#58 Chiedo scusa se parlo di Alina
A proposito di espansione Nato; Licorice Pizza; Chiedo scusa se parlo di Maria
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Prologo
Dai tempi della mia prima assunzione, un secolo fa (era il 1999, al Corriere), l’unica cosa che mi porto dietro nei vari uffici è l’immagine qui sopra dentro a un’austera cornice nera. È la riproduzione di un vecchio manifesto sovietico che dice: l’uomo ignorante è come un cieco. Mi sono sempre illuso che questo monito severo mi mettesse al riparo da derive troppo gravi dettate dal fatto che, con gli anni, pensi di aver capito un paio di cose e metti il pilota automatico. Come hanno imparato a loro spese i piloti etiopi del Boeing 737 Max nel 2019, può essere un errore esiziale. Non ne sai mai abbastanza. Non si studia mai abbastanza. Anche avendo studiato molto si continua a sbagliare. A sbagliare ancora. Nel migliore dei casi a sbagliare meglio, come insegna il poeta. Ma non è detto. Per tutti questi motivi, di fronte all’immane tragedia cui assistiamo atterriti da tre settimane, guardo con invidia mista a stupore ai tanti, a quanto pare la stragrande maggioranza, che non sembrano sfiorati dai dubbi e che hanno chiarissimo tutto, dall’anamnesi alla terapia. Io solo una cosa so: che Putin ha ingaggiato un’invasione ingiustificabile e tremenda, che sta facendo stragi di vittime innocenti, persone come voi e come me. Questo per quanto riguarda il presente, il tempo che conta di più perché è quello che decide della vita o della morte degli esseri umani. Quanto al passato ho molti più dubbi (ne darò brevemente conto, anche se è un dibattito che ogni giorno che passa perde di mordente di fronte alle bombe che dilaniano bambini) e quanto al futuro non so, a differenza di tanti strateghi da scrivania, quale sia la migliore via d’uscita anche se credo che passi da un negoziato in cui entrambi le parti, per definizione, siano disposte a perdere qualcosa.
ALINA TORNA PRESTO!
Alina è la signora delle pulizie che viene a dare una mano a casa mia. Ne avevo già scritto in passato ma sull’ultimo Venerdì ne racconto più diffusamente perché dice molto, credo, del nostro rapporto con gli ucraini. Perché ci importa molto più di loro di qualsiasi altra vittima recente? Non è misterioso:
Un pezzo della risposta la trovo sul frigorifero di casa mia. Ci sono due magneti, uno in bassorilievo con la scritta Ternopil in caratteri cirillici, con vista panoramica dell’antica capitale dell’Ucraina Occidentale e l’altro che dice “Non di solo pane”, sotto alla mano benedicente di papa Francesco. Ora, io sono ateo e non appartengo neppure alla religione dei magneti da frigo, ma non me la sono mai sentita di toglierli per non dare un dispiacere ad Alina, che me li ha regalati. Con questa signora, che impedisce alla mia casa – e quindi alla mia vita – di raggiungere un livello insostenibile di entropia, mantengo una conversazione smozzicata ma ininterrotta da quando i suoi figli erano ragazzi a oggi che sono diventati genitori. Ed è la stessa persona che, in una spassosa mimesi di romanesco («come sei caruccia, caruccetta!»), fa le feste a una bambina di due anni e mezzo che frequento felicemente da due anni e mezzo e le ha anche comprato quei biscotti a forma di animaletti di cui suo nipote va ghiotto. Il fatto che siano bianchi, gli ucraini, non guasta. Sono gli unici migranti che piacciono anche a Salvini. E non osta che certi amici di Alina, quando sul Venerdì ce ne occupammo otto anni fa ai tempi della prima invasione (e dell’agnizione, subito archiviata, che esistessero posti come il Donbass), si dichiarassero tranquillamente banderivzi, ovvero seguaci di un collaborazionista nazista cui il parlamento ucraino nel 2018 voleva intitolare un giorno di festa nazionale (superato in zelo revisionista solo dalla regione di Lviv, dove nacque, non lontano da dove è nata Alina, che ha dedicato tutto il 2019 a Stepan Bandera che, l’anno scorso, col placet del ministro della cultura, è stato inserito in un memoriale virtuale di ucraini illustri). D’altronde anche mia madre, che non sta a sottilizzare di geopolitica, ha visto in tv le immagini strazianti di gente in fuga dai bombardamenti e mi ha dato mandato urgente di fare una donazione a nome suo. Lo farò anch’io ma constato, semplicemente, che non ci era venuto in mente ai tempi del drammatico fuggi fuggi da Kabul.
A PROPOSITO DI NATO
Sin dall’inizio si è detto che la possibile radice dell’invasione di Putin fosse il senso di accerchiamento derivato dall’espansione della Nato. La Russia sostiene che promesse in tal senso sono state tradite. Chi è convinto che ogni cosa che esce da una bocca russa sia una bugia lo nega. A questo proposito è decisiva la consultazione di una sezione del sito della George Washington University, non una centrale di propaganda bolscevica ma l’università da dove sono usciti, tra gli altri, Colin Powell e Edgar J. Hoover, il capo della Cia ai tempi del maccartismo.
Il riassunto è il seguente. Nel 1990. alla vigilia della riunificazione della Germania, si pose il problema che inglobando la Ddr di fatto il confine della Nato si sarebbe spostato decisamente a est. Kohl aveva quindi bisogno del placet di Gorbaciov (si ipotizzò anche che la Germania potesse riunificarsi senza però far entrare nella Nato la parte est). Gli americani, nella persona del segretario di stato James Baker, rassicurarono Gorbaciov: se dici sì “la Nato non si espanderà di un pollice a est” (ci sono le trascrizioni dell’incontro).
