#62 Via col vento
Se la guerra in Ucraina fosse usata come alibi contro la transizione ecologica sarebbe un grave errore; due chiacchiere con Saul Goodman; se Tucidide avesse avuto un iPhone; quel gran pezzo di Lundini
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Prologo
È difficile parlare d’altro in questi giorni. Ci proviamo con l’ultima copertina del Venerdì, realizzata prima della guerra e lungamente rimandata (titolo come sempre geniale del direttore Livio Quagliata: Via col vento). Un tema che la guerra ha reso ancor più cruciale: come renderci autonomi dalle energie fossili? Il rischio è che l’ultima emergenza (bypassare il gas russo) faccia andare in secondo piano la penultima (il riscaldamento globale), tornando indietro sul carbone invece che spingersi più convintamente in avanti sulle rinnovabili. Sarebbe un grosso errore.
NIENTE ALIBI SULL’EOLICO
Ho sentito vari esperti. Tra tutti Valentina Bosetti, presidente di Terna oltre che ordinaria di economia ambientale alla Bocconi. Un estratto:
Torniamo all’oggi. Dice Bosetti: «Per arrivare al traguardo 2030 dovremo aggiungere 8 Gigawatt ogni anno – e Terna ha già ricevuto richieste di connessione pari al doppio di quanto sarebbe complessivamente necessario da imprenditori interessati a produrli – però alla fine ne aggiungiamo meno di 1». Andamento lento smentito solo nel periodo 2010-12. Quello del boom degli incentivi che provocò una corsa ai nuovi impianti. Ecco, dovremmo fare come quell’anno lì, tutti gli anni. Possibilmente scoraggiando la criminalità organizzata dal buttarsi sul banchetto dei sussidi. E poi disinnescare la resistenza locale «organizzando tavoli estesi a cittadinanza ed enti, senza ripetere errori tipo Tav».
Allarghiamo la discussione al chimico Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr e autore di Emergenza energia (Dedalo): «Le infiltrazioni criminali e il fatto che i pannelli li facevano tutti i cinesi, non ci può far buttare il bambino con l’acqua sporca: vorrebbe dire rinunciare a un settore manifatturiero promettentissimo. Pannelli, inverter, pale dobbiamo farli qui, aumentando la produzione di almeno sei volte. Sottraendoci così all’insicurezza energetica di cui ci rendiamo conto giusto in occasione della guerra». La nostra discussione riguarda l’elettricità, ovvero circa un quarto del fabbisogno energetico, il cui 75 per cento è ancora assicurato da fonti fossili. Ed è sul bersaglio grosso che si dovrà intervenire, «elettrificando la mobilità e poi il riscaldamento, magari col teleriscaldamento ottenuto dalle biomasse». L’importante è capire che servono decisioni drastiche, subito: «Negli ultimi trent’anni siamo riusciti a tagliare il 19 per cento di emissioni. Per centrare gli obiettivi 2030 bisognerà sforbiciarne il 44 per cento in un terzo del tempo. È fattibile, ma con un’accelerazione a oggi non alle viste».
I costi, s’è visto, non sono più un alibi. «Sono sedici anni che scendono molto più di quanto il World Energy Outlook dell’Agenzia internazionale dell’energia, o la stessa Greenpeace, prevedono. La realtà ha superato (quelli tacciati di essere) i sognatori» osserva Stefano Caserini del Politecnico di Milano e autore di Sex and the climate (People). Mostra i grafici della banca d’affari Lazard per cui «le rinnovabili costano meno del gas e infinitamente meno del nucleare da costruire, ma convengono anche rispetto al nucleare esistente. Il vento è più economico del sole, e meno intermittente. Ma anche levellizzando, ovvero considerando i costi per lo storage, l’accumulo in batterie o bacini idrici per quando è notte o fa bonaccia, vincono rispetto alle alternative inquinanti».
