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Prologo
È stato un anno di timida ripresa. Ho ricominciato un po’ a viaggiare ma la normalità è un altra cosa. Andrà meglio il prossimo. Di seguito un’idiosincratica top ten.
1. L’EUTANASIA CON VENT’ANNI DI ANTICIPO
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Amsterdam. Immaginate la scena. Tavola apparecchiata, molti amici intorno a un tavolo, bicchieri che tintinnano in brindisi senza convinzione. Un medico prende la parola. Silenzio. Spiega quali saranno le prossime tappe. Il padrone di casa ascolta e annuisce. Al termine il dottore chiede conferma: «Sono stato chiaro?». «A proposito di che?» risponde il paziente.
«Per noi amici» mi dice Eugene Sutorius, uno dei padri della legge sull’eutanasia approvata in Olanda vent’anni fa, nel salotto che dà su un canale del vitalissimo quartiere Pjip, «è stato orribile. Ma il medico non era turbato: “È normale che prima capisse e che ora si sia dimenticato”». Tre settimane dopo, come da programma, l’internista gli aveva iniettato un mix di valium e pentobarbital. L’amico aveva sessantotto anni e una diagnosi di demenza risalente a sei mesi prima. L’aveva fatta finita troppo presto? E possiamo essere sicuri che l’avesse voluto, dal momento che, buttato giù l’ultimo bicchiere di Pinot non si ricordava nemmeno cos’era successo quando la bottiglia era stata stappata?
Sono solo due delle decine di dilemmi morali, tutti terribilmente legittimi, che qui in Olanda neppure due decenni di pratica sono riusciti a sciogliere. All’inizio si trattava solo di scorciare di ore o giorni la vita di malati, terminali ma lucidi, per evitare loro sofferenze inutili. Mentre ora la decisione può riguardare anche persone che potrebbero avere ancora davanti a sé mesi o anni verosimilmente vissuti senza saper distinguere il sì dal no. Siamo nel posto giusto, insomma, per provare a capire di cosa potremmo trovarci a discutere nel 2041 se il referendum sulla legalizzazione (auspicabile per il cronista che gioca a carte scoperte) passerà anche da noi.
2. NFT, FUTURO DELL’ARTE O PRESENTE DELLA FINANZA?
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NEW YORK. Questa è, prima di tutto, una storia di soldi. Di come si produrrà valore in un futuro che è già tra noi. Poi c'è l'arte, la tecnologia, il diritto, l'utopia, ma vengono dopo. A cominciare dal luogo scelto per l'appuntamento da Colborn Bell, co-fondatore del Museum of Crypto Art, il primo del suo genere. Siamo nel caffè dell'hotel Baccarat la cui stanza media, segnala Google Maps, va sui 1112 dollari a notte. Sospetto che anche il suo cappottino rosa, a pelo lungo, sia un pezzo di pregio mentre riconosco al polso il braccialetto Love di Cartier in vendita sui 7000 dollari. Ma questo è niente rispetto alla celeberrima quotazione di un mosaico digitale di Beeple, uno che gioca nello stesso campionato, battuta da Christie's qualche mese fa per 69 milioni di dollari, la quotazione più alta di artista vivente dopo Koons e Hockney. L'evento che tutti gli intervistati finiranno per citare come quello che ha obbligato il mondo a «prestare attenzione». In altri termini il vero Big bang degli nft (non-fungible token), gettoni non fungibili, ovvero quei certificati ancorati alla blockchain – lo stesso registro che rende scambiabili le criptovalute – che in questo caso stabiliscono a chi appartiene l'opera d'arte. Cioè, al netto degli inevitabili tecnicismi, l'argomento di quest'articolo in cui cercheremo di capire se l'esoterica sigla è il futuro dell'arte, il presente della finanza, entrambe le cose o nessuna di queste.
