#54 I cinesi non muoiono mai
L'ultra-fast fashion di Shein; la tragedia del pronto modo di Prato; i turisti di Pechino presi a pesci in faccia; quasi amici nel lockdown; il prologo del libro; Miss Little China; Far West podcast
ARTICOLI. LIBRI. VIDEO. PODCAST. LIVE. BIO.
Prologo
Che noia i cattivoni a una dimensione! Oggi si portano molto i russi, ma anche i cinesi non scherzano. È un certo numero di anni che va così: da quando ha rialzato la testa, passando dal confortante status di paese in via di sviluppo a superpotenza economica, l’Impero di mezzo ha cominciato a fare paura. Ed è per questo che, nel lontano 2008, stanchi di una pubblicistica che raccontava i cinesi italiani solo nella loro prospettiva criminale, con Raffaele Oriani ci mettemmo a scrivere un libro che provava a raccontarli nella loro peculiare fisiologia. Fu una faticaccia, perché i cinesi possono essere ardui da avvicinare, ma ne valse la pena.
SHEIN, L’AMAZON CINESE DELLA MODA
Questo sino-revival mi è stato suggerito da un pezzo sul Venerdì in edicola che racconta il fenomeno Shein, il negozio online che ha inventato l’ultra-fast fashion. Un estratto:
L'azienda, al netto di leggende apocrife su origini statunitensi poi rimosse, nasce a Nanchino nel 2008. Dove il suo fondatore Chris Xu, da esperto su come massimizzare la visibilità dei siti (Seo), aveva iniziato a realizzare e vendere online abiti da sposa che, ancorché low cost, mantenevano margini di guadagno cospicui. Da lì si allarga seguendo un principio: fare fuori gli intermediari. Guangzhou, la vecchia Canton epicentro della produzione tessile (e della contraffazione, ma su questo torneremo dopo), ha un'enorme rete di produttori per conto terzi. Oggi Xu può contare su seimila di loro. Mentre Zara fa ordini medi da 2000 capi da consegnare entro un mese, Shein chiede in media 100 pezzi ma li vuole entro 10 giorni. Poi entra in gioco il software, vero punto di forza del sistema. Il programma Latr, che sta per “large-scale automated test and re-order", per cui quando un modello comincia a vendere bene viene immediatamente approvvigionato attraverso la app interna cui ogni fornitore ha accesso. Proprio come Amazon che sa in tempo reale quali articoli, anche commercializzati da venditori terzi, vanno forte e quali no e quindi può decidere (e lo farebbe, stando all'accusa dell'Antitrust europea) di cominciare a produrli sotto il suo marchio, lasciando che gli altri si accollino il rischio delle perdite.
LA TRAGEDIA ANNUNCIATA DI PRATO
Sempre a proposito di moda e di cinesi nel 2013 ero stato a Prato per raccontare, da cronista, la tragedia di Teresa Moda, un laboratorio tessile che era bruciato facendo una mezza strage. Il pezzo iniziava così:
Prato. Ci sono quattordici persone vestite di nero sedute intorno a un tavolo. Se non fosse per le tazze di tè fumante tutto – la fòrmica bianca, la luce al neon, i volti terrei – farebbe pensare a una morgue e non al retro di un bar semivuoto del centro. Sono i familiari dei sette morti nel rogo del laboratorio Teresa Moda, appena arrivati dalla Cina. Una madre, i capelli neri che le spiovono sui lati della testa come uno spaventapasseri, è pietrificata dal dolore e quasi non riesce a estrarre la mano dalla tasca per rispondere al saluto. Non sanno che, all’indomani dell’incendio, nei bar c’era chi ridacchiava («dovrebbero bruciare tutti») e sul web è spuntato un articolo agghiacciante (ci si arriva dalla pagina Facebook dell’associazione Prato libera e sicura che fa capo all’assessore alla sicurezza) dal titolo «Non sono poi molti sette morti in cambio di ciò che i cinesi avranno», scandalizzato dall’apertura di un ufficio postale dove si parlerà mandarino. Sanno invece che vita facevano i loro mariti, mogli e fratelli. «Mangiare l’amaro» è l’espressione che i cinesi della diaspora usano spesso. Vuol dire 18 ore al giorno, laoban, padroni non teneri ma che pagavano salari fino a oltre 3000 euro al mese per gli operai più veloci. Con vitto e alloggio, seppure nelle cellette dove sono morti cercando di riscaldarsi. Non è la vita che faremmo, non è la vita che nessuno dovrebbe fare, ma è la vita che hanno scelto con la speranza di mettersi in proprio dopo cinque-sei anni. Da zero a imprenditore in un lustro non è un salto che si fa gratis. «Ma non chiamateci schiavi» esorta il fratello di una vittima, «nessuno dei nostri familiari era costretto a fare niente. Sono venuti, sui racconti di amici partiti prima, per guadagnare in media dieci volte di più rispetto ai 200 euro per otto ore nelle fabbriche in patria». Ecco, per rispetto dei morti e dei vivi, cominciamo a chiamare le cose con il loro nome.
