli ultimi anni» scrive il giurista Luca Simonetti in La scienza in tribunale (Laterza), un catalogo di orrori giudiziari da Di Bella al terremoto dell'Aquila. Tutto fermo, tranne il contagio. Gli ambientalisti festeggiano sulle note di Al Bano Carrisi («Saremo le guardie del corpo degli ulivi: guai a chi li tocca!») e Nandu Popu, frontman dei Sud Sound System, con coro dei Negramaro, Sabina Guzzanti e altri specialisti di chiara fama.
UNA GIORNATA SENZA UMANI
Nel settembre del 2013 ero andato a San Francisco per parlare di un’altra invasione, quella dei robot. Immaginando una giornata senza umani, in quello che poi sarebbe diventato questo libro. Il pezzo iniziava così:
SAN FRANCISCO. L'astinenza dagli umani inizia appena atterrato. Non esistono più biglietterie con operatori a sangue caldo, ma solo macchinette automatiche con un prezzario molto chiaro per ogni possibile destinazione. Va tutto liscio tranne per la ricevuta (lo dico per l'ufficio note spese) che dimentico di chiedere subito. Ci fosse stato un omino avrei potuto recuperarla dopo aver pagato, qui se cambi l'ordine dei fattori il prodotto cambia irreparabilmente. Uscito dalla fermata interrogo Google Maps sul cellulare. Tenderloin, il cuore di tenebra di downtown, è sempre stato il paradiso degli homeless, ma la crisi sembra averlo bombardato con l'effetto finale di un'evasione in massa da un ospedale psichiatrico. Arrivo spedito, senza dover chiedere mai. Sulla porta del bed and breakfast c'è un codice per entrare. Così facendo hanno dimezzato il personale, presente solo la mattina. Se vuoi un consiglio su un ristorante vicino, puoi chiedere al sito Yelp! Ma è così tardi che passa la voglia. Allora prenoto la sveglia per l'indomani su Wakeupdialer.com. Ti chiama al numero telefonico che vuoi, ogni giorno con un messaggio scelto a caso da un repertorio di un attor comico britannico.
Prima di dormire un bel bagno è quel che ci vuole. Ci sono anche i sali, per il cronista così esotici che dall'emozione cadono in terra e inondano il pavimento. Però nel corridoio mi sembra di aver visto un Roomba, quegli aspirapolvere che fanno tutto da soli. Lo sguinzaglio nel bagno e mi chiudo dietro la porta. Lo osservo mentre pulisce, familiarizzando per tentativi ed errori con il contorno dei muri. È un disco di plastica da 40 centimetri di diametro. Zeppo di sensori, tra cui dei filamenti che girano sporgenti come vibrisse di gatto, valutando la consistenza di possibili ostacoli. In pochi minuti, in una scena che ha qualcosa dell'Apprendista stregone disneyano, ingoia tutti i cristalli rosa e lo posso rimettere a cuccia sul suo caricatore, dove del resto era in grado di tornare anche da solo. Gli sono sinceramente riconoscente per avermi evitato la corvée notturna. Però poi penso che Alina, la signora ucraina che mi aiuta in casa, non condividerebbe tanta gratitudine. Per lei il bassotto meccanico è più pericoloso di un pitbull. Anche Robert Reich, professore a Berkeley ed ex ministro del lavoro con Clinton, la vede più o meno allo stesso modo. In Inequality for All, il documentario di cui è protagonista che sta per uscire nelle sale statunitensi, ammonisce: «Scegliere di non fare il biglietto alle macchinette è un atto politico». Ovvero, più cassoni di latta negli androni meno uomini e donne dietro agli sportelli. Il dibattito è aperto, e sta in questi termini: robot e software sono sempre più intelligenti. Prima sostituivano solo i colletti blu, nella manifattura, ora anche i colletti bianchi, nelle occupazioni più creative. Dovremmo rallegrarci per la fatica sventata o cominciare sul serio a preoccuparci?
STAGISTI D’ORO CERCANSI
Dall’ultima Galapagos:
Dici stagista e pensi "lavoro gratis". È così vero che Eleonora Voltolina, una giornalista freelance, anni fa ha creato un sito (poi diventato un libro omonimo) per denunciare gli sfruttamenti, dal titolo La repubblica degli stagisti. È così da noi, ma non è così dappertutto. Di certo non da Roblox, un'azienda di videogiochi, che paga i suoi interns 10 mila dollari al mese. È la primatista, ma non è la sola. Da una classifica recente al secondo posto si piazza Uber (8333 dollari), al quinto e sesto Amazon e Meta (8000) e così via, con cifre che fanno sbiancare d'invidia i lavoratori italiani. Certo, è tutto diverso: il costo della vita, il fatto che probabilmente dovranno pagarsi le eventuali spese sanitarie da soli e così via. Però fa impressione come le aziende più innovative siano anche quelle che, a partire dal primo contatto con il potenziale dipendente, sono disposte a tanto per attrarre i migliori.