3. TRA I FANTASMI DI UTØYA
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UTØYA (Oslo). Nell’isola del massacro c’è un sentiero dell’amore, una fettina di sterrato appiccicata tra il lago e una collinetta, che i fidanzatini adoravano perché al riparo dagli sguardi. Ma non dal metodo omicida di Anders Breivik che, dopo aver sterminato il grosso delle sue prede al chiuso della vecchia caffetteria, l’unico edificio in legno lasciato com’era il 22 luglio 2011 compresi i fori di pallottola nei muri, ne aveva finite a distanza ravvicinata una decina proprio qui. Ma sia questo luogo, Utøya, sia la storia di uno dei lupi solitari di maggior successo nella storia del terrorismo domestico, è lastricata di paradossi. Jens Stoltenberg, l’allora primo ministro norvegese che commentò a caldo la strage di 69 giovani qui e di 7 altre persone a Oslo, disse che Breivik, nella sua personale guerra civile contro l’islamizzazione del Paese, aveva trasformato «quel paradiso in terra in un inferno». Però evitò di identificare nei giovani laburisti (Auf), come lui era stato, le vittime di quella violenza atroce che invece sarebbe stata compiuta contro la democrazia e i suoi valori. E oggi, dopo infiniti dibattiti ed elaborazioni di lutti è ancora tabù dire le cose per come, all’evidenza, mi sembrano stare: ovvero che si trattò dell’attacco premeditatissimo e rivendicato in un farneticante manifesto di 1500 pagine di uno con “cacciatore di marxisti” tatuato sul braccio contro un’intera leva di giovani progressisti in quanto quinta colonna dell’invasione del Paese da parte dei musulmani. «Quel giorno ho perso i miei due migliori amici e mi son salvato per miracolo» mi dice Gaute Skjervø, vice presidente dell’Auf, che allora aveva sedici anni: «Sono furioso ma se lo dico gli altri partiti, compresi quelli al governo, mi accusano di giocare la “carta del 22/7”, ovvero strumentalizzare. È assurdo ma è così». Da qui parte il tentativo di scoprire se e come la Norvegia è cambiata a due lustri di distanza dal suo 11 settembre.
4. L’INVASIONE DEI GIGAYACHT
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Viareggio. Prendete i corrimano. Forgiati da un’officina locale, in acciaio tirato a specchio come solo nelle statue di Jeff Koons, di pianta ovale sedici centimetri per dieci. Hai l’impressione, stringendoli, che niente di male possa succederti. D’altronde se puoi spendere trecentomila euro per l’equivalente nautico del battiscopa domestico non sono troppe le cose che dovrebbero impensierirti. Difatti a bordo di questo gigayacht, che nel lessico familiare del cantiere Benetti che l’ha costruito sta a indicare quelli sopra i novanta metri, sembra che il criterio che abbia improntato le scelte dell’armatore sia quello di certi parvenus davanti a liste di vini troppo enciclopediche: «Voglio il più caro!». Di rilancio in rilancio la fattura finale è arrivata a 160 milioni di euro. A cui va aggiunto circa il 10 per cento ogni anno per manutenzione e rimessaggio, che è come se dopo aver comprato una casa da un milione continuaste a spenderne ottomila al mese di spese condominiali. Senza considerare la dotazione di arte contemporanea contenuta a bordo che, non di rado, supera il valore del contenitore. La circostanza più singolare, nota da tempo agli addetti ai lavori ma ancora largamente sconosciuta ai più, è che quasi la metà di queste navi di extra-lusso (il 44 per cento di quelle sopra i 30 metri costruite dal 2016 a oggi stando alla classifica di SuperYacht Times) vengono costruite in questa cittadina di sessantamila abitanti, equidistante da Lucca e Pisa, famosa per il suo carnevale e per un turismo balneare con uno sfolgorante passato. Nella quale, incidentalmente, è nato il vostro cronista che sin qui si era astenuto dal mettere a sistema gli aneddoti raccolti negli anni da amici e conoscenti. Fino al combinato disposto di un recente articolo del Tirreno sul «boom di richieste di superyacht» nonostante e anche a causa della pandemia e un altro sulla specializzata RobbReport dal titolo «Come questa cittadina toscana senza pretese è diventata l’epicentro del mondo dei superyacht» che hanno spazzato via le ultime resistenze. Ed eccomi in una trasferta che eccezionalmente non necessita né di albergo né di guardare le strade su Google Maps, per cercare di rispondere alla domanda: perché, potendo scegliere, tanti straricchi del pianeta vengono a farsi la barca proprio qui?
5. IN MORTE DI MOUSSA BALDÉ
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Torino. Mamadou Moussa Baldé viene selvaggiamente aggredito da tre italiani a Ventimiglia il 9 maggio. Non ha i documenti in regola e l’indomani lo trasferiscono nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino. Ne uscirà tredici giorni dopo senza vita per essersi impiccato con un lenzuolo nella cella di isolamento dove l’avevano trasferito per proteggere gli altri “trattenuti” da una psoriasi scambiata per scabbia. Arrivato in Italia nell’ottobre del 2016 era nato in Guinea, ventitré anni prima. Questa le versione stringatissima dei fatti. In un video su Sanremo News di un paio di anni fa si vede un bel ragazzo snello che dice che la pasta gli piace molto, la pizza no, è un calciatore e tifoso della Roma, musulmano, e il suo progetto è «studiare per trovare un buon lavoro e vivere bene». Dice anche di essere scappato dal suo Paese per problemi politici e che è contento di stare da noi perché ha finalmente avuto un «assaggio di come la vita può essere bella». Purtroppo le portate successive si riveleranno non all’altezza di quelle speranze. La sua è la storia di una metamorfosi rapidissima e incomprensibile: da vittima a colpevole a morto, in una struttura dello Stato, il tutto nell’arco di due settimane.
