#60 Gigacapitalisti
Bezos, Musk, Zuckerberg e gli altri campioni tecnologici valgono, da soli, più di molti Stati. E contano anche di più. Ma le fortune troppo concentrate non fanno bene né al mercato, né alla società
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Prologo
È appena uscito un mio nuovo libro. Si intitola Gigacapitalisti e si tratta di un neologismo che è venuto in mente al mio editor e ha anche blandamente a che fare con la lettura di un mio pezzo sui gigayacht dei più ricchi del mondo. Allude, ovviamente, alle dimensioni gigantesche delle ricchezze dei protagonisti e anche alla natura prevalentemente digitale delle loro fortune. Mi sembrava una buona idea, come quasi tutte le idee di Andrea Bosco. Il piatto di copertina recita così: Bezos, Musk, Zuckerberg e il resto del club degli ultraricchi valgono, da soli, più di molti Stati. E spesso contano anche di più. Ma le fortune troppo concentrate non fanno bene né al mercato né tantomeno alla società. È il momento di intervenire, prima che sia troppo tardi. Si capisce di cosa parla, no? Di seguito incollo il suo prologo.
IL PROLOGO (DEL LIBRO)
A distanza di tempo il ricordo più vivido che ho della passeggiata sulla versione nautica di Versailles è la schiena di una donna. All'apparenza magrebina, china per terra ad appiccicare pezzetti di nastro adesivo azzurro su scalfitture nel parquet di rovere. Guasti che io, pur sforzandomi, non riuscivo a vedere. Lei sì. Il suo mestiere era di individuare i graffi impercettibili nel pavimento patrizio di quella nave da 160 milioni di euro. E poi quelli sui lavandini in travertino, sulle boiserie alle pareti e così via. A bordo anche la più piccola imperfezione era bandita. Lei doveva denunciarla, appiccicandoci sopra un nastro adesivo blu, e qualche specialista sarebbe intervenuto per sanarla. Mentre camminavo con soprascarpe di gomma per non peggiorare la situazione mi sono chiesto quanto guadagnasse per quel lavoro parossistico e ho provato a immaginarmi che casa avesse lei e quanta acribia potesse permettersi nella sua manutenzione. Milleduecento euro, il suo stipendio mensile, era quanto quella sontuosa abitazione marina consumava di cherosene in mezza giornata per tenere accese le luci. Lo sapeva? Ci pensava mai? E che effetto le faceva questa pantagruelica sproporzione? Centosessanta milioni di euro. Fermatevi un attimo a pensare. In equivalenze al tempo del Covid significano mascherine per tutta l'Africa o prime dosi Astrazeneca per quasi 90 milioni di esseri umani.
Una briciola di Musk per sfamare 42 milioni
Mentre scrivo queste righe, con sorprendente sincronicità, mi arriva la newsletter di Business Insider che riporta l'appello del direttore del World Food Programme, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sostenibilità alimentare. Il titolo è: «Una donazione una tantum da 6 miliardi di dollari da parte di Musk, Bezos e altri miliardari potrebbe salvare dalla fame 42 milioni di persone». D'altronde, ha spiegato David Beasley parlando con la Cnn, quella cifra corrisponde esattamente al rialzo della ricchezza privata che il padrone di Tesla ha registrato in una giornata borsistica particolarmente fortunata. Complessivamente, ha poi proseguito, «i primi 400 miliardari americani hanno conosciuto, nel corso dell'ultimo anno, aumenti dei propri patrimoni pari a 1,8 trilioni di dollari». State prestando attenzione? Sta proprio dicendo che, nell'anno della pandemia, quello con la contrazione dell'economia peggiore dalla Grande Depressione del '29, quella del pane e polvere (pochissimo pane) raccontati da John Steinbeck in Furore, nell'anno più calamitoso che le persone della mia generazione abbiano mai conosciuto il club ristretto degli ultra-ricchi statunitensi ha visto i propri conti in banca lievitare dell'equivalente di tutto il Pil italiano.
