#57 Guerra, questa sconosciuta
Tranne due settimane in Iraq non ho mai coperto un conflitto in corso; la rivolta di Tahrir: le croniste di Ciudad Juarez; l'involuzione della Polonia; le madri surrogate di Kiev
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Prologo
Tranne due noiosissime settimane a Nassirya, in Iraq, di guerre in corso non mi sono mai occupato. L’unica volta che le ho sfiorate era l’inizio di una guerra di liberazione, quella degli egiziani nei confronti di Mubarak. Solo lì, per pochi giorni, avevo avuto l’impressione di non essere tanto al sicuro. Poi sono arrivato in Libano per contare le macerie dell’avanzata israeliana (il pezzo, incredibilmente, non lo trovo più). Ma più paura di sempre, su un servizio, l’ho avuta a Ciudad Juarez, in Messico, quando la città aveva il primato mondiale di morti ammazzati. Questo per dire che ho il massimo rispetto per i colleghi che nelle guerre guerreggiate ci vanno dentro. Non è sempre il miglior punto di osservazione per capire quel che succede, ma senz’altro il più coraggioso.
VERSO NASSIRYA
Era il 2003. L’unica parte che ricordo bene è l’entusiasmo incontenibile del ralliere, il ragazzino che stava alla mitragliatrice, quando finalmente arrivammo nella bolla di sicurezza della base italiana. Tirò per aria l’elmetto, per avercela fatta per l’ennesima volta. Vivo! Viva. Il riassunto l’ho già fatto qui.
TAHRIR, IL GIORNO DELLA COLLERA
Il 25 gennaio 2011 ero al Cairo. E successero un po’ di cose, malamente assemblate in questo video girato e montato al volo con l’iphone qui sopra. Ne scrissi anche un pezzo (qui) da cui si capiva, se non altro, la perenne scarsa capacità di previsione sulle cose di guerra.
È l'argomento che ritorna più spesso nei discorsi di politici, analisti, commentatori. Troppo ignoranti per fare una rivoluzione. Con un'alfabetizzazione del 66,4 per cento contro il 77,7 della Tunisia, stando allo Human Development Index dell'Onu, non sarebbero in grado di elaborare una ribellione. Il fatto che, nella lista, segua una sfilza di Paesi che hanno fatto valere le loro ragioni col sangue non basta. In piazza Tahrir, ovvero "della liberazione", a sfidare i lacrimogeni, le manganellate e gli idranti c'era un popolo composito. Giovani, soprattutto, ma anche ragazze e madri con la Louis Vuitton contraffatta, manovali, professionisti. Tutti accomunati da un'ambizione semplice, che anche chi ha fatto le elementari riesce a esprimere: "Basta con Hosni Mubarak".
CIUDAD JUAREZ, MURDER CITY
Nel dicembre 2010 avevamo fatto un numero speciale sul giornalismo. E Attilio Giordano mi aveva mandato a ciudad Juarez perché era un posto dove i giornalisti li ammazavano come mosche. Avevo trascorso qualche giorno con un paio di croniste locali, per vedere che effetto faceva la vita nel mirino.