6. LOGISTICA E SINDACATO COME SPORT ESTREMO
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Piacenza. Il titolo di lavoro di questo articolo, a un certo punto, mi ha tagliato la strada manifestandosi sulla fiancata di un camion che rientrava alla base: «O così. O Pomì». Immaginate la scena. Ora di pranzo, 35 gradi che bruciano come 50, nello spiazzo davanti al Consorzio Casalasca di Rivarolo del Re, una grande fabbrica in mezzo al niente. Dove si lavora il pomodoro, l’”oro rosso” di Piacenza, un’ora a ovest da qui. Da stamattina presto seguo Roberto Montanari, dell’Unione sindacale di base (Usb), nei suoi incontri con addetti della logistica – magazzini, movimentazione, consegne – vera specialità di queste terre. È venuto a incontrare una decina di lavoratori, tutti africani, addetti alla pulizia delle centinaia di fusti impilati nel piazzale antistante lo stabilimento dove la polpa viene lavorata. Adesso che la cooperativa Mondial Work ha chiuso denunciano che da anni le loro buste paga segnano 4 ore quando in realtà ne lavoravano 8 o 12. Peccato che i contributi si calcolino solo sulle ore dichiarate. Malattia non pervenuta. Sotto inquadrati. Se vi sta bene è così, altrimenti altri proletari (nove su dieci stranieri, quindi ricattabili perché senza contratto salta anche il permesso di soggiorno) prenderanno il vostro posto «O così. O Pomì», insomma. Almeno fin quando qualcuno armato di machete prova a disboscare una giungla giuslavoristica fatta di finte cooperative, Iva evasa per milioni di euro, caporali e banditi vari da affrontare a brutto muso. Con una conflittualità che ormai tracima anche nei rapporti tra sigle. Con la Cgil in affanno che stigmatizza i modi duri dei sindacati di base. I Si (leggi: sindacato intercategoriale) Cobas in gran spolvero che danno dei venduti alla Cgil. E l’Usb che accusa i Si Cobas di difendere solo i propri iscritti. Il tutto tra audio imbarazzanti registrati di soppiatto, accuse di arricchimenti personali, minacce a mano armata di cutter. Il sindacato come sport estremo.
7. MUSK, IL MARZIANO
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Scartabellando tra la vita e le opere di Elon Musk un termine ricorre di frequente. Lo pronuncia il fondatore di Tesla e SpaceX davanti a un’aragosta fritta in inchiostro di calamaro quando chiede serissimo al suo futuro biografo: «Secondo te sono pazzo?». Ne dibatte anche con l’ultima moglie, la musicista precedentemente nota come Grimes, oggi ribattezzata c (il simbolo della velocità della luce), che si definisce «un ibrido tra una fata, una strega e un cyborg»: «Sono più pazzo io o sei più pazza tu?». Soprattutto la domanda non è suonata peregrina quando, dopo un improvvido tweet a mercati aperti in cui aveva detto che era pronto a ricomprarsi la sua azienda a 420 dollari ad azione (un numero sinonimo di cannabis, per tutta una serie di fumosi motivi che Wikipedia dettaglia), il titolo prima era stato sospeso per eccesso di rialzo, poi l’autorità di Borsa gli aveva fatto due multe da 20 milioni di dollari l’una destituendolo temporaneamente da presidente dell’azienda e infine i suoi consiglieri d’amministrazione gli avevano tolto Twitter per tre mesi. Come a un Trump qualsiasi. Volendo gli esempi potrebbero moltiplicarsi ad infinitum, ma il senso l’avete capito.
Se questo cinquantenne che si interroga circa il suo stato di salute mentale fosse l’artista più quotato del momento, ci sarebbero molti precedenti e nessuno scandalo. Ma si tratta dell’ingegnere, come gli piace definirsi, che ha deciso di rivoluzionare i trasporti privati e trasformare l’umanità in una specie multiplanetaria, apparecchiando su Marte il piano b per la Terra in rovina. Uno, per dirla altrimenti, che deve saper far di calcolo piuttosto bene ché altrimenti auto elettriche e razzi si schiantano. E che, sebbene si siano occasionalmente schiantati entrambi, il più delle volte ci riesce. Tant’è che nel frattempo le Tesla cominciano a essere avvistate anche sulle strade italiane, i razzi partono alla volta della stazione spaziale internazionale al ritmo di una volta al mese e lui, in tutto questo, ha per un momento scalzato Jeff Bezos dal trono di persona più ricca del mondo con un patrimonio personale di oltre 200 miliardi di dollari, il Pil della Nuova Zelanda. Se non proprio scioglierlo, cercheremo almeno di diradare il mistero dell’imprenditore più «visionario» (altro ricorrente anglismo, ormai sdoganato) in circolazione.