Dopo di lui analoghe assicurazioni sono state date da Bush, Genscher, Kohl, Mitterrand, Thatcher, Hurd, Major e Woerner, l’allora segretario generale della Nato, nonché da Robert Gates, allora specialista di cose sovietiche per la Cia e poi direttore dell’Agenzia. Sulla base di questa rassicurazioni Gorbaciov convinse la parte più riluttante del politburo che la riunificazione della Germania si poteva fare. Da allora la Nato si è allargata da 17 membri a 30. Non un pollice (2,5 cm) a est ma circa 500 km, fino ai confini della Russia. Ora, questo è un fatto. Che non giustificherebbe neanche un morto, figurarsi un'invasione che ne sta provocando a migliaia. Ma resta un fatto. Basta guardare la cartina di Limes qui sotto o ascoltare i limpidi ragionamenti del suo direttore Lucio Caracciolo.
Per averlo fatto notare persone competenti e per bene come l’ex ambasciatore Sergio Romano o l’ex generale Fabio Mini sono stati arruolati, come chiunque si limiti a fare precisazioni, come filo-putiniani. È un’assurdità. Com’è assurdo che un importante critico televisivo si scagli contro Crozza reo di aver fatto vedere la cartina in cui mostrava il medesimo allargamento. La letteratura su questo punto – l’impossibilità, salvo stigmatizzazione, di fare dei distinguo – sarebbe sterminata. Nei giorni scorsi, per dire, il New Yorker ha intervistato il politologo John Mearsheimer dell’università di Chicago che da anni mette in guardia dalla sottovalutazione americana delle ossessioni di accerchiamento russe. Lo dice in America. Al New Yorker. E nessuno gli impone, com’è successo da noi, di anteporre al suo ragionamento la clausola “parlo a titolo personale”. Quel che voglio dire, in un discorso che sarebbe molto più ampio, è che la differenza principale tra noi e la Russia di Putin è che qui ognuno ha diritto alla sua opinione e dovrebbe continuare a poterla pronunciare in pubblico senza timore di fare 15 anni di galera. E neppure – auspico – 15 minuti di gogna pubblica. Altrimenti c’è da cominciare a preoccuparsi.
DA VEDERE: LICORICE PIZZA
L’altra sera ho avuto uno scambio concitato con un mio amico intelligentissimo riguardo un’affermazione di Caracciolo dalla Gruber. Io credevo, ascoltavo dalla cucina, che avesse detto che, rispetto ai russi, “la guerra della disinformazione gli ucraini la stanno vincendo 10 a 0” mentre in realtà aveva detto “la guerra della propaganda gli ucraini la stanno vincendo 10 a 0”. Aveva dunque ragione il mio amico. Al che ho ribattuto che comunque “non cambiava così tanto” e lui mi ha detto che “la differenza è enorme” (avrei poi voluto portare argomenti sul fatto che la propaganda è l’insieme di cui la disinformazione è sottoinsieme e non di rado i termini vengono usati come sinonimi, “frequently overlaps” dice il Consiglio d’Europa, ma a quel punto mi aveva già detto che mi stavo ingarellando troppo e non volevo confermare che mi stavo davvero ingarellando). Insomma, al termine di quello scambio via Whatsapp ho capito che d’ora in poi mi morderò di più la lingua. E finalmente ho cambiato canale dall’Ucraina e mi sono buttato su Licorice Pizza, un film molto, molto bellino. Con due che si conoscono e lui annuncia al fratellino che un giorno sposerà quella ragazza. E poi si inseguono, si scazzano, si rappacificano…
DA SENTIRE: CHIEDO SCUSA SE PARLO DI MARIA
Chissà che direbbe Gaber di tutto quello che sta succedendo.
Epilogo
Nell’attesa che Alina ritorni (nel frattempo suo padre novantaduenne, il motivo per cui era torna in Ucraina, è morto) da me è venuta Luda, la sua vice. Le ho chiesto come stanno i suoi genitori a Ternopil e perché non vengono qui che ancora si possono muovere: “Hanno paura che qualcuno gli saccheggerebbe la casa e non si muovono”. Le ho domandato quindi se potevo, in pratica, aiutarla in qualche modo: “Puoi ucciderlo? Chi lo uccide, per me, è un santo”. Parlava di Putin ovviamente. C’è da fare un tifo sfegatato per i negoziati perché, nel frattempo, di fronte all’orrore anche le persone più miti perdono il controllo.
Chiudo citando dal magnifico editoriale del solito Caracciolo nel numero di Limes arrivato alla quarta ristampa (abbonatevi!):
Dal 24 febbraio il mondo ha preso a correre a velocità folle. Verso dove non si sa o si preferisce non sapere. Cartografare questa corsa su scala planetaria per offrire una visione d'insieme è temerario. Viviamo in una guerra a più dimensioni di cui è impossibile determinare gli esiti, salvo che muteranno i paradigmi fondamentali del potere. Illusorio pretendere di rifissarli ora. Quando cade il tabù atomico la mente si chiude. Il solo discettare di bombardamenti nucleari quasi fossero chiacchiere da bar è danno irreparabile. Banalizzare l'impensabile, volgere in convenzionale l'arma definitiva esclude il ragionamento. Abbrutimento collettivo che pagheremo comunque finisca il confitto in Ucraina.