MA CHE CE FREGA DEI TURISTI DI PECHINO
L’anno dopo avevo trascorso una giornata piuttosto istruttiva con una piccola comitiva di turisti cinesi a Roma. L’incipit di quella cronaca:
Roma. Davanti a un Colosseo imbracato per restauro i turisti fanno la fila per lasciarsi fregare. Il conducente, con bermuda, cappellino da baseball e tatuaggi postribolari, chiede centottanta euro: «Famo Piazza Venezia, via del Corso, Palazzo Chigi e arivamo a Trinità dei Monti». La guida traduce in cinese e Sophia, che sembra appena uscita da Pitti Donna, ne offre 150 che ovviamente l’altro accetta (sdegnato, farà il viaggio al trotto rallentando, ma non fermandosi mai, per le photo-op promesse). Huan ying lai dao yi da li, benvenuti in Italia, portatori sani di valuta in tempi di vacche magre! Apprezziamo la vostra visita al punto da farvi sudare per il visto, negandovi in stanza il bollitore (da 10 euro) per l’acqua calda che vi piace tanto e proponendovi mappe e guide spesso in giapponese, quel popolo con cui notoriamente avete una secolare, splendida intesa.
Quello dell’accoglienza dei cinesi nel nostro Paese è un frattale perfetto dello stato di salute del turismo italico. Che a sua volta sembra ricalcare le nostre sorti calcistiche: talenti incalcolabili che si fanno battere da chi si applica di più, uruguaiani inclusi. Nonostante questo, nonostante tutto, i cinesi vengono sempre più numerosi. Circa 300 mila all’anno, desumendo il dato dai visti che chiedono nei nostri consolati in Cina. E spendono sempre di più. «Nel 2013 hanno fatto registrare una crescita del 20 per cento per i rimborsi dell’Iva sugli acquisti e da soli valgono poco meno di un quarto del mercato italiano del Tax Free Shopping. Secondi solo ai russi» dichiara Global Blue, azienda specializzata in servizi ai turisti. Uno scontrino medio per 4-5 giorni di visita è di poco superiore ai mille euro. Che diventano 6200 se ci si limita all’epicentro del lusso, tipo via Condotti a Roma. Di loro possiamo dire tutto, tranne che abbiano il braccino corto. Ma, apparentemente, non ci facciamo impressionare.
QUASI AMICI DURANTE IL LOCKDOWN
Nel marzo 2020, nell’ora più buia della pandemia, l’oggetto del desiderio era la mascherina. Che i cinesi avevano noi il più spesso delle volte no. Sebbene ce le regalassero – per una diplomazia interessata? magari, ma stiamo ai fatti – la loro reputazione presso di noi non accennava a migliorare. Ero andato a vedere perché:
Alla fine la differenza la fa la mascherina. Loro ce l'hanno e se la mettono, noi molto meno. Yang Shi, interprete e attore teatrale cinese-milanese, ha passato i tre quarti d'ora precedenti alla nostra chiacchierata a cercare di rimediarne un certo quantitativo dalla Cina per conto di una stazione di carabinieri che gli ha chiesto il favore: «Il mio amico mi ha passato il maggiore e mi ha ringraziato: non ci potevo credere». Non è tempo di formalità. In Italia non si trovano, in Europa non ce le danno, tocca rivolgersi all'Impero di mezzo. Che, dopo i passi falsi iniziali, ha ritrovato la sua centralità. Quali canali preferenziali ha smosso? «Nessuno. Più banalmente ho creato un canale di WeChat, il social network più usato in Cina, dal titolo kouzhao, copri-bocca, mascherina appunto, e varie persone hanno risposto». Bisogna solo fare attenzione alla fonetica perché basta pronunciare un po' più dolce la z e significa rapporto orale, che richiama un pubblico diverso. Ancora Shi: «Ho forse trovato gente anche disposta a fare donazioni. Adesso in Cina, che rialza lentamente la testa dopo l'onda più forte, è tutto un pullulare di aiuti per il resto del mondo».
