#56 Tragedia ucraina
Condannare l'orrore dell'aggressione russa e far notare che errori di valutazione sono stati commessi sono due affermazioni che, in una democrazia matura, devono poter convivere pacificamente
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![A resident in front of a destroyed building in Kyiv on February 25, 2022. (© picture alliance / ASSOCIATED PRESS / Emilio Morenatti) A resident in front of a destroyed building in Kyiv on February 25, 2022. (© picture alliance / ASSOCIATED PRESS / Emilio Morenatti)](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep/https%3A%2F%2Fbucketeer-e05bbc84-baa3-437e-9518-adb32be77984.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2Ff2359170-fd1b-4574-92d7-cc30770d612b_1260x756.jpeg)
Prologo
Chi l’avrebbe potuto prevedere? Duemila civili ucraini morti (e non dimentichiamoci le 13 mila vittime del primo tempo, nel 2014). E Macron, che ha riparlato con Putin, dice che “il peggio deve arrivare”. È disperante lo spettacolo di famiglie che fuggono in autostrada scrivendo “bambini” sui vetri delle auto, confidando che questo le salvi dai razzi russi. Alina, la signora che una volta alla settimana fa le pulizie da me e che conosco da una ventina d’anni, era partita per Ternopili perché suo padre stava male ed è bloccata lì. Le ho chiesto se aveva bisogno di qualcosa e mi ha domandato se conoscessi un’azienda italiana che potesse comprare armi per loro. Non ho neanche capito esattamente cosa volesse dire, se non che la richiesta testimoniava la follia del momento. Spero che Putin finisca in Siberia. O in altro carcere a scelta della corte dell’Aja, per crimini contro l’umanità. Detto questo, però, trovo anche che il clima da noi si sta facendo velocemente irrespirabile. Con un veterano dei corrispondenti Rai che subisce un attacco senza precedenti – con il Pd in testa – per aver constatato in diretta che, in questi ultimi anni, la Nato si è espansa molto a est. Dove editorialisti che probabilmente han fatto il servizio civile (come me) rimpiangono i bei tempi in cui nelle famiglie si celebrava il morto in battaglia (gli dedico il consiglio di ascolto, più sotto). Dove altri corrispondenti ammoniscono perentori che “in guerra non ci sono pacifisti. Ci sono solo fiancheggiatori dell’aggressore” (e il Papa, per dire?). Togliersi l’elmetto consentirebbe di vedere meglio quel che ci sta davanti agli occhi. Ovvero che errori sono stati commessi, sottovalutando gli allarmi che l’allargamento dell’Alleanza atlantica stava provocando in una Russia sempre più revanscista e paranoica. Non lo dico io: l’ha detto tra gli altri Lucio Caracciolo, uno che se ne intende; Sergio Romano, che a Mosca è stato ambasciatore piuttosto apprezzato; Henry Kissinger su cui tutto si può dire tranne che sospettarlo di intelligenza col nemico. Riconoscere l’errore non significa, ma è quasi imbarazzante doverlo spiegare, ridurre la sproporzione dell’invasione militare e l’atrocità che sta provocando. Però, proprio perché fortunatamente non siamo in Russia, si deve poterlo dire senza che nessuno provi a mettere chi si limita a farlo notare nello stesso calderone dei putiniani d’Italia, che esistono ma sono tutt’altra cosa.
