#59 California nightmaring
Homeless e disperati; la mancata invasione degli ultra-miliardari; lotta di classe tra Big tech e residenti; California in bancarotta?; Fog of War
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Prologo
«La poltrona non è mai tanto soffice, lo studio tanto caldo e la prospettiva del pasto serale tanto certa come quando si legge del gulag» scrive Martin Amis in Koba il Terribile, il suo libro su Stalin. Ogni cosa risalta per differenza. La povertà non fa eccezione. Nelle favelas c’è un inscalfibile decoro interno: il fatto che abbiano poco o niente, in quel contesto, fa meno impressione al visitatore. Non così a San Francisco, una delle città più oscenamente ricche al mondo. È per questo che vedere i disperati del Tenderloin sembra una terribile anteprima di una fase terminale del tardocapitalismo, una in cui una nuova schiatta di signori conviverà (sempre meno pacificamente) con orde di servi della gleba.
HOMELESS SULLA BAY AREA
A San Francisco, l’anno scorso, i morti per overdose sono stati più del doppio di quelli per Covid (697 contro 257). A dicembre la sindaca ha dichiarato, non senza polemiche, lo “stato di emergenza” per il Tenderloin, la zona più centrale e più disastrata. Che oggi ospita il Linkage Center, un grande recinto dove i messi peggio ricevono il naloxone, una specie di metadone, in un tentativo disperato di non farli andare all’altro mondo. Il reportage in edicola sul Venerdì. Un estratto:
Qualcosa, ovviamente, è stato fatto. «Il Comune ha affittato alberghi per trasformarli in shelter-in-place» mi spiega nel soggiorno adibito a ufficio Jennifer Friedenbach, direttrice della Coalition on Homelessness, «duemila posti rispetto agli ottomila che avevamo chiesto, pagati grazie a una legge che consente di tassare dello 0,5 per cento addizionale le fortune sopra i 50 milioni (l’ascetico Jack Dorsey di Twitter, con le sue sedute di meditazione, digiuni intermittenti, bagni gelati all’alba e patrimonio di 7 miliardi di dollari ha votato contro). Ma ciò non cancella la tendenza decennale a criminalizzare i senza casa, con 10-20 mila denunce all’anno che ricevono per occupazione di suolo o minzione in pubblico e i sempre più frequenti repulisti con tanto di confisca dei loro averi». Nell’aver intensificato questi sweeps si sarebbe distinta anche London Breed, la sindaca dello stato di emergenza. Eppure, se c’è una con la sensibilità giusta per capire il problema, dovrebbe essere lei. Nera, cresciuta nelle case popolari, con un fratello in carcere per aver ucciso la fidanzata (la spinse fuori dall’auto durante una lite) e una sorella morta di overdose. La ascolto alla Public Library mentre, accanto al carismatico Cornel West, decano dei black studies, ricorda che i neri sono il 5 per cento della popolazione ma il 40 per cento degli homeless. L’incontro finisce con un rinfresco e, nel tempo che impiego a trangugiare il mio panino su un marciapiede assolato, tre persone mi chiedono se e dove distribuiscono quei cestini. Imbarazzato per averne accettato uno, li dirotto all’interno dove entrano con la stessa foga dell’assalto a Capitol Hill. Non è folle, tutto questo?
L’INVASIONE DEGLI ULTRA-MILIARDARI
L’ultima volta a San Francisco, prima della lunga pausa pandemica, ero andato a scrivere dell’imminente invasione di nuovi milionari che un’ondata di quotazioni societarie avrebbe scaraventato sula città. Tra le altre persone avevo sentito gli specialisti che consigliavano ai nuoci Creso come gestire le loro fortune:
Se l’immobiliare è in prima fila a fronteggiare lo tsunami di schei, non sarà l’unico coinvolto. Citrine Capital, pianificazione finanziaria, dovrebbe aiutare i fortunati venti-trentenni a restare in carreggiata e Jayir Kembikian, di natali armeni, è uno dei suoi partner: «È complicato richiamarli alla prudenza. Gente molto giovane, molto ottimista, a cui hanno sempre detto che la loro start up sarebbe diventata la prossima Facebook». E quindi, case a parte, dove potrebbero spendere? «Nell’iscrizione a wine club che ti spediscono bottiglie selezionate da sommeiller a casa (Pour This fa scatole da tre bottiglie per 98 dollari) o dove puoi invitare i tuoi amici per una degustazione. Oppure un programma della Porsche che ti consente di cambiare modello ogni mese». D’altronde, già nel 1899 in Teoria della classe agiata il sociologo Thorstein Veblen spiegava come «il consumo vistoso di beni ricercati è un mezzo di rispettabilità per il gentiluomo agiato» ma per mettere in mostra l’opulenza questi ricorra «all’aiuto di amici e competitori con l’espediente di offrire regali di valore, feste e trattenimenti dispendiosi». Infatti i budget per i party in onore delle start up, spiega il New York Times, superano già agilmente i 10 milioni di dollari magari per reclutare vecchie glorie tipo The Bangles o i Tears for Fears. E c’è chi, come la Chisel.it, ha una squadra di quindici persone specializzata in sculture in ghiaccio per celebrare il giorno della quotazione. Per non dire di New Wheel, boutique di bici elettriche, che in vista del post-Ipo ha triplicato gli ordinativi dei modelli da 9.500 dollari della Riese&Muller. Chiosa Kembikian: «Parliamo di ragazzi spesso senza figli che spendono, solo per mangiare fuori, da tre a cinquemila dollari a settimana. Gente che, dall’università, ha conservato l’abitudine di non toccare una pentola». L’unico consiglio che si sente di dispensare gratuitamente dai begli uffici dentro il coworking WeWork è: «Non comprate uno yacht! Mettete da parte almeno il 20 per cento della liquidità e altrettanto di azioni, ricordandovi che comunque verranno tassate quasi al cinquanta per cento quando andrete a realizzare».