A bordo del gigayacht
Torniamo a bordo di uno dei loro giocattoli preferiti. Conosco nome e cognome del proprietario, che non avevo mai sentito nominare fino a un minuto prima, e il cui unico segno particolare di comune notorietà ha a che fare con una fidanzata popstar che aveva preteso di smontare tutte le piccole piscine realizzate a bordo perché, a quanto pare, ne andava pazza la predecessora. Non posso rivelare le generalità perché questa è stata la condizione per salire a bordo. Dove ogni dettaglio conta. Prendete i corrimano. Forgiati da un’officina locale, in acciaio tirato a specchio come solo nelle statue di Jeff Koons, di pianta ovale sedici centimetri per dieci. Hai l’impressione, stringendoli, che niente di male possa succederti. D’altronde se puoi spendere trecentomila euro per l’equivalente nautico del battiscopa domestico non sono troppe le cose che dovrebbero impensierirti. Difatti a bordo di questo gigayacht, che nel lessico familiare del cantiere viareggino Benetti che l’ha costruito a Livorno sta a indicare quelli sopra i novanta metri, sembra che il criterio che abbia improntato le scelte dell’armatore sia quello di certi parvenus davanti a liste di vini troppo enciclopediche: «Voglio il più caro!». Di rilancio in rilancio la fattura finale è arrivata ai famigerati 160 milioni. A cui va aggiunto circa il 10 per cento ogni anno per manutenzione e rimessaggio, che è come se dopo aver comprato una casa da un milione continuaste a spenderne ottomila al mese di spese condominiali. Senza considerare la dotazione di arte contemporanea contenuta a bordo che, non di rado, supera il valore del contenitore.
Una ricchezza pericolosa (per la democrazia)
La parabola nautica, con i suoi record di business pandemico, serviva solo come location (dove piazzare i nostri eroi) e metafora (dell'andamento strepitosamente anticiclico dei loro portafogli). Ciò che proverò a fare, nelle pagine che seguiranno, è abbozzare un identikit dei campioni assoluti di questa nuova schiatta di ultra-ricchi. Non per invidia di classe – sono decisamente sazio con i soldi che ho e non trovo niente di male nel fatto che ci siano persone che ne hanno tanti di più – ma perché mi sembra che i patrimoni dei Bill Gates, Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg del mondo abbiano raggiunto dimensioni incompatibili con un buon funzionamento della democrazia. Nel senso che quelle spaventose quantità di denaro si traducono inevitabilmente in altrettanto potere. Compreso quello di interferire sulle leggi che decidono ad esempio quante tasse far pagare e a chi (vale la pena rammentare che questi signori hanno tutti almeno due mestieri: il proprio e quello di elusore fiscale). Studiandone le biografie il topos più ricorrente, e storicamente inedito, è che si tratta di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli stati.
Privati come Stati
Gates, come mi ha fatto notare un'amica no green pass al termine di un'intemerata altrimenti piena di fattoidi distorti e sfondoni puri e semplici, se la defezione dell'America minacciata da Trump fosse andata in porto, col suo 10 per cento sarebbe diventato il principale finanziatore dell'Organizzazione mondiale della sanità. Per dire. Bezos, se i suoi piani continuano a marciare come negli ultimi vent'anni, si candida a diventare l'emporio unico dell'umanità. Prima di Musk nello spazio c'erano andati sono Russia, Stati Uniti e Cina. Oggi questo Creso che sembra ancora scontare i danni del bullismo patito da piccolo è il fornitore ufficiale della Nasa per scarrozzare avanti e indietro i suoi astronauti. Nell'attesa di colonizzare Marte. Infine c'è Zuckerberg di cui sempre più commentatori (e investitori) chiedono la testa per offrirla in pasto alla pubblica opinione scandalizzata dalla serie crescente di rivelazioni su un cinismo aziendale innalzato a forma d'arte. E parliamo di uno che, se la sua creatura fosse una nazione, con quasi tre miliardi di cittadini sarebbe più popolosa della Cina. Con un livello di sorveglianza, sia detto per inciso, che Pechino si sogna. Com'è quindi che, nello spazio di una generazione, questi che chiamerò gigacapitalisti (in ossequio sia al gigayacht da 500 milioni di dollari che Bezos si sta facendo costruire dall'olandese Oceanco e che tutti loro potrebbero largamente permettersi, sia ai gigabyte e ai gigabit, unità di misura del mondo digitale di cui sono a vario titolo campioni), com'è, dicevamo, che sono diventati addirittura più potenti dei loro predecessori dell'inizio del secolo scorso?