2014, IL PRIMO ATTO
Anche a proposito della strumentale giustificazione di voler “denazificare” l’Ucraina, ovviamente un pretesto per regolare i conti, invece di dire solo che era una cosa che non stava né in cielo né in terra sarebbe stato più utile provare a spiegare da dove veniva fuori l’accusa. Perché, quando ne scrissi sul Venerdì otto anni fa, al tempo della prima aggressione russa, tanti ucraini di Roma, alcuni dei quali conoscenti della solita, magnifica Alina, non avevano alcun problema a dichiararsi banderisti, da quel Stepan Bandera che dei nazisti era stato volenteroso carnefice. Anche noi abbiamo i nostri bei fascisti, e solo un matto potrebbe usarlo a pretesto per tentare l’Anschluss: basta non dire che non esistono. Qui sotto il pezzo:
Ferrara. Quando i colpi di mortaio hanno cominciato a fioccare su Donetsk l’associazione badanti Nadiya ha introdotto una nuova regola: non si parla di politica. Una specie di coprifuoco ideologico per evitare escalation verbali, in vigore sempre, tranne oggi. Nina, sessantenne della Crimea, non aspettava altro: «Putin, nonostante quel che dice la tv, è una bella persona! Da noi ha aperto 15 nuove fabbriche, la gente ha lavoro e la vita costa tre volte meno che in Ucraina». A mezzogiorno nella sala principale, tappezzata di foto di viaggi in patria o di figlie e nipoti in costume tradizionale, ci sono solo tre persone. Qui la situazione comincia ad animarsi verso le due, quando la maggior parte delle colf fa la pausa pranzo. Nina si lascia andare perché anche le sue due connazionali la pensano come lei e all’opposto della stragrande maggioranza delle altre ucraine che incontrerò. Dora, sessant’anni color platino da Odessa, fa risalire il peccato originale a Gorbaciov: «Certo, con lui è iniziata la disintegrazione. L’Italia è diventata grande con l’unità: la divisione è sempre un indebolimento». Ma separarsi non è proprio ciò che chiedono i filorussi per cui lei parteggia? Interviene Lylia, coetanea di Donetsk, l’epicentro degli scontri: «Ma non vogliono staccarsi, vogliono solo più indipendenza. Soprattutto che un po’ della ricchezza delle miniere resti da loro e non vada a finire tutta nelle tasche degli oligarchi corrotti di Kiev». Il federalismo fiscale genera mostri. Minoranza assoluta tra i 268 mila ucraini d’Italia (per l’80 femmine), prevalentemente dell’ovest, loro evitano l’ora di punta per non doversi mordere troppo la lingua oppure litigare furiosamente. Nominate Mosca a una ragazza di Leopoli ed entro cinque minuti tirerà fuori l’Holomodor, 1932-1933, quando Stalin ordinò di affamare a morte centinaia di migliaia di kulaki che non volevano piegarsi alla collettivizzazione. Ma per un’anziana di Lugansk il russo è la prima lingua e l’Urss coincide, non foss’altro, con i giorni belli della gioventù. Troppe braci antiche, a sinistra e a destra del Dniepr, aspettavano solo il momento di essere riattizzate. Ora le fiamme divampano, i soldati muoiono e rispettabili analisti hanno addirittura pronunciato il termine tabù: «Terza guerra mondiale». Il conflitto, pur a tremila chilometri di distanza, per una volta entra nelle nostre case non dalla tv ma dalla porta principale, grazie alla copia delle chiavi che abbiamo dato alle donne che si prendono cura dei nostri vecchi o mettono in ordine i nostri appartamenti.
Della familiarità inedita in questo conflitto mi sono accorto quando Alina, la cinquantaseienne di Ternopili che una volta alla settimana stira e rassetta in casa mia, mi ha chiesto se sapevo dove comprare un giubbotto antiproiettile. Le serviva per suo figlio, sin lì tranquillo dipendente di banca, che voleva andare ad aiutare sul fronte orientale. «In Ucraina non si trovano» mi aveva spiegato (ora sì, evidentemente sotto la spinta della domanda, e costano sui 300 euro), «e volevo comprarglielo io. Ma anche qui è complicato». La stessa mamma che l’anno prima chiedeva dove comprare un computer a buon mercato o una giacca a vento ora aveva bisogno di un gilet con piastre di acciaio che proteggessero contro gli Ak-47. L’involuzione di Babbo Natale. Nei quindici anni da quando la conosco, di quella conoscenza superficiale ma partecipe che si finisce con lo sviluppare con la frequentazione protratta, questa donna forte, pragmatica e ottimista non si era mai lamentata di niente. Ora era vistosamente preoccupata. Aveva comprato dai cinesi un telefono oversize con Skype per poter fare e ricevere in ogni momento videochiamate dai figli. Compulsava online i giornali della sua terra e seguiva su Facebook gli aggiornamenti della situazione così come raccontati da persone al fronte. E poi voleva parlarne, con più foga di quanto non avesse mai parlato d’altro. Tutte le sue amiche avevano conosciuto la stessa politicizzazione. E anche la chiesa che frequentava abitualmente, da quel che capivo, era diventata un centro di aggregazione logistico di aiuti ai ragazzi in guerra.