Quante formidabili accelerazioni. Una settimana al tempo del Coronavirus vale un anno di un cane che ne vale sette di un uomo. Così la stessa persona con gli occhi a mandorla che un mese fa era un potenziale untore oggi è un presunto salvatore. Con tanto di aereo speciale che arriva da Pechino con milioni di mascherine in dono per noi e una squadra di medici che è venuta ad aiutare (e complimentarsi con) i colleghi dello Spallanzani. Ma ancora dal 7 al 16 gennaio, quando già le autorità locali sapevano di casi anomali di polmoniti, Wuhan ospitava un raduno annuale del Partito con tanto di banchetto da Guinness per sfamare 14 mila famiglie. Tutte insieme contagiosamente. La settimana dopo la città era in quarantena, il segretario del partito locale rimosso dopo un feroce «lancio di wok», l'espressione che descrive bene il rimpallo di responsabilità, e un infettivologo di Shanghai diventava un mito per aver detto che avrebbe sostituito i medici in prima linea con i funzionari politici («Dite sempre che il benessere del popolo è la vostra priorità: ora è il momento di dimostrarlo!»). E torniano a noi. A oggi.
IL PROLOGO DEL LIBRO
Da I cinesi non muoiono mai, scritto con Raffaele Oriani, per Chiarelettere (di cui fecero anche un’edizione cinese!).
L'Italia dei cinesi non è un paese per vecchi. Quella degli italiani, apparentemente, sì. Ci sono digressioni che fanno solo perdere tempo, altre che ne fanno risparmiare perché quando arrivi a destinazione hai le idee più chiare. Passare da Pechino per raccontare Roma appartiene alla seconda categoria. O almeno questa è la scommessa del libro che avete in mano. Eravamo partiti con l'idea di raccontare una parte del paese, la comunità più misteriosa e inaccessibile, i cinesi appunto. Poi ci siamo resi conto che fissare loro era come guardarci in uno specchio deformante. Eravamo ancora noi i tipi riflessi nel vetro ma imbolsiti, pigri, ingrigiti, rassegnati, spaventati da tutto, a voler fare il paragone con le figure scattanti del nostro cinema in bianco a nero, per dire. Gli immigrati che avevamo davanti agli occhi invece avevano ancora l'energia e il coraggio dei nostri connazionali degli anni '50. Una constatazione che, sulle prime, ci ha fatto sentire un po' a disagio. È come se, vedendo loro che cambiano città, lavoro, vita come noi sappiamo ormai fare solo con il modello di cellulare, potessimo contare esattamente quanti chili e rughe abbiamo messo su in pochi anni. Smaltito l'imbarazzo abbiamo intuito invece che valeva ancora più la pena provare a decifrare loro per comprendere cosa abbiamo perduto noi. E seguendo questi formidabili rabdomanti di opportunità abbiamo finito con lo scoprire un'Italia inedita, piena di insospettabili occasioni che aspetterebbero solo di essere prese al volo.
Da nord a sud i cinesi ci aiutano a riscrivere la geografia dello sviluppo. Sulle montagne cuneesi li abbiamo visti spaccarsi la schiena e riempire il portafogli nella lavorazione di pietre antiche su cui i locali avevano messo una croce sopra. Nella campagna del vercellese hanno ripopolato campi mai così affollati e alacri dalle inquadrature di "Riso amaro". Con l'acqua al ginocchio e un'umidità equatoriale hanno sfidato ogni buon senso nostrano indignandosi perché il padrone non li voleva far lavorare abbastanza. Le loro multinazionali hanno visto nella nostra economia ingrippata una lunga serie di potenzialità. Armati di tanti soldi e altrettanta modestia, hanno salvato marchi storici e rimesso in carreggiata gruppi in caduta libera. Nello stakanovista nordest hanno zittito le paranoie leghiste parlando la stessa lingua della gente del posto. Quella delle tre parole chiave: lavoro, lavoro, lavoro. Il medesimo esperanto che ha consentito loro di farsi capire anche nel profondo sud. A Matera, quando i distretti dei divani hanno cominciato a segnare il passo, senza la loro entrata in scena sarebbe stata dura evitare la catastrofe. Gli operai locali sin sono messi in fila per la cassa integrazione, loro si sono messi insieme per aprire fabbrichette. E quando a Milano e a Prato certi quartieri si spopolavano, si sono inventati le chinatown. Che prima hanno fatto la ricchezza degli italiani che gli vendevano case a prezzi maggiorati, increduli di fronte a borse piene di contanti, e poi la rabbia di quelli che non erano stati così lesti e adesso dovevano convivere con vicini tanto attivi, laboriosi, diversi.