Baroni di rapina 2.0
Parlo del gruppo di imprenditori statunitensi che nei cinquant'anni tra il 1865, fine della guerra civile americana, e l'inizio della Prima guerra mondiale, fu largamente responsabile della trasformazione della società in cui operavano da agricola a industriale. E che in quel traghettamento ammassarono anche enormi fortune. Se nel 1848 l'americano più ricco era il mercante John J. Astor, con un patrimonio di 20 milioni di dollari, nel 1914 quel posto fu preso dal petroliere John D. Rockefeller, il primo miliardario della storia. Per fare un raffronto che abbia senso ai giorni nostri dieci anni fa la rivista Forbes commissionò a un economista di aggiustare quei patrimoni calcolando l'inflazione. Al ricalcolo il primatista Rockefeller di miliardi ne varrebbe oggi 336, Andrew Carnegie 309 e Cornelius Vanderbilt 185. L'unico contemporaneo che allora entrava nella top ten fu Bill Gates che ora vale 136 miliardi. Ma in soli sei anni persone allora invisibili a questo radar hanno fatto un balzo avanti stupefacente. E le new entry Bezos e Musk oggi si contendono il posto più alto del podio tra i viventi, superando entrambi il traguardo dei 200 miliardi. Se il tasso di crescita procede a questi ritmi i vecchi record verranno polverizzati molto presto. Un secolo fa il giornalista Matthew Josephson li battezzò collettivamente robber barons, baroni di rapina, in un libro dallo stesso titolo che denunciava, tra le altre cose, «lo sfruttamento senza scrupoli di lavoratori pagati poco e non sindacalizzati». Il soprannome ebbe fortuna. Le tecniche manageriali pure, a leggere le cronache odierne.
Cos'hanno in comune...
Ma al di là del pallottoliere, che pur conta, quali sono similitudini e differenze tra i «baroni di rapina» e i «sultani del silicio» secondo una nomenclatura rilanciata dall'Economist qualche anno fa? Molto, rispondeva il settimanale liberale, economicamente super pro-mercato e politicamente conservatore: «Sono gli Übermenschen degli ultimi 200 anni di capitalismo americano, le persone che sentono il futuro nelle loro ossa, lo fanno accadere e a volte si spingono troppo oltre». Che è già, considerata la fonte, un discreto segnale di allarme. E, come i «malfattori di grande ricchezza» di un tempo, anche questi «nuovi capitalisti stanno perdendo la loro patina» accusati da sempre più fronti di applicare le stesse spudorate strategie di subornare politici, impiegare lavoro precario, danneggiare i concorrenti e soprattutto monopolizzare i mercati perché se «Rockefeller una volta controllava l'80 per cento del petrolio mondiale oggi Google detiene il 90 del mercato delle ricerche in Europa e il 67 negli Stati uniti». Ieri come oggi la «somiglianza che colpisce di più è il fatto di aver rimodellato le basi materiali della civiltà». Leland Stanford e E.H. Harriman stesero oltre 200 mila miglia di binari creando le ferrovie. Andrew Carnegie rimpiazzò il ferro con l'acciaio, reinventando l'edilizia e tutto il resto. Ford inaugurò l'era dell'automobile. Bill Gates ha messo un pc in ogni casa. Larry Page e Sergey Brin li hanno riempiti di tutta la conoscenza del mondo. Mark Zuckerberg ha collegato in una piazza virtuale quasi 3 miliardi di persone. «Come le ferrovie resero possibile per oscure aziende di rivoluzionare dal cibo (Heinz) al bucato (Procter & Gamble), internet consente ad altri imprenditori di rivoluzionare ogni cosa dalle vendite al dettaglio (Amazon) ai trasporti (Uber)». Ieri come oggi il successo ottenuto in un settore ha fatto sviluppare loro un appetito insaziabile anche per quelli vicini. Il solito Rockefeller comprò foreste, creò fabbriche per trasformare il legno in barili, produsse componenti chimici per la raffinazione e mise in piedi flotte di navi e treni per trasportare i suoi prodotti. Jezz Bezos dal commercio in proprio è passato ai server che rendono possibile quello di tutti gli altri, alla robotica che gestisce i magazzini, allo streaming che invoglia sempre più persone ad abbonarsi a Prime e così via. Elon Musk dalle auto elettriche alle batterie, ai pannelli solari per alimentarle. L'edizione 2019 del rapporto della Internet Society ha coniato il termine di «total service environments», ambienti a servizio totale. Ovvero della tendenza delle piattaforme a diventare una destinazione onnicomprensiva, espandendosi nel maggior numero di direzioni possibili, offrendo sempre nuovi servizi e contenuti, sia per trattenere gli utenti che aumentare i fatturati.