ARRIVA BIG TECH, SFRATTANO I COMUNI MORTALI
Qualche anno prima ero andato per raccontare l’inizio dell’impatto dei nuovi ricchi della Silicon Valley sul fragile equilibrio urbanistico della città. L’incipit:
SAN FRANCISCO. Salvate il maestro Benito Santiago. Questo sessantatreenne filippino, con un tamburo tra le gambe, una giacca di pelle scamosciata e un fedora nero di paglia, è diventato uno dei tanti placidi soldati di una guerra culturale che si combatte da mesi nelle strade di San Francisco. Dopo trentasette anni che vive ad affitto calmierato (570 dollari) in un bilocale nella Mission, quartiere prevalentemente latino, lo vogliono sfrattare. Una legge lungamente ignorata, l’Ellis Act, lo consente anche se sei in regola coi pagamenti. E negli ultimi tre anni i proprietari immobiliari che volevano vendere ai nuovi milionari dell’industria tecnologica l’hanno usata come una clava.
Hell no, we won’t go, «non ce ne andremo, neanche per idea», scandisce un elfo di nome Erin McElroy, ideatrice dell’Anti-Eviction Mapping Project che mappa l’escalation di sfratti cittadini. Una ventina di persone ha occupato gli uffici di Vanguard Properties, l’importante agenzia immobiliare che ha la pistola puntata sull’affitto di Santiago. Campanacci, cartelli, megafoni per spiegare il perché della protesta. Alcuni dipendenti cercano di impedire le riprese. Momenti di scenografica tensione. La polizia arriva dopo cinque minuti e Erin grida champagne, l’incongrua parola d’ordine per la ritirata. «L’avvocato di Benito ci ha scongiurati che non deve in alcun modo risultare minaccioso» aveva avvisato. E così è stato. Una manifestante sul marciapiedi racconta emozionata di come ci si sente a essere buttati fuori di casa. Un agente che sembra la controfigura del leggendario Frank Poncharello di Chips, il telefilm anni 80, annuisce con la testa. Hanno vinto? Al più questa battaglia dilatoria. All’inizio, per convincere Santiago gli avevano offerto una buonuscita di ventimila dollari. «Ma per una casa simile, nello stesso quartiere, oggi dovrei pagarne 4000. Al mese» scuote la testa lui, che già oggi fatica con i suoi magri proventi da insegnante di musica. Viene facile solidarizzare. Ma poi, a mente fredda, non ti sembra neanche giusto che i proprietari siano incatenati in eterno a praticare le stesse tariffe (due terzi degli affitti sono calmierati) dei tempi in cui Poncharello andava in onda. O che gli informatici della Silicon Valley debbano essere condannati a vivere nella noia assassina di Mountain View o Palo Alto. La gentrificazione, il processo di imborghesimento di quartieri marginali delle città, non l’hanno inventata loro. Come globalizzazione o immigrazione, sono dinamiche sociali che si deve provare a governare ma che è illusorio pensare di arrestare. Per gli attivisti è incomprensibile. Così come a Google sembrano non afferrare che non basta avere «Non fare il male» come motto per continuare a essere simpatici. Per tutti questi motivi la risposta alla domanda chi ha ragione? risulta più che mai elusiva.
L’OTTAVA ECONOMIA SULL’ORLO DELLA BANCAROTTA?
D’altronde, ancora nel 2010, si ragionava tranquillamente di rischio bancarotta per tutto lo Stato, che se fosse stata una nazione a sé sarebbe stata l’ottava economia del mondo. Anche questo aveva a che fare con livelli di disuguaglianza senza precedenti e con un sistema di tasse largamente inefficiente. Un estratto:
VALLEJO (CALIFORNIA). Il paradiso ha le casse vuote. E i suoi creditori non possono attendere. Così le municipalità, le contee, lo stato hanno cominciato col tagliare il grasso, i servizi non indispensabili. Adesso la lama è arrivata all'osso. E non accenna a fermarsi. Vallejo, 120 mila anime abbrustolite dal sole a un'ora di traghetto da San Francisco, ha dichiarato bancarotta l'estate scorsa. Non ce la faceva più a pagare gli stipendi di insegnanti, pompieri, poliziotti. È la prima ad essere andata sotto, non sarà l'ultima. «Anche Oakland e Orange County sono messe male. La stessa capitale Sacramento, con il suo deficit statale di 42 miliardi di dollari, il più pesante di tutti i tempi, cammina su una corda tesa» ci dice Tony Quinn, veterano della politica e autore del California Target Book che da una quindicina d'anni monitora le condizioni di salute di quella che resta l'ottava economia del mondo. Se però spendi più di quanto incassi e la maggioranza, solo a sentir parlare di nuove tasse, mette mano alla pistola, non rimangono tante alternative al portare i libri in tribunale. Eppure dovesse il cielo diventare grigio anche sulla California che salvezza ci rimarrebbe, chi potremmo più sognare?