Per non dire dei loro figli, così più svegli, educati e spesso bravi a scuola dei nostri. Nonostante che facciano tutti, da quando non hanno più i denti da latte, doppi e tripli lavori per aiutare mamma e papà nei loro titanici progetti di affrancamento sociale. Tutta un'altra attitudine. Mentre i nostri giovani sognano il posto fisso, i loro si offendono se solo qualcuno ha la malaugurata idea di offrirgliene uno. Quindi faticano, faticano, faticano in un'infinita accumulazione originaria che finisce solo il giorno in cui decidono di andare in pensione e cominciare a vivere, magari una volta ritornati nell'amata Cina. Così facendo, sono tra i pochi immigrati ricchi in circolazione. E questa è un'altra contraddizione in termini difficile da buttar giù. In una nazione in difficoltà come la nostra è un motivo più che sufficiente per sviluppare fantasiose teorie della cospirazione e una diffusa invidia. E poi, si sente dire, sono chiusissimi, ermetici, stanno solo tra loro. Che è anche vero ma, siate onesti, quante volte avete provato ad avvicinarli? C'è una ragazza, tra le tante con cui abbiamo parlato, che si lamentava del fatto che nei due anni da quando ha aperto la sua agenzia immobiliare nessuno, dai due negozi accanto, sia mai venuto a dirle "benvenuta!". Certo, non fanno allegria come i sudamericani, non li sentiamo cugini come certi maghrebini, ma è un po' poco per fargliene una colpa.
E se non bastassero loro, a impensierirci, guardateli sullo sfondo della loro superpotente madrepatria, che macina ogni anno nuovi record economici, e vedrete come le ombre si faranno ancor più minacciose. Epperò l'unico modo per capire che, per quanto scure, le ombre non possono mai fare troppo male è andarci sotto, vederle da vicino. Proprio ciò che abbiamo cercato di fare durante questo viaggio. Li abbiamo incontrati, ci abbiamo parlato a lungo, abbiamo conosciuto le loro famiglie, intuito quanto fosse ramificata la rete delle loro parentele. Non hanno sempre aperto la porta di casa al primo squillo di campanello, questo no. Ma siamo comunque entrati in più soggiorni e bevuto più tè con cinesi di quanto un italiano medio totalizzerebbe in una vita intera. Così facendo abbiamo verificato quel che immaginavamo soltanto prima di partire. Ovvero che di loro non si sa niente. Al di là di una quantità industriale di luoghi comuni, ovviamente. Perché dove si ferma il trenino della conoscenza, parte puntualissimo il razzo della superstizione.
Alla fine sono diventati una sorta di nostra "cattiva coscienza", ruolo utile ma che quasi mai suscita simpatia. E nel stargli dietro abbiamo disperatamente cercato di cogliere l'ultimo dei loro segreti, quell'elisir di giovinezza che noi sembriamo aver smarrito da tempo. Niente di esotico, tipo balsami di tigre, pozioni alla zenzero o al brodo di serpente. Ma più banalmente una visione ottimista del mondo per cui tutto è possibile, scrollandosi di dosso il giogo della paura del futuro, se solo lo si vuole ardentemente. Compreso partire da un remoto villaggetto dello Zhejiang con una valigia di cartone e ritornarci quarant'anni dopo con i soldi che bastano a comprarsi un grattacielo. Una visione che vive l'eventuale fallimento professionale come un fisiologico incidente di percorso e non uno stigma da evitare come la peste. E che ha compreso, con Goethe, che non è forte chi non cade mai ma chi, cadendo, si rialza. Ecco, i cinesi che vivono nel nostro paese hanno tutti i ginocchi un po' sbucciati. Noi invece da tempo non abbiamo più un graffio ma fatichiamo terribilmente anche a graffiare. Fosse solo questa la lezione, ne sarebbe già valsa la pena. Ma ce ne sono molto altre per chi avrà la pazienza di avventurarsi nella lettura. A volte non c'è niente di meglio che un ospite intelligente per far capire al padrone di casa come sia bello e ricco ed eccitante il posto dove vive. Frequentando i cinesi d'Italia abbiamo avuto un po' questa sensazione. E per questo siamo loro davvero molto grati.
DA VEDERE: MISS LITTLE CHINA
Con Vincenzo de Cecco e Riccardo Cremona collaborammo per un bel documentario che prendeva spunto da una storia del libro: Miss Little China (Chiarelettere).
Epilogo
Parlando d’altro, sull’ultima Galapagos scrivo di un nuovo Far West: quello dei podcast, professionali e ancor di più amatoriali. Se chiunque può pubblicare su Spotify e altre piattaforme e dice bestialità, chi deve intervenire? Perché con l’audio è decisamente più difficile che con il testo usare un algoritmo come moderatore di contenuti. Tempi interessanti.