#53 Perché Sanremo è... quella cosa lì
Chi decide le playlist Spotify; casse hi-fi per connoisseurs; il suono del silenzio, ultimo lusso; quando ci esaltavamo per i Virginiana Miller; Elio a New York
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Prologo
La tragicommedia quirinale doveva lasciare spazio al grande spettacolo italiano. E così è stato. Come i Grandi Elettori anche i gli autori del festival della canzone italiane aderiscono alla religione del Gattopardo, con tutto quel che ne consegue. Più è uguale a se stesso, più tranquillizza, più macina spettatori. Sanremo è l’holter pressorio della nostra società. Per capire quel è lo stato delle cose della nazione, quel che si può dire e non dire, non possiamo non guardarlo. E già che ci sono approfitto per un piccolo medley di pezzi a tema musicale.
I PADRONI DELLE PLAYLIST
Chi fa le playlist decide cosa ascoltiamo. Eh, ma chi le fa? Nel novembre del 2016 sono andato a New York a conoscere queste persone. Di seguito l’incipit (il pezzo integrale qui).
NEW YORK. La ragazza con gli auricolari color perla, in piedi nella carrozza della linea 2, sta ascoltando Nicky Jam. È il santo patrono del Reggaeton, un miscuglio di reggae, rap e pop che dal Porto Rico è esondato nel resto del mondo. Il treno viene da East Harlem, periferia ispanica di Manhattan, quindi alla trentenne che ondeggia accanto a me lasciandomi spiare nel suo smartphone la musica può essere arrivata con il passaparola. Agli altri 1,7 milioni di abbonati all’omonima playlist, la terza più popolare tra le 4.500 di Spotify, invece l’ha messa in testa Rocío Guerrero Colomo, la spagnola di ventinove anni che l’ha creata nel 2014. «Era il decimo anniversario di Gasolina, il mega-successo di Daddy Yankee, e volevo solo celebrarlo» mi confessa nella sala Me&Julio Down by the Schoolyard (ognuna ha il titolo di una canzone) della sede newyorchese del servizio di streaming musicale. Ma l’operazione nostalgia le è esplosa tra le mani: «Ha cominciato a crescere a dismisura. Piano piano si sono convertiti Shakira, Ricky Martin e Ricky Iglesias. E così, da unica curatrice che ero della musica latina, sono diventata la capa di una squadra che è raddoppiata l’anno scorso e raddoppierà ancora il prossimo».
LE CASSE GIUSTE PER l’1%
Ma ascoltare la musica nelle cuffiette, per i puristi, è un abominio. Così nel gennaio 2018 sono andato a trovare un tipo che fa casse da 30 mila dollari in su. Si sentivano bene, non da giustificare quel pezzo, a orecchio, ma probabilmente è un limite mio.
Brooklyn. Lo showroom è una via di mezzo tra la caverna di Batman e un tempio buddista, con abbondanza di candele e tappeti kilim. Pochi giorni fa è passato anche Andrea Bocelli, sulle tracce del passaparola globale che ha fatto di questo posto una piccola leggenda da intenditori: «Non parlava inglese, spero che qualcosa abbia comunque capito» scherza Jonathan Weiss, il padrone di casa con camicia di jeans, gilet di lana gessata e una non trascurabile somiglianza con Jim Jarmusch. È lui che dieci anni fa ha fondato Oswalds Mill Audio forse i migliori, quasi sicuramente i più cari impianti stereo (definizione riduttiva) al mondo. Sono qui per una degustazione sonora, come gli piace chiamarle. C’è un’innegabile eco pretenziosa nel termine, ma a dispetto del casermone funzionalista a pochi isolati dal ponte di Brooklyn siamo entrati in una zona finanziariamente extraterritoriale dove solo l’1 per cento, nella dicotomia resa celebre da Occupy Wall Street, ha diritto di cittadinanza. Solo loro potrebbero permettersi le Imperia, questa coppia di casse alte oltre due metri, con due grossi corni di legno che ricordano ipertrofici diffusori di un grammofono, prezzate 350 mila dollari. Che, a scanso di equivoci, è il costo di un piccolo bilocale a non troppe fermate di metropolitana da qui. Ma se dal top di gamma scendiamo alle Mini, il modello base, l’etichetta dice ancora 27 mila dollari, ovvero uno o due ordini di grandezza sopra i migliori speaker attraverso i quali i comuni mortali ascoltano la musica. Parlare di soldi è esattamente il taglio che Weiss detesta, trovandolo volgare e sbagliato: «Perché nessuno ha niente da ridire per un disegno di Basquiat da 100 mila dollari?». D’altronde, se accettiamo che l’artigianato sia arte, il valore di scambio si emancipa totalmente da quello d’uso. Eppure è proprio di questo che Weiss vuole parlare, anche a costo di addentrarsi in un ginepraio di tecnicalità: «La potenza delle casse si calcola in watt per metro e misura quanto suono esce per ogni watt, di solito nei dintorni di 80 decibel. Ecco, le nostre sono fatte in modo che con un centesimo di energia esca un suono altrettanto potente ma molto migliore».