A colpo d'occhio è difficile, andando per vetrine intorno alla Union Square di San Francisco, passeggiando nel campus di Berkeley o guidando in quella specie di metropoli diffusa che è la Silicon Valley che da sola attrae il 39 per cento del venture capital statunitense, accettare di trovarsi sull'orlo di un baratro. Il clima, la baia, tutto induce all'ottimismo. A Palo Alto, oltre al quartier generale di Facebook, ci sono i sicomori in fiore. Idem a Mountain View, sede di Google. Scene di placida felicità suburbana. Eppure nessuno si è stupito quando sulla Interstate 215 si è aperta una voragine da 8 metri, per parlare di infrastrutture decadenti. O quando è stata annunciata l'aspettativa forzata per 200 mila dipendenti pubblici, a proposito di disoccupazione. Neanche il rilascio di 10 mila carcerati per sovraffollamento ha mandato la gente in piazza. Com'è che il Golden State sembra diventato un vecchio ottone che nessuno si cura più di lucidare? La crisi globale spiega solo in parte. La metà del bilancio dello stato viene dalle tasse sui redditi. E queste sono pagate per il 48 per cento dall'1 per cento più ricco della popolazione. I tanti miliardari qui sono però paperoni in azioni. Un anno valgono 10, quello dopo 1. I loro contributi fiscali seguono le stesse montagne russe. L'altra principale gamba del bilancio sono le tasse su vendite e proprietà, ma con la crisi dei subprime e le case svendute all'asta, anch'essa è stata azzoppata. Se di pari passo con questi crolli le spese fossero state ridotte di conseguenza, non saremmo al punto attuale. «E invece siamo come una famiglia» ha riassunto all'Economist il capogruppo repubblicano al Senato Dave Codgill «che adotta i figli nei giorni belli e nei giorni brutti non sa più come sfamarli».
ANCHE BERNIE È INVECCHIATO
Nel 2019 avevo assistito a un grosso comizio elettorale di Bernie Sanders nel parco di Fort Mason. Un estratto:
Sanders aveva un grosso cerotto sulla fronte frutto di un banale incidente nella doccia. È una stupidaggine ma l’immagine mi si è appiccicata addosso e, per me che l’ho seguito per tre giorni tre anni fa durante le gagliardissime primarie in Iowa (perse per mezzo soffio), è come se il cerotto color carne fosse invece fosforescente. Da 74 a 77 anni quei peculiari oggetti che sono gli esseri umani possono conoscere accelerazioni verso il basso che se ne fregano dell’ordinaria gravità galileiana. E, nel ricordo, non ritrovo oggi niente che raggiunga il climax di quando, sbattendo il pugno sul tavolo dopo una lunga requisitoria sull’insostenibile rapacità del tardo capitalismo, scandiva le parole «Enough is enough!», è il momento di dire basta! Allora il punto esclamativo lo sentivi in Dolby Surround. Oggi, e siamo alle primissime tappe della corsa, mi sembra già tutto terribilmente attutito, il contrario di squillante. Come ieri restano dalla sua i sondaggi. Per quel che valgono, essendo ancora molto presto, alla fine di aprile la media dei rilevamenti di RealClearPolitics lo dà al 21 per cento del gradimento tra le intenzioni di voto dei democratici, secondo solo al 32,4 dell’ex vicepresidente Biden (un distacco passato da 7 a 11 punti all’indomani della sua dichiarazione di correre), e circa tre volte quelle a favore di Kamala Harris (7,4), Elizabeth Warren (7,2) e Pete Buttigieg (7,2), il volto nuovo più vezzeggiato dalla stampa.
DA VEDERE: FOG OF WAR
Se non l’avete visto guardatelo subito. Se l’avete già visto, come me, riguardatelo. Fenomenale conversazione di quel genio di Errol Morris con l’ex segretario alla difesa Robert McNamara. A un certo punto ricorda di quando hanno fatto fuori 100 mila giapponesi in una notte. E si sono riproposti di non fare mai lo stesso errore una seconda volta. Ma non aveva alcuna fiducia che l’umanità avesse appreso la lezione atomica.
Epilogo
Speriamo vivamente che si sbagli. Non si tratta di pacifismo, ma di comportarsi da adulti. Si tratta di sopravvivenza.