#68 Memento homo quia pulvis es...
È arrivato il compost umano; a Roma i rifiuti sono catastrofe continua; a San Francisco invece assi del riciclaggio; un libro sugli immortalisti
ARTICOLI. LIBRI. VIDEO. PODCAST. LIVE. BIO.
Prologo
…et in pulverem reverteris. Conviene tenerlo a mente quando si rischia di montarsi la testa.
MA COMÈ BELLA LA TERRAMAZIONE!
A Seattle sono sempre molto avanti e stanno superando la cremazione, antiecologica, per una più rispettosa terramazione. Di che si tratta? Ne scrivo sul Venerdì. L‘incipit:
AUBURN (WASHINGTON). Se c'è un solo appunto da fare è l'uso un po' troppo insistito dell'aggettivo «bellissimo» per descrivere la procedura. Stiamo pur sempre parlando di microbi che mangiano un cadavere trasformandolo in terra. E va bene il risparmio ambientale e la partecipazione della famiglia al rito, ma sempre di un trapasso si tratta. L'entusiasmo di Micah Truman, però, è inarrestabile: «Questa è una delle poche aziende che, più cresce, meglio è per il mondo». Ovviamente parla della sua Return Home, la più grande in circolazione (la concorrenza, pur sparuta, esiste) nel settore della terramazione, ovvero un procedimento naturale per ottenere compost dal caro estinto.
Il ricco, civile, tecnologico (Amazon e Microsoft hanno casa qui) stato di Washington, nel 2018 è stato il primo a legalizzare la pratica, entrata in funzione nel 2020. E Truman, un passato nella finanza, prevalentemente in Cina dove raccoglieva fondi per investimenti immobiliari da fare negli Stati uniti, ci ha creduto subito. È un uomo pratico, con gli occhi piccoli ma aguzzi per il business. Dice: «Non c'è bisogno di studi di mercato per capire che il problema, prima o poi, riguarda tutti: niente di personale (ride). E siccome morire bisogna, almeno facciamolo meglio di come avviene ora». Ovvero con l'antidiluviana sepoltura, quella della foscoliane "urne de' forti", o con l'energivora cremazione, scelta dal 57 per cento degli americani: «Per bruciare un corpo servono 110 litri di benzina per raggiungere una temperatura di 870 gradi, producendo una discreta quantità di gas serra di cui non abbiamo assolutamente bisogno. A noi invece bastano 70 gradi e meno energia di quella per un phon con cui asciugarsi i capelli».
L’ETERNITÀ DELLA MONNEZZA ROMANA
Qualche anno fa, seguendo il bandolo di un disco giallo che avevano lasciato per mesi sotto casa mia, mi ero occupato di monnezza romana. Un sempreverde:
Scrivere sui rifiuti di Roma è una missione quasi suicida. L’argomento è complesso, farcito di sigle arcane (tmb, fos, css), le responsabilità diffuse. La città produce 1,8 milioni di tonnellate all’anno. Quasi 5.000 tonnellate al giorno, di cui solo il 44 per cento viene differenziato. Restano 3.000 tonnellate di indifferenziata alle quali trovare quotidianamente una collocazione. Dove vanno a finire? Circa 1.200 nei due impianti di trattamento meccanico biologico (tmb) di Malagrotta, che separano l’umido dal secco, gestiti dalla Colari che si scrive Consorzio Lazio Rifiuti ma si legge Manlio Cerroni, il ras nella cui discarica per cinquant’anni è finito il grosso della monnezza. Fino a cinque anni fa quando, con sprezzo del pericolo, l’allora sindaco Ignazio Marino l’ha fatta chiudere. Il novantenne avvocato non si è perso d’animo e, attraverso i suoi due tmb, tratta ancora circa un quarto dei rifiuti capitali. Altre 650 tonnellate vanno invece nel tmb Ama di Rocca Cencia e 400 andavano a quello, sempre pubblico, del Salario che un misterioso incendio ha messo fuori uso a dicembre. Anche se Ama riuscisse a spazzare le strade (apodosi dell’irrealtà, disco giallo docet), non saprebbe dove portare i rifiuti. Che infatti per 1.000-1.500 tonnellate emigrano fuori provincia (Frosinone, Aprilia, Viterbo) quando non fuori regione (Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia) o, fino all’estate scorsa, all’estero (Austria, Germania).
