#49 Across the Metaverse
La corsa all'oro immobiliare virtuale; Web3 sarà ancora più Big (tech); il precursore italiano del metaverso, correva il 1996; Snow Crash; Godless
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Prologo
Non so se andrà così tutto l’anno ma tra chi scrive di tecnologia (e di economia) non sembra esserci altro argomento che metaversi, cripto-qualcosa (valute, nft, etc) e web3. È già partita una corsa all’oro che ricorda l’internet delle origini.
LA CARICA DEI PALAZZINARI VIRTUALI
A cominciare dalle speculazioni immobiliari digitali di cui scrivo in Galapagos.
A novembre scorso Republic Realm, un'azienda che si occupa di immobiliare digitale, ha comprato 4,3 milioni di dollari di appezzamenti nella piattaforma Sandbox. In quello stesso mese Tokens.com ne ha spesi 2,4 milioni per locali virtuali nel quartiere della moda di Decentraland, un'altra piattaforma.
Perché lo fanno, visto che quei medesimi quartieri son frequentati solo da un'avanguardia di smanettoni? Perché son convinti che presto si popoleranno e chi ha comprato per primo farà grossi affari a rivendere (lotti da 20 dollari nel 2017 oggi vanno sui 100 mila l'uno).
E l’Economist cita valutazioni dei fatturati che i vari metaversi potranno generare nel futuro prossimo tra l’1 e i 30 trilioni di dollari.
FINO A QUANDO ACCETTERANNO I NOSTRI RESI?
Essendo grande acquirente online e grande renditore mi chiedevo da tempo usque tandem Amazon non mi avrebbe comunicato di aver abusato della sua pazienza. Sono anni che chiedo numeri sul fenomeno ma l’azienda non li fornisce. Né lo fanno le decine di suoi concorrenti del commercio elettronico. Ma finalmente, sull’ecommerce in generale, una stima è saltata fuori grazie al lavoro di una collega dell’Atlantic: 15-30 per cento, anche di più sull’abbigliamento. Ne scrivo sul Venerdì in edicola:
La stima è ricavata da molteplici conversazioni con esperti del settore, inteso come commercio elettronico ma anche come logistica. Anzi, del suo sottoinsieme più rognoso che è la cosiddetta «logistica di ritorno». Perché una cosa è spedire da un singolo magazzino tante merci ad altrettante persone. Tutt'altra recuperare da innumerevoli abitazioni private, oppure da centri Dhl o da altri canali ancora, oggetti singoli che, una volta arrivati alla base, andranno aperti, puliti, ispezionati, valutati uno a uno. Per decidere se 1) rivenderli (a prezzo scontato) 2) donarli in beneficienza 3) mandarli in discarica. Sembrano strade molto diverse ma convergono in un'unica domanda: quale soluzione costa meno? Se la merce è un vestitino da 25 dollari e il costo medio della gestione del reso varia, secondo un'altra stima, tra i 10-20 dollari al netto di quelli di spedizione, allora conviene addirittura lasciarlo alla cliente insoddisfatta, che ci faccia quel che crede senza dover mettere in moto questa macchina infernale. Quanto alla beneficenza sembrerebbe l'ipotesi più sensata se non fosse che, come insegnano gli esperti di marketing, si rischia la «diluizione del marchio» che non ci fa bella figura se si sparge la voce che cose care vengono regalate. Ed è così che, per quanto socialmente discutibile (che senso ha distruggere cose quasi nuove?) e ambientalmente orripilante (tipo le fosse comuni di tv e tablet), una discreta percentuale (si parla del 25 per cento) di resi finisce in discarica. L'ultima quota che proviamo a quantificare è quella delle frodi. Per Tim Brown del politecnico Georgia Tech, sempre dall'Atlantic, si aggirerebbe tra il 5-10 per cento.
IL WEB3? SARÀ BIG TECH, MA ANCORA PIÙ BIG
Ma di cosa parliamo di quando parliamo della prossima release del web? Se ne occupava una Galapagos recente:
L'attuale versione 2.0 è quella in cui piattaforme provano a offrirci un "ambiente a servizio totale" dove passi la mattinata su Gmail o Google Drive per cose di lavoro poi fai una pausa cazzeggiando sul tuo telefono Android quindi esci usando Google Maps per arrivare a destinazione e a sera ti guardi un bel film su Youtube. Per quale motivo Google, si chiede Cecilia D'Anastasio su Wired, dovrebbe aprire il suo molto redditizio giardinetto recintato per fonderlo in una meta-piattaforma sotto il cui ombrello starebbero anche Amazon, Apple e tutte le altre aziende che han provato, ognuna a suo modo, a costruire una specie di allegra e volontarissima "istituzione totale"? «L'interoperabilità richiederebbe a queste aziende di rinunciare al controllo sui propri formati o altrimenti di abbracciare formati nuovi, open source» osserva nel medesimo articolo il venture capitalist Matthew Ball. E chi glielo fa fare? La versione 3.0 del web, oltre a essere immersiva, via realtà virtuale o aumentata e a preponderanza di intelligenza artificiale, dovrebbe essere soprattutto decentralizzata. Ovvero molto più simile all'anarchia degli esordi internettiani che ai monopoli odierni. Conclusione: «Connettere più servizi affinché possano raccogliere i nostri dati, seguirci e dominare la nostra attenzione ancor di più probabilmente renderà il mondo peggiore, non migliore. Almeno per quelli di noi che non sono vicepresidenti di Meta o Microsoft».