Ma prima di incontrarle, vederle riempire di tonno in scatola («A Odessa non si pesca»), caffè e cioccolato fondente, oltre a guanti, scaldacollo e sacchi a pelo pesanti comprati da Decathlon, i furgoni che fanno la spola tra Roma e il loro Paese, torniamo un attimo a Ferrara, per assistere alla replica incruenta dello scontro che sta distruggendo la regione del Donbass. Roberto Marchetti, oltre a essere presidente dell’associazione, si è inventato anche una strepitosa casa d’accoglienza che si è posta un quesito giovaneholdeniano: chi bada alle badanti quando arriva l’inverno della loro vita e si ammalano sul serio? Grazie a una convenzione con il comune riescono a ospitarle, accompagnarle nella convalescenza, dar loro un supporto psicologico. È lui che mi ha fissato un appuntamento con tre giovani «patrioti» in un altro ufficio per disinnescare alla radice possibili tensioni. Perché questi tre trentenni non hanno dubbi, né tanta pazienza verso voci dissenzienti. «L’importante» esordisce Uliana, una laurea in lettere alle spalle e un presente di babysitteraggio intenso, è non chiamarla guerra civile, come purtroppo fanno molti media italiani. Perché qui non si combatte tra fratelli, ma c’è una nazione (la Russia) che ne ha aggredito un’altra». Provo a obiettare che, fino a prova contraria, i separatisti del Donbass hanno il suo stesso passaporto. «Ma sono pochissimi» interviene ad aiutarla Serghei, socio di una concessionaria d’auto, «e se non fosse per le armi russe non sarebbero mai diventati un problema. Avremmo trovato facilmente una soluzione». Tutti e tre vengono dall’estremo occidente, città vicine alla Polonia, e si definiscono con orgoglio banderivzi, ovvero seguaci di quel Stepan Bandera, nazionalista del secolo scorso nonché collaborazionista coi nazisti e ora rispolverato dal movimento ultra-nazionalista Settore destro. Obietto che non è una bella compagnia, ma non raccolgono: «I fascisti non c’entrano niente. C’entra tutto invece con l’essere veri ucraini» insiste Serhei, riciclando uno scivoloso topos del nazionalismo che pretende di stabilire il perimetro di chi sia autenticamente popolo. Se dici Russia ad Alina, ex badante disoccupata con una croce cattolica al collo, si accende il ricordo di quando – era ancora il ‘76 – doveva andare a scuola in uniforme marrone con una spilla di Lenin sul bavero («Senza non ti facevano entrare e una volta dovetti fare due chilometri a piedi per tornare a prenderla»). Oppure quello del battesimo, fatto in segreto dalla nonna, perché i genitori non potevano rischiare di perdere il lavoro. Uliana rammenta i palazzoni grigi, le code per il burro e quelle per il salame («Gli stivali di vera pelle erano un sogno») e dice che è disposta a tutto per non rivivere quei tempi. È chiaro che un imprinting così è difficile da superare.