IL SILENZIO, ULTIMO LUSSO
La musica è una cosa, il rumore tutt’altra. E purtroppo il secondo è la vera colonna sonora delle nostre vite. Nel settembre del 2016 ero andato a incontrare professionisti specializzati nel ridurlo (qui l’integrale).
New York. I primi manuali di esorcismo del XV secolo stilavano lunghe liste su come riconoscere il maligno. Dei ventidue segni suggeriti dal barnabita Zaccaria Visconti nove erano acustici. Gli indemoniati, ad esempio, «piangono forte senza sapere perché» o «rispondono ferocemente, con voce esasperata». D’altronde Dante si accorge della città dolente, ben prima di vederla, per «le grida e gli alti lai». L’inferno sono gli altri. Soprattutto quando strepitano. Ma mentre abbiamo imparato a preoccuparci dell’inquinamento ambientale siamo ancora piuttosto inconsapevoli di quello acustico. Che pure, stando a una stima dell’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno toglie ai cittadini europei circa un milione di ore di vita in salute. Sino a ipotizzare che circa 3000 morti per infarto sarebbero evitabili se il Vecchio continente decidesse una buona volta di abbassare il volume. Invece al lavoro impazza la moda fuori tempo massimo dell’open space. Vicini di casa vengono alle mani per uno stereo fuori controllo. Bar o ristoranti senza colonna sonora sono in via di estinzione. Per non dire del variegato baccano stradale. Il silenzio è diventato il lusso supremo. La domanda è: non è il caso di renderlo più democratico?
Sostiene Murray Shafer, pluripremiato compositore canadese e pioniere dell’ecologia acustica, che le città sono oggi rumorose il doppio di vent’anni fa. La cifra tonda è sempre un azzardo, su cui non scommetterei il Tfr, però racconta un declino inconfutabile. La scomparsa della quiete. Al punto che, quando nel 2010 la Finlandia convocò un centinaio di esperti di branding per capire come vendersi meglio all’estero, il concentrato di cervelli partorì lo slogan Silence, Please, sullo sfondo di boschi incontaminati (pare aver funzionato). Quanto al peggioramento rispetto al passato, più remoto è, più diventa difficile dire. Basti citare il clangore dei cavalli sull’acciottolato rispetto ai pneumatici sull’asfalto, come fa l’antropologo Hillel Schwartz, autore per la Zone Books del monumentale Making Noise, una storia culturale del rumore. Dall’alto delle sue novecento pagine sapienziali ogni richiesta di semplificazione giornalistica lo ferisce come una coltellata: «Già nella mitologia babilonese il dio Apsû si lamenta con la moglie Tiamat per il sabba dei figli scatenati, che minaccia di sterminare pur di tornare a dormire. Gli egiziani e i greci misero in relazione il vivere vicino a cascate impetuose con la perdita dell’udito. Per arrivare ad Arline Bronzaft che, negli anni 70 dimostrò come i bambini in scuole in zone ad alto traffico imparassero a leggere peggio. Per non dire della scoperta, dieci anni dopo, che le incubatrici più rumorose riducevano la probabilità di sopravvivenza dei prematuri». Che faccia male lo sappiamo da sempre, dunque, ma l’abbiamo considerato un inevitabile danno collaterale del progresso.
QUANDO I VIRGINIANA MILLER SUONAVANO, ECCOME
A proposito di Sanremo, di chi c’è e poteva tranquillamente non esserci e chi non c’è mai stato mi sono venuti in mente i Virginiana Miller, mitica band livornese che meritava una celebrità più larga di quella per intenditori che hanno conquistato. Ero andato a intervistarli nel 2010, per XL, all’indomani dell’uscita di un disco bellissimo. Estratto:
I Virginiana Miller non sai mai come presentarli. Dando per scontato tutto, riconoscendo il loro luminoso status di oscuri oggetti del desiderio nel panorama indipendente italiano. O invece non presumendo niente, e allora raccontare dei primi vagiti rock al liceo classico Niccolini-Guerrazzi di Livorno, anno di grazia 1990. Dell'origine del nome concepita nel giardino botanico di Pisa sotto le chiome frondose di un albero che si chiamava come ora si chiamano loro. Della loro cospicua discografia che arriva oggi a un quinto, strepitoso cd. Insomma, è il dilemma delle stelle prima dell'esplosione a supernove, perennemente incerte sul declinare le loro generalità quando vi stringono la mano per la prima volta oppure no.
Con questo gruppo sorprendente, tra i più sofisticati e meno etichettabili, ci incontriamo in una «baracchina», piccolo bar-palafitta nel porto toscano, sullo sfondo di Annaeva, uno yacht spettacolare. «L'abbiamo comprato con le royalty dei nostri dischi», cazzeggiano. Ci sono tutti meno il batterista Valerio Griselli, bloccato fuori città: i chitarristi Antonio Bardi e Matteo Pastorelli, il tastierista Giulio Pomponi, il bassista Daniele Catalucci e Simone Lenzi, parole e voce. In totale due ingegneri, uno che vende vernici e l'altro computer, più un bohemien professionale. E il cantante che, dopo due anni di portiere di notte in un albergo vicino all'aeroporto, ora fa il ghost writer e traduce dall'inglese testi ermetici per blasonatissime case editrici universitarie. Anche per questo Il primo lunedì del mondo è il disco della rinascita.
