#52 Imparare da quelli bravi
Il chatbot per parlare con la pubblica amministrazione; a Tallin la blockchain di Stato; la flexsecutiry i danesi la san fare; i villaggi Alzheimer in Olanda; i miti verdi di Gassman; The Card Counter
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Prologo
Il numero 52, per una cosa che esce ogni sette giorni, è un numero importante. Vuol dire un anno in cui, che piova o faccia bello, esce Lo stato delle cose. Chi me lo fa fare? Non so. Ogni tanto dubito. Ma poi finisco con Beckett: “I Can’t Go On. I’ll Go On”.
IN ESTONIA ARRIVA L’ALEXA DI STATO…
Nell’ultima Galapagos racconto del chatbot di Stato, in questo caso estone, che promette di dare l’ultima mazzata alla burocrazia, già ai minimi termini, per meriti tecnologici. Si potrà interagire con la Pa via voce:
L'intelligenza artificiale si chiamerà Bürokratt, che richiama la burocrazia ma anche i kratt, creaturine mitiche che servivano i padroni sin quando non si imbizzarrivano (gli estoni non sono siliconvallici e hanno presente anche il lato oscuro della Forza). I cittadini potranno interagirci con la voce, come una Siri o un'Alexa qualsiasi, e potranno «dettare un reclamo, chiedere permessi, rinnovare la carta d'identità, denunciare un incidente automobilistico o prendere in prestito libri» esemplifica il comunicato stampa. Già trenta agenzie pubbliche sono interessate ad adottarlo. Lo sviluppo del software, tra pubblico e privato, è costato sin qui 1,5 milioni di euro che nei prossimi quattro anni lieviteranno a 13.
…DOPO AVER AFFONDATO LA BUROCRAZIA COL BLOCKCHAIN
Sono tentato a prendere l’annuncio moto sul serio perché ho visto all’opera l’infrastruttura informatica che la rende possibile. Qualche anno fa, quando ero andato a Tallinn:
«Da noi» giura questo ex studente di Sciences Po con Enrico Letta che ha in mente di dottorarsi sulle disuguaglianze, «solo tre cose ancora non si possono fare online: sposarsi, divorziare e vendere o comprare casa». Il passaggio di proprietà dell’auto, invece, costa 48 euro e pochi clic. La pietra angolare del sistema è la carta d’identità digitale, introdotta nel 2002. È questo identificativo unico, lungo 11 cifre tra numeri e lettere, l’apriti-sesamo di tutte le porte della pubblica amministrazione. O mettete la carta, con il suo bel chip, in un lettore (se ne trovano in giro anche a 3 euro) da inserire in qualsiasi computer, oppure potete chiedere una particolare sim che mantiene il vostro numero di telefono ma aggiunge delle informazioni crittate che funzionano da firma digitale. Il pilastro dell’infrastruttura informatica si chiama X-Road, una piattaforma che permette di collegare in modo sicuro tra di loro anagrafiche pubbliche, banche, aziende elettriche e quasi un migliaio di altre entità. L’eleganza del sistema è che tendenzialmente non esistono duplicazioni: se qualcuno avrà bisogno della vostra data di nascita, inserita dall’anagrafe, non dovrà che linkarsi a quel dato, senza chiedervi di riscriverlo. Once-only lo chiamano, e chiunque abbia dovuto riempire centinaia di formulari con gli stessi dati sa cosa intendo. Infine, a garantire che ogni transazione si svolga correttamente, ci pensa il blockchain, ovvero la tecnologia che sta alla base dei bitcoin e delle altre criptovalute. La migliore metafora in cui mi sono imbattuto per spiegare questa cosa piuttosto complessa riguarda il lavoro a maglia. Come nelle sciarpe che ci facevano le nonne a partire da un unico gomitolo di lana il punto successivo dipendeva da quello precedente, senza interruzioni, qui c’è una specie di unico file che registra ogni singola manipolazione. Sai chi l’ha aperto e quando, se ha provato a modificarlo e con che esito. Resta traccia di tutto.