Lo spettro che si aggira tra gli ucraini europeisti è quello del comunismo. È questo panico antico che motiva i giovani che vanno al fronte con armi scarse e mezzi antiquati. Come il figlio di Olesya Chikel, ex professoressa di letteraura russa e da quindici anni badante a Roma. Vitaliy, 34 anni, lavorava in banca a Leopoli quando ha ricevuto la cartolina (da 20 a 60 anni tutti oggi sono reclutabili). È partito il 4 luglio e a dicembre, quando è tornato a casa, del suo battaglione di quattrocento uomini ne erano sopravvvissuti cento. «All’inizio ci sentivamo per telefono» spiega Olesya, «ma poi hanno proibito di usare i cellulari perché il nemico intercettava le coordinate per colpirli». Crede che fosse di guardia a una raffineria a nord di Donetsk, ma il figlio non era autorizzato a rivelarlo. A un certo punto anche internet è saltata e la comunicazione si è ridotta al lumicino. Sa, da scarni messagini, che sta bene e questo basta. In compenso ha rotto i rapporti con suo fratello che vive in Russia da anni per lavoro ed evidentemente ha sviluppato un’altra sensibilità: «Ma cosa è andato a fare a combattere?» ha commentato, e lei non ha gradito. Mi mostra un video sul telefonino in cui Vitaliy e altri soldati cantano, accompagnati da una chitarra con due adesivi giallo-blu, una canzoncina apotropaica: «La brigata Lviv sta per tornare a casa/ragazze preparatevi». Più fiero è il racconto delle gesta militari del primogenito che dà Rosaliya Lytvynyuk, cinquantasettenne con gli occhi azzurrissimi, una laurea in psicologia e lavori da badante e con i bambini all’attivo. Il suo Bogdan («Significa dato da Dio») è un militare di carriera, specializzato in telecomunicazioni, e da mesi è dispiegato in una località segreta del teatro di guerra. Mi dice orgogliosa che «i militari sono persone speciali e soffrono se non difendono la loro patria» e il figlio le ha spiegato che «anche le loro madri devono esere speciali». Nel senso di «senza paura». Mi racconta anche della formidabile mobilitazione civile che la guerra ha provocato, compresa la bimba Down di una sua amica che si è fatta tagliare i capelli lunghissimi per venderli e devolvere l’incasso (l’equivalente di 40 euro) ai soldati. O di ragazzini delle elementari che preparano biscotti home made e delle nonnette che vendono calzini e berretti fatti a maglia. «Dal male può venir fuori il bene: il nostro Paese non è mai stato così unito» sentenzia, non senza una dose di ottimismo della volontà. Se si facesse una word cloud, quelle visualizzazioni che vanno molto di moda sull’incidenza di certe parole nei discorsi dei politici, qui i termini preminenti sarebbero: onore, eroi, patria. Per i nostri standard si registra una discreta enfasi, che fa piuttosto impressione. Però i nostri standard non prevedono neppure che un placido bancario sia chiamato da un giorno all’altro per dismettere la cravatta e indossare l’elmetto. Vira Bednarciuk è un’altra sessantenne di Leopoli che incontro in una pausa della sua assistenza a una novantenne romana. «Quello che sta succedendo da noi è molto pericoloso per tutta l’Europa. Lo sbaglio di sottovalutare Hitler quando prese la Polonia non va ripetuto» avverte l’ex prof di storia. Anche suo figlio è un militare di carriera e si sentono, brevissimamente, un paio di volte alla settimana. Se «Tutto bene» e poco altro si può qualificare come sentirsi. Lei ce l’ha soprattutto con la disinformatja russa che, oltre a infondate vanterie belliche, metterebbe in circolazione video in cui l’Europa è presentata come destinazione triste e inospitale.