CIUDAD JUAREZ. «Qué pasó, compañero?». Sandra Rodriguez risponde quasi con un sorriso, come se potesse trattarsi d'altro, ma le telefonate che arrivano da certi numeri significano sempre la stessa cosa. Una chiamata, un morto. Quando non di più. Il totale di oggi è 10, ieri 14, domani chissà. I suoi informatori più solerti sono quelli delle pompe funebri. Qualche poliziotto amico. O cittadini che non si arrendono all'inevitabilità di vivere in un mattatoio. Il capocronista al Diario de Juarez annota le vittime su una lavagna bianca dove campeggia un «non cancellare» maiuscolo e alla fine del mese tira le somme. Sin qui il più crudele è stato ottobre, con 359 assassinii. Ma sono record che sopravvivono quanto uno beccato a fare il doppio gioco per i federales. Charles Bowden confessa di aver cominciato a lavorare a Murder City, uno straordinario libro-inchiesta sull'impazzimento della città, perché «sconcertato dai 48 morti del gennaio 2008». Tanti rispetto ai 316 dell'anno prima, niente in confronto a quelli quasi decuplicati di questi ultimi tre anni. Ovvero da quando il presidente Felipe Calderon ha dichiarato «guerra alla droga», spedendo qui 10 mila soldati nell'illusione di poter chiudere militarmente la principale porta d'ingresso di stupefacenti verso gli Stati Uniti. E ottenendo invece di imprimere a fuoco su questo posto prima noto soprattutto per le sue maquilas, fabbriche in conto terzi figlie degeneri della globalizzazione, il marchio di «città più mortale al mondo». È un primato che si calcola sul numero di ammazzati ogni 100 mila abitanti. A Baghdad nel 2004, il periodo peggiore per intenderci, erano 75. A New York (Bronx e Harlem compresi) 7. Qui 191. Tra i bersagli principali - oltre alle oltre 400 donne di cui si è molto parlato ma che, tragicamente, sono una percentuale minima del totale - figurano i membri dei cartelli, la polizia e, appunto, i giornalisti.
IL SALTO CARPIATO ALL’INDIETRO DELLA POLONIA DEI KACZYNSKI
Nel marzo 2016 ero stato in Polonia per raccontare la preoccupante involuzione illiberale del paese.
Varsavia. Una folla silenziosa e commossa resiste a una temperatura di zero gradi esasperata da una pioggia sottile. Aspettano il presidente Andrzej Duda che parlerà davanti a un picchetto d’onore non prima della figlia di un «soldato maledetto» e il presidente dell’associazione che tenacemente coltiva il ricordo di quei partigiani polacchi che a guerra finita continuarono a combattere i russi, nel frattempo sterminando un certo numero di ebrei, ucraini e bielorussi. Se qualcuno avesse disegnato una word cloud delle parole più usate, «sangue», «onore», «patrioti» avrebbero giganteggiato. La spettrale commemorazione si svolge davanti a un carcere, ma i veri prigionieri di un passato che non passa sembrano quelli in strada, sotto al cielo plumbeo di Varsavia. La memoria può essere una cima di salvataggio o un cappio. Sorprendentemente i polacchi, indiscussi campioni del miracolo economico europeo, hanno deciso di stringersela al collo. Sobillati da un demagogo sapiente che, senza essere né presidente della repubblica né primo ministro, è il burattinaio indiscusso dell’uno e dell’altra. Nonché l’autore di un’inquietante inversione a U sull’autostrada del progresso che sta mettendo in rotta di collisione, dando prova di impavido masochismo, la giovane democrazia con Bruxelles e il resto del mondo.
Per capire l’entità dell’azzardo di Jarosław Kaczyński, fondatore e segretario del partito Legge e giustizia (PiS) che a ottobre scorso ha vinto le elezioni (38% più super-premio di maggioranza), bisogna mettere in fila alcuni numeri. I 72 miliardi di euro in fondi di sviluppo europei ricevuti dal 2007 al 2013, da aggiungere ai 77 miliardi stanziati per il 2014-2020 che, insieme, fanno circa il doppio del Piano Marshall. Poi un pil pro capite passato dal 44 per cento della media europea al momento dell’integrazione (2004) per arrivare al 67 attuale. Quindi un’economia cresciuta al galoppo nell’ultimo decennio, unica positiva anche durante la crisi, e un più 3,3 per cento nel 2014. Insomma, tutti indicatori che ancora l’anno scorso facevano titolare un rapporto della Banca mondiale «La nuova epoca d’oro della Polonia». E allora, esattamente, per cosa sono arrabbiati i polacchi? E perché, proprio sul più bello, hanno deciso di puntare su un signore convinto che la Merkel sia stata messa al potere dalla Stasi e che gli investimenti tedeschi nel suo Paese siano solo la copertura di un’Anschluss economica («Un giorno potremmo svegliarci in una Polonia più piccola»)? Mistero.