LA FLEXSECURITY DANESE, VISTA DA VICINO
Qualche anno prima, Monti presidente del consiglio, andava forte citare la flexsecurity. Che è una cosa che può funzionare ma solo se, oltre alla flessibilità in uscita c’è anche la serietà della formazione per entrare in qualche altro lavoro. Come fanno a Copenaghen, appunto:
Il centro al numero 15 di Ryesgade è un tassello esemplare della flexsecurity, quel misto di flessibilità in entrata e in uscita e di sicurezza sociale per cui il mercato danese del lavoro è celebrato. Lo schema, lontanissimo dal nostro, verso il quale il presidente Monti vorrebbe avvicinare il Paese impantanato nella guerra santa sull’articolo 18. E che in sostanza prevede, dietro il pagamento di un’assicurazione volontaria mentre si è assunti, una cospicua indennità nel caso di perdita del posto (fino al 90 per cento, per un massimo di 2000 euro, per un periodo che è stato di 7, 5, 4 e ora è di 2 anni). A patto però che il disoccupato dimostri di darsi da fare. Contattando almeno due potenziali datori di lavoro alla settimana. Facendo il punto ogni tre mesi con i consulenti dei jobcenter pubblici. E partecipando, dopo nove mesi, a sei settimane di formazione «attiva», come fa Benedicte e gli altri che incontro, con coach che cercano di individuare le falle nelle strategie di ricollocamento.
Bjork Hedelykke, sorridente ex-docente universitaria con una passione per l’Italia, è una di loro. «Le persone non sempre capiscono le proprie debolezze. Noi funzioniamo da specchio. E da motivatori. Dopo mesi di porte in faccia anche il più sicuro comincia a dubitare di sé». A sentire Jørgen Bang-Petersen, specialista della DA, la Confindustria danese, sarebbe un’evenienza rara: «Tra un quinto e un quarto dei danesi perde il lavoro ogni anno. Ma il 40 per cento lo ritrova entro tre mesi». Quelli che sono qui non sono stati così fortunati. L’ingegnere quarantenne Per Fly Hansen lavorava nelle telecomunicazioni. A febbraio 2011, due mesi dopo la nascita del suo primo figlio, l’hanno licenziato. Lui ha approfittato per dedicarsi al piccolo e ha cominciato a cercare da ottobre. «Pagavo una quota di circa 700 euro all’anno alla A-kasse, la cassa previdenziale, e i soldi che prendo ora sono circa un quarto del mio vecchio stipendio. Sin qui ho cercato, senza concitazione. Magari tra un po’ mi darò più da fare e sarò più di bocca buona». Sì, perché in teoria se ti offrono un lavoro non potresti rifiutarlo. In pratica, nei casi di mestieri molto qualificati, non ti puntano la pistola alla testa. Liv Johns era insegnante di sostegno per bimbi con deficit di attenzione. Poi è rimasta vittima di tagli. «Sto studiando da art therapist, per curare lo stress della gente con musica, pittura, danza. Non è banale cambiare carriera a 51 anni, ma non dispero». In mano ha una telecamerina che le hanno appena insegnato a usare. Nella società dello spettacolo digitale è un’alfabetizzazione che può venire utile. «Ci fanno anche corsi di Linkedin, la versione professionale di Facebook». Dalle 9 alle 14.30, cinque giorni alla settimana, per un mese e mezzo del periodo di «attivazione» questa diventa la loro seconda casa. Luminosa, allegra, con internet e caffè gratis.
OLANDA FINE DEL WELFARE? NOTIZIA DECISAMENTE ESAGERATA
Nel 2015 ero corso in Olanda sull’onda di un annuncio sconcertante: “Dimenticate il welfare come l’avete conosciuto” aveva avvisato il sovrano. Poi, ovviamente, il peggio di un campione è sempre meglio del meglio di un brocco. Come dimostrava il villaggio dell’Alzheimer che avevo visitato (qui anche un webdoc):
WEESP. Per chi non ha più la forza di vivere la propria, anche le più incespicanti vite degli altri possono diventare uno spettacolo ipnotizzante. A distanza di sicurezza, però, fuori dalla «zona disagio». Per questo i ponti sopraelevati di legno e vetro qui diventano i belvedere prediletti. Da dove una donna magrissima con una giacca a vento leggera e lo sguardo terreo fissa il lento brulicare di pazienti come lei. Che attraversano i giardini disegnati da Niek Roozen, celebrato artista botanico. O rientrano nei ventitré appartamenti arredati secondo uno dei sette stili di vita che accomuna i sei-sette abitanti di ogni lotto. Quello originario, almeno, prima che l’Alzheimer li rendesse pallidi fantasmi di sé stessi. Niente è lasciato al caso a De Hogeweyk, un ospizio fatto a villaggio per l’accoglienza dei malati neurodegenerativi a meno di mezz’ora da Amsterdam, ribattezzato il Truman Show dei dementi senili. Perché anche la cassiera del ristorante, che fa finta di niente per infondere negli ospiti un’illusione di normalità, è un’infermiera in borghese. Non si tratta, per il possibile, di un posto triste. Diciotto dei 19 milioni di euro che è costato sono andati sul conto dello Stato. In Italia i 5000 euro al mese di retta se li potrebbe permettere un milionario. In Olanda tutti, dal momento che paga la previdenza. Almeno sino al discorso del re che ha osato sfidare l’ultimo tabù: l’intoccabilità del welfare.