La domenica è il momento migliore per incontrare le ucraine. Hanno il giorno libero e vanno in chiesa, ovvero la cosa che è stata proibita loro in patria fino al 1986. A Santi Giorgio e Bacco, nel quartiere Monti, i fedeli tracimano nella piazzetta, sotto una pioggia leggera. Tanti colli di pelliccia tra le donne dicono sulla loro provenienza più del passaporto. L’Ucraina della diaspora è un universo matriarcale, con mariti gregari quando non abbandonati in patria. Anche Irina Tepla, bionda come la Timoschenko, è divorziata e ha due figli che cresce da sola qui. Da infermiera che era, ha fatto la gavetta al banco del pane di un supermercato prima di diventarne la responsabile. È attivissima negli aiuti ai soldati: «L’altro giorno una vecchietta che viene spesso a fare la spesa mi ha portato della roba da spedire. Mi ha fatto piangere». Insieme ad altre ragazze si è inventata un sistema ingegnoso per assicurarsi che tutta questa generosità popolare non vada persa: «Ogni cosa che compriamo e mettiamo nei pacchi viene fotografata. Poi i volontari in Ucraina li portano al fronte. E quando i destinatari li ricevono fotografano a loro volta il contenuto, per verificare se tutto è a posto». Quando le donazioni sono in denaro, la contabilità è trasparente su Facebook, ben oltre il M5S. Mi mostra foto sue a gennaio, quando è tornata a casa, sullo sfondo di un blindato che hanno aiutato a comprare. C’è un ragazzino appena maggiorenne che la ringrazia per averle mandato dei vestiti caldi per la battaglia. Tra le tante foto dei flash mob e delle attività cui ha partecipato per sensibilizzare il mondo su cosa succede a casa sua, spunta la bandiera rosso-nera dei nazionalisti: «Non c’entra la politica, è la vecchia bandiera dei partigiani che amavano l’Ucraina quanto l’amiamo noi». Non c’è dialogo possibile tra questa giovane leonessa e le anziane signore nostalgiche del Donbass. Ma toccherà inventarsene uno per evitare un tragico sequel balcanico con queste facce così familiari come co-protagoniste.
DA SENTIRE: LA BALLATA DEL’EROE
Epilogo
Come al solito le parole migliori per dirlo le trova Michele Serra. Questa settimana, rispondendo ai lettori del Venerdì scrive:
La partita in corso è chiara a tutti: difendere l’autodeterminazione dell’Ucraina per difendere la democrazia, concetto non poi così vago da avere bisogno di grandi approfondimenti. Sono con l’Europa, dunque contro Putin. Ma dirlo e basta significa poco. È una comoda semplificazione (anche per questo le guerre sono pericolose: perché costringono a semplificare). E dunque pensare che la Nato non avrebbe dovuto spingere così a Est la sua presenza militare; considerare che una parte non piccola del nazionalismo ucraino ha schiette venature fasciste, come sui giornali (anche Repubblica) si legge da anni; che queste venature nazional-fasciste erano ben presenti anche nella non lontana guerra in Jugoslavia (anche lei “guerra nel cuore dell’Europa”, nella quasi indifferenza degli europei, che l’hanno dimenticata in fretta); che le autocrazie ci fanno comodo quando se ne stanno buone e fanno affari con noi, e non è intelligente scoprire che sono autocrazie solo quando scendono in guerra; che Erdogan, nazionalista islamico e persecutore dei suoi oppositori, non è un membro del quale il club Nato può vantarsi, visto che “difendere la democrazia” dovrebbe essere la sua ragione sociale; be’, dire e pensare queste cose non solo non indebolisce il cosiddetto “Occidente”, ma lo aiuta a ragionare sui propri limiti e i propri errori. Questa facoltà – ragionare sui propri limiti ed errori – mi sembra il sale della democrazia. Lasciando a duci e ducetti, ai capipopolo nazionalisti, il dubbio privilegio di sentirsi immuni da colpe, benedetti da Dio, condottieri immacolati, e in fondo al loro percorso, macellai di esseri umani.
Charles D’Ambrosio, grande scrittore che meriterebbe una celebrità globale, in Perdersi (minimum fax) notava come «ciò che ci differenzia dalle scimmie non è tanto il pollice opponibile quanto la capacità di far convivere idee contraddittorie nella nostra mente, caratteristica distintiva che magari dovremmo cercare di non perdere». Pensare tutto il male possibile di Putin, avendo orrore di questa guerra fratricida e poi, subito dopo, far notare alcune colpose sottovalutazioni che hanno alimentato le ossessioni dell’aggressore non sono neppure idee contraddittorie. Sono due fatti. E, come tali, renitenti alle liste di proscrizione.