LE STORIE TESE A NEW YORK
Il 12 febbraio 1998 Elio e le storie tese invasero il tempio della musica rock newyorchese. Io, che allora vivevo in quella città, scrissi una breve cronaca per l’Unità.
"We would like to incommence with some song from the tradition of Italy" e giu' con un coro etnico sardo che lascia il buttafuori nero da duecento chili con la bocca aperta, basito. "L'Artista Prima Conosciuto come Elio e le Storie Tese" ha cambiato nome per facilitare il compito al pubblico della sua tourne'e "E.L.I.O. eats America": "Siccome gli americani sono lenti di comprendonio - spiega introducendo la band, al Sob's di New York, noto ritrovo per la musica "latina" in genere - abbiamo semplificato in una sigla che significa Enema Lovers Italian Orchestra (l'orchestra italiana degli amanti del clistere, ndr)". I moltissimi italiani apprezzano e ridono, gli astanti americani ridono anche loro. Parrucca di ordinanza, giacchettina stretta a quadretti bianchi e neri, gilet grigio e cravatta beige, su un pantalone di gabardina aderentissimo, il leader del gruppo "ambasciatore della musica italiana nel mondo" (la definizione e' sua, ma immediatamente rettifica: "se uno vi dice una cosa del genere dubitate: siamo di Milano, capitale della moda, e infatti un'amica di una nostra amica una volta ha parlato con Armani...") e' in gran forma. Dopo alcune date in California e' a Manhattan, al Sob e al Cbgb, tempio del rock mondiale, per finire a Miami. Rai Internaional sta girando uno speciale su di loro in quattro puntate e loro, professionalissimi, hanno tradotto in inglese i testi di molte canzoni. "John Holmes" resta tale e quale, ma poi c'e' "Darling I love You", "Homosexuality" e molti altri classici dei piu' sapienti citatori (il nuovo spelling del nome del gruppo e' un tributo a un pezzo di Frank Zappa) e manipolatori del pop italiano.
Tra una canzone e l'altra Elio interloquisce con il pubblico leggendo da un taccuino dei discorsetti tradotti in un inglese corretto ma esilarante: "Come vedete non capisco niente di quello che dico infatti adesso leggo questo biglietto dal pubblico che dice "Elio e' un deficiente totale" e non ho nessuna reazione", scherza in apertura. Invece la traduzione dei testi, pur complicatissima, rende molto bene: in "Cara ti amo", usano per "finocchio" "membro dei Village People" o per "gretto materialismo maschilista" "materialismo da stallone italiano" e cosi' via. A un fan che urla che cantino in lingua originale, il cantante risponde finto piccato: "Se vuoi ascoltarci in italiano vai in Italia... che c... vuoi", mentre dal palco, piu' volte, rivolge un invito a tutte le ragazze che fossero interessate ai loro corpi di recarsi nei camerini una volta finita la performance ("Italians do it better" ricorda con orgoglio patrio).
Le cose sono andate molto bene anche sulla Costa Ovest dove il Los Angeles Times ha dedicato loro un articoletto e dove, ospiti del talk show radiofonico di Nasty Man, sono stati "bippati" per censurare qualche loro oscenita' ("E' incredibile: si poteva dire qualsiasi turpitudine ma non "fuck"", ci raccontano prima del concerto). "L'America e' una repubblica fondata sugli hamburger" e' la conclusione cui Elio e il fido tastierista Rocco Tanica sono giunti. Richiesti di un giudizio politico circa lo scandalo Sexigate, Elio non ha dubbi: "Secondo me Clinton ha fatto bene: gli americani sono liberi di pensarla come credono" e Tanica aggiunge "Noi che siamo i cantori dell'amore siamo vicini a tutti: siamo vicini a Lewinsky per prima, poi a Bill, a Hillary e anche a Chelsea e un po' al cane".
A un certo punto sul palco spunta un "Clapmeter" strumento di cartone per misurare il gradimento dell'audience: a seconda degli applausi Elio gira la lancetta dal minimo di "very bad" al massimo di "pizza", costantemente raggiunto. "Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l'Italia e' questa qua" canta il Poeta.
DA SENTIRE: LA TERRA DEI CACHI E LA CAREZZA DEL PAPA
Epilogo
Suono ancora, di rado, la chitarra. Ho soffiato decentemente dentro a un sassofono tenore, che da una vita prende polvere in una scatola a casa di mia madre. Il pianoforte è rimasto a casa di mia sorella. Poche cose divertono tanto quanto suonare insieme. Bisognerebbe tornare a farlo. Ma con chi?