IN PRINCIPIO FU THE CITY
Il metaverso come città virtuale fu realizzato, in una sua forma embrionale, in Italia agli esordi del web. Fu un’idea di Paolo Ainio e Carlo Gualandri (resa possibile da Marco Benatti), due pionieri assoluti dell’internet italiana di cui gli anziani cronisti come me custodiscono la leggenda. Ho recuperato dai miei archivi il pezzo che scrissi nell’aprile del 1996 sul mensile Reset, sempre sia lodato.
I pubblicitari vendono sogni ma non li comprano da nessuno, neanche in stagione di saldi sfacciati . Dopo due ore di sganassoni di salutare realismo, la chiacchiera spavalda sulle mirabilia di Internet esce con i connotati irriconoscibili: «I media digitali? Tra poco ci saranno, per ora sono un’idea un po’ fideistica: c’è una grande differenza tra possibilità e realtà». E le preoccupazioni sul suo destino pubblico o privato vengono polverizzate con un interrogativo sfrontato: «La Rete può pensare di esistere senza un apporto pubblicitario?» Non chiamatelo cinismo, in gergo ha una definizione onesta: reality check. Tre condizioni sono imprescindibili: affinché ci possa essere la pubblicità online ci vuole prima il media digitale, affinché ci sia un media siffatto ci vuole un pubblico disposto a servirsene, affinché ci sia un’utenza disposta a pagare per utilizzarlo si devono offrire dei contenuti. Più una: senza soldi si fa solo dell’accademia.
Marco Benatti sa di quel che parla, ma anche se così non fosse probabilmente riuscirebbe a convincere: è a capo della Blue Group, branca italiana della CIA Media network, una finanziaria quotata in borsa a Londra che si occupa di pubblicità. Gestione dei media, progettazione delle campagne, analisi della redditività; roba grossa per fatturati granitici: 4000 miliardi in Europa, 1000 nel nostro Paese. Carlo Gualandri è più giovane ma non sembra meno navigato: guida, assieme a Paolo Ainio, Matrix, nella quale Blue Group ha una grossa partecipazione. Società di recente costituzione con un compito strategico: organizzare e costruire i media digitali. Lavoro di concetto, di grande sofisticazione: ma ogni slancio, ogni entusiasmo che il pionierismo digitale accende è passato due volte nell’acqua gelida dell’analisi costi/benefici. Il catechismo del pubblicitario poggia sempre accanto al modem: «il cliente deve vendere un prodotto e noi siamo qui per aiutarlo». Reality check.
«Le aziende hanno bisogno di un media digitale per stabilire un contatto diretto con il consumatore, per veicolare una campagna personalizzata – dichiara Gualandri –: subiscono la pubblicità attuale, quella che in 30 secondi o in una pagina di quotidiano violenta un messaggio». «La Zanussi non sa chi compra i suoi frigo, lo sa invece il suo distributore: per razionalizzare questo circuito d’informazioni di importanza industriale strategica, i media online potrebbero funzionare meglio di qualsiasi altra cosa». Uno strumento economico: «La pubblicità in Italia vale 10.000 miliardi, e il suo indotto altri 10 (marketing, mailing list, etc): questi costi crollano on line, se organizzo bene il mio messaggio è il cliente che mi viene a cercare, visitando il mio sito Web; e ogni suo passaggio potrà darmi qualche preziosa notizia su di lui». Un primo profilo del navigatore ad esempio è già noto al service provider, al momento dell’abbonamento. Per usufruire di certi servizi che i singoli siti mettono a disposizione poi si dovrà passare per una piccola registrazione che lascerà ulteriori tracce della fisionomia del potenziale cliente. «Lo stadio finale della quadratura del cerchio del meccanismo commerciale è quello in cui si potrà concretizzare l’acquisto – le cui motivazioni sono maturate online – sulla rete stessa» profetizza l’uomo Matrix.