LE MADRI SURROGATE DI KIEV
Nel 2016 ero andato a Kiev per una storia di madri surrogate.
KIEV. Sembra una ragazzina. Capelli neri lisci, sciarpa viola, una maglina rosa di lana aderente, pancia piattissima. «L'ultimo film che ho visto? Madagascar II: bellissimo» si illumina. Ma non va spesso, questa venticinquenne che chiameremo Mascia, perché nella cittadina della Crimea dove vive ci sono pochissime sale e ancor meno occasioni. Ha un figlio suo di due anni. E un altro, che porterà in grembo per conto di una coppia italiana, nascerà tra un anno, se tutto va bene. È una delle madri surrogate che l'Ucraina offre. Un genere di export locale in crescita. Perché le donne occidentali, quando il loro ventre non è accogliente e non riesce a portare avanti la gravidanza, esauriti tutti gli altri tentativi cercano un «utero in affitto». Da noi non si può: si rischia la galera. In Ucraina è lecito e con 10 mila euro magari ti cambia la vita perché, in campagna, ti ci compri una casetta. «I soldi? Non ho ancora pensato a come spenderli» giura la nostra futura mamma per procura. E per spiegare la sua decisione questa neo-laureata in filosofia va indietro di oltre duemila anni: «Nell'antico Egitto prima di morire gli dei valutavano la tua vita in base a due domande. Sei stato felice? Hai aiutato qualcuno ad esserlo? Ecco, io volevo sentirmi a posto su entrambi i fronti. E ho deciso di fare questa cosa». «Questa cosa» è accettare che un ovulo di una donna italiana fecondato dal seme del marito cresca dentro di lei, diventi un bambino che infine darà alla luce per consegnarlo subito ai genitori genetici. Senza niente pretendere, se non quel compenso che il contratto prevede.
LA GUERRA PARALLELA DEGLI HACKER
Nell’ultima Galapagos mi occupo della guerra parallela che sta andando in scena su internet: quella degli hacker pro e contro Putin.
Mentre Kiev viene assediata e Odessa si prepara a resistere, una guerra parallela si svolge online. Semplificando con l'accetta, Anonymous si è schierata con l'Ucraina mentre Conti, una delle principali organizzazioni hacker russe, ha ribadito la sua totale fedeltà a Mosca. Ma con i morti per strada, che senso ha occuparsi di questa propaggine cibernetica? Beh, intanto perché la Russia la sta prendendo piuttosto sul serio, al punto che gira voce che vorrebbe staccarsi da internet, non tanto per spiare i propri cittadini (per quello bastano e avanzano i filtri che impiega anche la Cina) quanto per creare una propria rete, RuNet, su cui far girare i servizi essenziali al riparo dagli attacchi esterni, appunto. Attacchi che, sin qui, avrebbero già spento una centrale elettrica, trasmesso filmati sulla guerra sulla tv russa che li censura e compiuto altre attività di disturbo, seccanti per la volontà di potenza di Putin.
DA VEDERE: QUANDO BIDEN AVVERTIVA…
Se c’era un modo per provocare una reazione ostile della Russia, avvertiva il senatore Biden, quella sarebbe stata consentire un’espansione a est della Nato. Era il 1997.
Epilogo
“In guerra la verità è la prima vittima” è una frase attribuita a Eschilo. Una saggezza piuttosto consolidata, quindi. Lo dico come caveat nei confronti di questo abominevole conflitto. La cosa certa è che migliaia di innocenti stanno morendo senza motivo. Ucraini, la stragrande maggioranza, ma anche giovani russi che credevano di andare a fare un’esercitazione e sono stati mandati al macello. È uno spettacolo atroce, ammutolente.