HO CHIAMATO SAUL: ECCO COSA MI HA DETTO
Ho iniziato a guardare le serie da Breaking Bad. Che è come cominciare a leggere romanzi da Guerra e pace. Così quando la finì e provai subito con la prima puntata del prequel Better Call Saul ne rimasi deluso, salvo fortunatamente ricredermi anni dopo (è, se possibile, tanto bella quanto la serie madre). Un estratto:
Da groupie dichiarato gli chiedo come sia stato possibile che la prima puntata di BCS avesse scoraggiato tanti entusiasti spettatori di BB. «Quella di Walter White è la storia universale di ogni cinquantenne che sperimenta una crisi di mezza età, con le tensioni tra marito e moglie, le pressioni finanziarie: tutti potevano identificarcisi. Mentre BCS è una storia in cui è molto più difficile rispecchiarsi: devi essere un avvocato cui le cose non vanno troppo bene, un po’ delinquente, con un fratello maggiore verso cui provi gran risentimento. Insomma non c’è niente di universale. Tranne la ricerca di sé, ciò che si vuole davvero essere nella vita, tipica di trenta-quarantenne e che a Saul succede un po’ più tardi». Forse, più semplicemente, è che subito dopo aver visto BB le aspettative erano troppo alte, i paragoni troppo incalzanti. Dice: «Nemmeno gli scrittori sapevano bene, all’inizio, cosa fare. Volevano qualcosa che fosse diverso da BB ma che si situasse nello stesso universo. E hanno compiuto uno straordinario lavoro. Non solo: adesso che ho girato anche l’ultima stagione, sebbene ovviamente non possa dir niente a riguardo, anche alcuni aspetti di BB si possono leggere sotto a una nuova luce».
Il cronista, che ha potuto vedere solo il primo dei tredici nuovi episodi, può solo confermare l’immenso piacere di rivedere, come in una riunione di famiglia, il sanguinario Lalo Salamanca, scampato a un regolamento di conti ordito da Gustavo Fring, il gelido narco che usa come copertura i fast food di Los Pollos Hermanos; lo zio Hector, il patriarca muto in sedia a rotelle che comunica a colpi di campanello da reception; lo spicciafaccende Mike Ehrmantraut, una specie di Leibniz a servizio del male, con una sorprendente coerenza interiore, e il resto dell’insuperabile fauna umana che si muove intorno a Jimmy e Kim.
SE TUCIDIDE AVESSE AVUTO UN IPHONE
A guerra e informazione dedico l’ultima Galapagos:
Non è, come pure è stato detto, «la prima guerra sui social media». Come ricorda l'Economist in una lista non esaustiva Israele e Hamas si erano già sfidati a colpi di tweet; durante l'invasione del 2014 i soldati russi postavano loro foto nel Donbass (come conseguenza stavolta hanno impedito loro di portare i telefoni sul fronte) e anche su TikTok erano già finiti video dai combattimenti in Siria e, meno popolari, anche dal Nagorno-Karabakh, l'enclave su cui si sono scannati Armenia e Azerbaijan. Quel che è vero, però, è che l'attuale guerra in Ucraina è di gran lunga quella che più satura l'infosfera di sue foto e video. E lo fa per tutta una serie di motivi, non ultime le condizione infrastrutturali. Tre ucraini su quattro usano internet, stando all'International Telecommunication Union delle Nazioni unite. Quando capitò ai siriani di finire sotto le bombe solo il 30 per cento della popolazione era online. Contro l'ancor più magro 20 per cento al momento del ritiro degli americani dall'Afghanistan. Alcune guerre, quindi, si vedono più di altre perché i paesi dove si svolgono sono più connessi.
DA VEDERE: UNA PEZZA DI LUNDINI
Su RayPlay è iniziata la nuova stagione di Una pezza di Lundini. Molto forte indeed. Una boccata di ossigeno, energia rinnovabile.
Epilogo
Le parole non sorvegliate (da “macellaio” a “genocidio”) non aiutano le prospettive di negoziato, già molto difficili di per sé. È una strada in salita, non c’è alcun bisogno di renderla ancor meno agevole. Vedo tante energie spese a parlare di tattica militare e poche a occuparsi di strategia diplomatica. Spero ardentemente di sbagliarmi.