Ma è un messaggio nuovo e sofisticato quello che questo medium esige: «Per attirare qualcuno sul mio sito multimediale devo escogitare servizi supplementari da regalare a chi mi visita: una ditta automobilistica può presentare un museo dell’auto, istruzioni utili per la manutenzione, la possibilità di entrare a far parte di un club con la possibilità di vincere dei premi e così via». In questa fase di invalvolamento telematico, la curiosità infantile dei pionieri della Rete li porta a «sparare» su tutto quello che si muove, ma ben presto, con il moltiplicarsi dei bottoni cliccabili, si dovrà fornire un buon motivo per schiacciarne uno anziché un altro. «Adesso, anche per molte società pubblicitarie, quelle online sono operazioni “prendi i soldi e scappa”: una campagna su supporto Internet costa poche decine di milioni, nell’euforia degli albori, basta esserci, poter accludere ai propri indirizzi anche quello con la chiocciolina o la tripla w. Questa fase però svanirà in men che non si dica».
Marco Benatti imposta un paragone: «Il 1995 per l’online è come il 1979 per la televisione commerciale: ovvero l’anno prima della razionalizzazione dei network commerciali. Senza entrare nel merito politico della vicenda è un fatto che nel 1980 Berlusconi organizzò l’offerta in un mercato con una domanda insoddisfatta: in 10 anni la pubblicità è passata da 1000 a 10.000 miliardi di fatturato».
«Nessuno scenario apocalittico: la pubblicità sui media tradizionali continuerà a fornire status e credibilità ma il rapporto diretto si riverserà sui media digitali. È un cambiamento che prenderà del tempo: se già nel 2000 un milione di famiglie italiane fosse online non ci potremmo lamentare. Ma bisognerà semplificare al massimo l’utilizzo della tecnologia: la gente è pigra, quando l’orario sul videoregistratore salta per qualche motivo, resta sullo 00:00 per il resto della vita». «Comunque la cultura si sta modificando anche da noi: i ragazzi cominciano a studiare anche sui cd-rom, le aziende iniziano a sperimentare le comunicazioni interne su rete (intra-net). Una cosa importante è non lasciarsi prendere dalla “sindrome da depliant”: chi capita sul sito del nostro cliente deve lasciarlo più ricco di qualcosa, anche solo di “voglia di”. E allora l’azienda dovrà parlare dei propri valori (la mission), potrà far vedere cosa fanno i concorrenti, premiarti se ritorni più volte facendoti scaricare gratuitamente un video-gioco o altro: insomma, tutte le forme di fidelizzazione classiche declinate in chiave elettronica e interattiva».
«A giudicare dalla pubblicità nostrana che si vede oggi in Rete non molti si sono impadroniti di questo nuovo paradigma: sembra che le campagne le preparino piuttosto gli informatici, senza neppure passare dal responsabile della comunicazione. Alla Nestlé ad esempio si sono accorti del rischio di figuracce: hanno diramato recentemente una circolare che impone che ogni iniziativa elettronica passi dalla supervisione del quartier generale».
La risposta della Blue Group/Matrix alla frontiera della comunicazione digitale ha un nome: The City. Una città virtuale, la cui infrastruttura è quasi ultimata, con centri commerciali, edicole, agenzie di viaggio e tutto il resto. Con degli spostamenti semplicissimi, cliccando sulle icone che rappresentano i diversi edifici, si potrà venire in contatto con una vasta serie di offerte: se volete andare in Patagonia per le ferie natalizie, valuterete comparativamente le offerte delle diverse compagnie di viaggi che avranno affittato uno spazio nei locali immateriali della «città». E se, per affrontare la spedizione ci sarà bisogno di un abbigliamento o un’apparecchiatura particolare, troverete dei rimandi ipertestuali a ditte che vendono quel prodotto. E per rendere gradevole e utile la frequentazione di questa località cibernetica, Benatti e Gualandri hanno già pensato di fornire notizie generaliste, giudizi sui ristoranti, recensioni di film e altre pillole di informazioni. I locali sono ancora sfitti, ma non lo resteranno a lungo; la segnaletica per questo futuribile microcosmo commerciale non si troverà agli angoli delle strade ma sulle pagine dei giornali o in televisione: Aperti 24 ore su 24, anche la domenica, all’http://www.thecity.it. Buon acquisto a tutti.
DA LEGGERE: SNOW CRASH
Neal Stephenson è il Quentin Tarantino della fantascienza: con grande impertinenza ha alzato la posta del genere.
The Village Voice
DA VEDERE: GODLESS
Western esistenziale con tutti i fondamentali a posto e anche di più. Grandissimo Jeff Daniels cattivo. Super anche lo sceriffo quasi cieco che però ha le idee molto chiare. Godless (Netflix) disseta in un periodo in cui la confusione tra bene e male è così alta.
DA SENTIRE: ACROSS THE UNIVERSE
Capolavoro che ci sta sempre bene, qui per assonanza.
Epilogo
Smettete di prendere appunti su carta. Costruitevi un archivio digitale. Curatelo. Siete sempre in tempo. Tutto il resto, fatalmente, va perduto. Lo insegna Paolo Conte, di cui ieri ricorreva l’85simo compleanno: «Questa memoria è labile/non me la ritrovo mai/ma se riesco a ricordarmene…».