Per la rituale apertura dell’anno parlamentare il nuovo monarca Willem-Alexander non ha esordito con frasi di circostanza. Leggendo il testo scritto dal primo ministro liberale Mark Rutte ha invece avvertito il suo popolo che «lo stato assistenziale del XX secolo è destinato a sparire» e al suo posto i cittadini dovevano prepararsi all’idea «di prendersi la responsabilità della propria vita e di quella delle persone che li circondano». Goodbye welfare, hello «società partecipativa», qualunque cosa ciò significhi. Che è un po’ come se gli scozzesi annunciassero solennemente di rinunciare al whisky. Ma al di là dell’enorme valore simbolico del cambio di stagione, in pratica che tempo ci si dovrà aspettare nei Paesi Bassi?
GLI EROI VERDI DI ALESSANDRO GASSMANN
Alessandro Gassmann, figlio di una leggenda e attore di robusto successo popolare, è uno che dice quel che pensa. E negli ultimi anni pensa molto alle sorti del pianeta. Sul Venerdì cura una rubrica dedicata ai “greenheroes”, ovvero le aziende che fanno bene all’ambiente, facendo anche i soldi. L’ho intervistato sul libro che le raccoglie. Un estratto:
A proposito di Hollywood e ambiente: ha visto Don't Look Up?
«Certo, e mi è piaciuto. Sono contento che sia stato fatto un film su un tema così importante. Poi sul fronte cinematografico alcune cose non mi hanno convinto. DiCaprio è impegnato da tempo su questi temi e ha dato anche un sacco di soldi. Io comincio adesso, devolvendo integralmente il ricavato delle vendite, che spero saranno numerose, a piantare alberi».
Lei racconta di comportamenti esemplari, ma nella sua vita quotidiana come fa per essere coerente con questa predicazione?
«Ci provo, con tante piccole cose. Riutilizzo le borse della spesa. Uso bottiglie di vetro. Lampadine al led, ho messo infissi efficienti mangio poca carne e pesce di allevamenti non troppo intensivi (niente più tonno, che pure ho pubblicizzato in passato). E ho in affitto un'auto ibrida che per il momento costa più cara delle altre ma se i soldi del Pnrr fossero usati bene – purtroppo mi sembra che il ministro per la transizione Cingolani non ci creda abbastanza – i prezzi andrebbero giù».
Della lunga carrellata di testimonianze di cui il libro è composto quali l'hanno colpita di più?
«Difficile scegliere ma direi i Negozi leggeri, quelli che vendono un sacco di prodotti sfusi. Biorfarm, l'azienda calabrese che ti consente di adottare alberi da frutta e ti spedisce a casa la frutta a prezzi molto convenienti, saltando la grande distribuzione. Orange Fiber, che produce la seta dagli scarti della lavorazione degli agrumi. La cartiera Pirinoli salvata dagli operai che riduce del 95 il consumo di acqua. Sul libro c'è un QrCode per localizzarle tutte».
DA VEDERE: THE CARD COUNTER
Ha un passato tremendo da dimenticare. Ha pagato in carcere e ha cercato una seconda possibilità sui tavoli verdi del poker. Poi il destino è venuto a bussare sulla sua spalla. The Card Counter di Paul Schrader (Apple+).
Epilogo
Nel giorno del suo compleanno regalate Lo stato delle cose a chi volete bene.