Chiediamo allo storico
Sebbene l'Economist sia un gran giornale, è pur sempre un giornale. Per il raffronto storico meglio chiedere a uno specialista. Noam Maggor, che insegna alla Queen Mary University of London, è l'autore di Brahmin Capitalism che per i tipi della Harvard University Press ha raccontato l'America industriale della fine del diciannovesimo secolo. Dopo le doverose cautele di rito («Paragoni in epoche diverse sempre difficili») approva il parallelo, che può contribuire «a un'utile conversazione pubblica»: «Allora chi possedeva le ferrovie e il telegrafo decideva i prezzi da praticare agli agricoltori che le usavano per spedire le merci o quelli per far circolare le informazioni. Amazon, Google e Facebook non sono in condizioni tanto diverse». «Discriminazione» era il termine che ricorreva più spesso nelle denunce dei produttori di allora: «Non doveva essere un privato a decidere i vincitori e vinti di quel commercio. All'epoca era chiaro ma poi, fino a oggi, la dottrina antimonopolistica è stata interpretata in chiave di consumer welfare, ovvero di tutela dei consumatori dal rialzo dei prezzi. E lì Amazon ha avuto buon gioco nel dire che con loro i prezzi andavano addirittura giù». I parallelismi proseguono, sul fronte della lotta alla sindacalizzazione, tanto odiata dai robber barons quanto dagli odierni gigacapitalisti. «Ma quella di pensare ai dipendenti di Amazon come a un gruppo circoscritto di una fase temporanea – come Lincoln diceva del lavoro in fabbrica, in attesa che ognuno diventasse imprenditore di se stesso – che non ci riguarda è un errore di prospettiva perché il trattamento di quei lavoratori si riverbererà, come sempre è avvenuto, su tutti gli altri» avverte Maggor. Infine c'è l'attitudine dell'opinione pubblica: i gigacapitalisti sembrano più amati che disprezzati. «Anche Richard Hofstadter, uno degli storici più importanti del secolo scorso, sosteneva la stessa cosa dei robber barons» dice Maggor «ma poi storici successivi hanno mostrato gli scioperi, le marce, la violenza: una storia di conflitti. Quando faccio lezione cito l'esempio di George Pullman, il cui nome è diventato sinonimo di bus, che da un giorno all'altro tagliò del 30 per cento i salari dei suoi dipendenti per fronteggiare una crisi economica lasciando intatti quelli dei manager e quando morì dovettero seppellirlo in una speciale cripta di metallo per paura che venisse riesumato per spregio dagli anarchici. Se Hofstadter leggesse oggi Time che celebra Musk come uomo dell'anno, l'ammirazione dei media mainstream nei confronti dei Gates, Jobs e così via, arriverebbe forse alla stessa conclusione. Ma c'è una corrente di odio che non va sottovalutata. La stessa che Trump, fra tutti i politici possibili, è stato così scaltro da cavalcare quando ha puntato il dito contro Big tech in difesa dell'America manifatturiera. Una rabbia montante che, fino al 1930, fu sottovalutata come oggi. Allora c'è voluto un Franklin Delano Roosevelt per incanalarla, ora non so chi sarà, ma so che è un sentimento che esiste e ha ottime ragioni».
...e cosa dovrebbero avere!