Prima domanda ingenua: non converrebbe costruire qualche nuovo tmb per avvantaggiarsi della tariffa imposta dalla Regione di 104 euro a tonnellata rispetto ai 137 che pretende Cerroni o dai 139 ai 197 dei forestieri?
MENTRE A SAN FRANCISCO RICICLARE È UN’ARTE
Qualche anno prima invece ero andato in California per raccontare le virtù riciclatorie dei cittadini di San Francisco. Estratto:
SAN FRANCISCO. Riciclare è un'arte. E per chiarire che non si tratta dell'ennesima, pigra metafora pubblicitaria alla Norcal Waste Systems ti fanno entrare in una galleria, ammirare le opere e conoscere gli artists in residence, creativi a busta paga con il compito di cavare sangue estetico dall'immondizia. Sculture di lamiera neo-giacomettiane, serie fotografiche sui cromatismi di un'arancia che va a male, vasi fatti con vetrine rotte. Fuori si sentono le grida dei gabbiani che spolpano, con certosina ferocia, i rimasugli di cibo dalla spazzatura non riciclabile. "Non dovrebbero essercene" ringhia il portavoce Robert Reed, capelli a spazzola e sguardo che fa sbiadire un addestratore di West Point, "gli alimenti devono andare nel bidone verde non in quello nero. Ma gli esseri umani sbagliano". In verità qui poco e sempre meno. Al punto che, con una quota del 70 per cento, San Francisco è - nella categoria metropoli - la capitale mondiale del riciclaggio dei rifiuti. Non c'entra necessariamente l'ambientalismo e la mania macrobiotica, nipoti della controcultura love and peace anni '70. Il record è più prosaicamente figlio di un senso civico non innato (sul versante cittadini) e di un beninteso capitalismo (sul lato dell'azienda incaricata di raccolta e cernita). «Ci sono 600 mila piccoli cassonetti in città: blu per plastica, metalli e carta, verde per l'organico e nero per il resto». Li trovi se non sotto ogni palazzo, ogni due. Niente assurdi orari di raccolta e tutto il riciclabile va nello stesso sacchetto («se è complicato non può funzionare»). I camion della Norcal passano ogni mattina, ingollano il rusco come la balena di Jona e lo risputano in uno dei due stabilimenti nella prima periferia cittadina. L'«impianto di recupero materiali» del Pier 96, con vista sull'oceano, è costato 38 milioni di dollari a cui vanno aggiunti i costi di gestione. Metà l'azienda li recupera rivendendo i materiali a chi li ricicla. Il resto viene coperto dalla tasse, 25 dollari al mese, dei contribuenti. Ma a differenza di Napoli, dove la concessione a Fibe-Impregilo le garantiva tanti più soldi tante più ecoballe produceva (tagliando ogni incentivo alla differenziata), qui vale esattamente il contrario. Così, di anno in anno, più virtù significa migliori fatturati.
MISSIONE “CADAVERI ZERO”
Ovviamente un altro modo per evitare di smaltire i resti de mortali sarebbe evitare di morire. Una sfida a cui si applicano, con potenziata intensità, le migliori menti della Silicon Valley che proprio non si rassegnano all’idea che il prodotto “uomo” abbia questo fastidioso difetto di progettazione. Se ne occupa l’ultima Galapagos:
Una delle idee chiave care agli immortalisti (di quelli del Wisconsin il Venerdì si occupò con soddisfazione tredici anni fa) è quella di “velocità di fuga della longevità” coniata dallo scienziato britannico Aubrey de Grey, ovvero l’ipotesi che se si riuscisse a estendere la durata della vita di 20-30 anni (facendola raggiungere la soglia dei 110-120) a quel punto le tecniche che hanno reso possibile quel risultato potrebbero crescere esponenzialmente fino a traguardi oggi impensabili. È una materia, questa, lastricata di scienziati veri e di egregi pataccari. In The Price of Immortality, il libro di Peter Ward appena uscito in Gran Bretagna, si racconta degli uni e degli altri.
Epilogo
Lunga o corta (meglio lunga), l’importate è viverla bene. Prendo a prestito le parole dell’economista John Maynard Keynes, poco tempo prima di morire di infarto: «Il mio unico rimpianto è di non aver bevuto più champagne». Prosit.