La folle corsa dei baroni di rapina quindi non fu senza conseguenze. Il Partito Populista nacque come risposta ai loro eccessi. Iniziò una stagione di scioperi di massa. Vide la luce la prima legislazione anti-monopolio. Vennero varate importanti riforme sociali. Nel 1930 fu la volta del New Deal: lo sforzo pubblico per uscire dalla devastazione della Grande depressione. Dopo tanta sofferenza iniziò un periodo migliore durato fino alla fine degli anni '70. Nel popolarizzare il termine e le pratiche dei robber barons furono decisivi gli articoli di Ida Tarbell, il cui padre era stato rovinato dalla prepotenza dei Rockefeller. Romanzieri come Theodore Dreiser fecero la loro parte con libri come Il titano e Il finanziere. Il presidente Teddy Roosevelt tuonò contro «i ricchi criminali». Il suo successore Woodrow Wilson fustigò l'ingordigia di industriali e imprenditori. Il sedicesimo emendamento alla costituzione introdusse infine una tassa sui redditi. Alcuni economisti dell'epoca erano preoccupati che l'America stesse diventando economicamente disuguale come... l'Europa! Nel 1911, accogliendo l'iniziativa del dipartimento di giustizia, la corte suprema decretò lo smembramento della Standard Oil in trentaquattro distinte società. John D. Rockefeller si ritirò in silenzio da ogni carica. In una recensione sul New Yorker di An Ugly Truth: Inside Facebook's Battle for Domination di Sheera Frenkel e Cecilia Kang Jill Lepore ricorda il ruolo decisivo della Tarbell nell'aver apparecchiato lo spezzatino di un secolo fa. Le assonanze di oggi con ieri sono vistose. Solo la reazione è diversa. Molto più urbana. Anzi questi gigacapitalisti – sarà che trafficano in merci molto meno sporche di petrolio e acciaio – il più delle volte fanno simpatia. Colpa dell'eterno elemento afrodisiaco del potere, di politici spesso non all'altezza della situazione e di tanti giornalisti – o quanti, che si bevono la retorica siliconvallica di «rendere il mondo un posto migliore» o che di ogni nuovo smartphone non trovano di meglio da dire che è «il migliore di sempre» – che preferiscono vestire i panni dei cheerleader che quelli dei guastafeste. Ecco, tra tanti difetti, almeno quest'ultimo ce lo siamo fatti mancare. E in questo libriccino, che vorrebbe essere una specie di keisaku (il bastoncino che il maestro zen usa per ridestare chi, nella meditazione, si assopisce, pur non essendo io né maestro né tantomeno zen), un keisaku editoriale con cui proviamo a dire: fate attenzione. Perché i nostri concittadini hanno dato prova di essere sin troppo zen rispetto alle mostruose disuguaglianze di cui sono vittime o spettatori ma la loro pazienza – immagino, reputo, spero – non è infinita
LA ZARINA DELL’ANTITRUST
Sul Venerdì in edicola c’è invece un altro pezzo di anticipazione. Un ritratto di Lina Khan, la nuova capa dell’antitrust americana nonché uno dei pochi motivi di speranza che nel far west digitale sia finalmente arrivato uno sceriffo.
DA VEDERE: LES OLYMPIADES
Una ragazzina accusata di essere insensibile dalla madre ha una stanza in più nell’appartamento lasciatole dalla nonna che languisce in un ospizio dove lei non la va (quasi) mai a trovare. Cerca una coinquilina, arriva un uomo. Fanno l’amore. Lei si innamora, lui no. Lui incrocia poi un’altra ragazza fuggita dalla provincia a da una storia pesante. prova a rifarsi una vita ma la scambiano per una pornostar a cui in effetti somiglia e il tentativo deraglia. Così decide di conoscerla, questa sua presunta sosia… Les Olympiades di Jacques Audiard, prossimamente al cinema, direi.
Epilogo
È un libro breve ma, spero, denso. Si occupa di una delle declinazioni del problema più urgente (assieme al riscaldamento climatico) dei nostri giorni: l’insostenibile disuguaglianza economica. Se lo leggerete mi farà piacere. E se, qualora vi piacesse, lo consigliaste a qualcun altro vi sarò ancora più grato.