8. CHE FINE HANNO FATTO LE VITTIME DI TRAINI?
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Macerata. Che fine hanno fatto le vittime di Luca Traini? Non sembra esserci domanda più esotica nella città resa giornalisticamente celebre dalla «tentata strage aggravata da odio razziale» (così la Cassazione che ha confermato 12 anni di carcere) avvenuta il 3 febbraio 2018 per mano di un culturista di ventott’anni, candidato consigliere leghista con un “dente di lupo”, il logo nazista pre-svastica, inciso sulla tempia destra, e una libreria domestica essenzialmente composta dal Mein Kampf. Non lo sa l’ex sindaco («Immaginavo che fossero sistemati»). Risultano irrintracciabili per i loro avvocati d’ufficio. Lo ignorano gli sparuti avventori del mercato di piazza Mazzini. «Vittime? Non saprei, ma grazie a Dio sono rimasti solo feriti» dice un commerciante, infilandosi in un labirinto di distinguo che sfocia in un programma di Rete 4 dove avrebbe visto brutte scene di degrado con protagonisti altri immigrati. Tra i pochi ad aver preso sul serio l’interrogativo ci sono gli autori del documentario in lavorazione Fortunatamente non si è fatto male nessuno, citazione carpita a un passante in quei giorni di paura e delirio a Macerata. Perché, se è vero che servono migliaia di morti per far scrivere di Africa, sei neri presi a pistolettate e impunemente ancora vivi equivalgono a nessuno. Anzi, a niente. Non è successo niente.
Chiedo i contatti a Gianfranco Bòrgani, legale di gratuito patrocinio del maliano Mahamadou Toure, ma l’ultimo cellulare che rimedia fa scattare «numero inesistente». Per evitare un viaggio a vuoto lo prego di verificare coi colleghi che hanno difeso gli altri e mi dice che no, «probabilmente non stanno più qui, se ne sono perse le tracce», non possono aiutarmi. Fortunatamente Marcello Maneri, il sociologo curatore di Un attentato “quasi terroristico” (Carocci), sa che il regista Daniele Gaglianone sta lavorando sul tema. Lui e Damiano Giacomelli, il suo socio locale, hanno già filmato due vittime e stanno cercando di convincere una terza. Almeno metà del gruppo, quindi, non è dispersa per il Paese.
9. ASCESA E DECLINO DI MISTER FAKE NEWS
L'uomo che vendeva le ville a Leonardo DiCaprio e a Madonna. Il misterioso detentore dell’1 per cento di Fiat, dell’1,2 di Mediaset, dello 0,8 di Unicredit, lo 0,5 di Mediobanca, lo 0,7 di Generali, per citarne solo alcune. Il titolare del Fondo Caronte, quello che "le banche vi fanno fallire/noi no", che con la promessa di prestare soldi alle piccole imprese in difficoltà, finiva di rovinarle. Benvenuti nel fantastico mondo di Alessandro Proto, il Gran Sedicente. Uno dei falsari italiani di maggior talento dell'evo moderno. Il milanese con la terza media che si è spacciato per bocconiano e si è intortato legioni di giornalisti economici, ha manipolato la Borsa e fatto un po' di soldi nel frattempo. Alla sua strabiliante vicenda dedichiamo Il lupo di corso Buenos Aires, il podcast che potete ascoltare da oggi su questa pagina e sulle principali piattaforme di streaming.
10. NATALE IN CASA CALÒ
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Treviso. Un dettaglio rivelatore è la memoria assoluta dei compleanni. Non solo dei figli bianchi e di quelli neri come, senza troppe ipersensibilità linguistiche, li distinguono da tempo. E che in totale fanno comunque dieci persone. Ma anche dei figli dei figli neri che non chiamano nipoti solo per pudore, perché sono nati molto prima che loro entrassero in scena e perché sin qui li hanno visti solo in traballanti videochiamate su Whatsapp. Il bambino che nascerà a Siaka, invece, è un’altra cosa. Quando questo venticinquenne ivoriano l’ha annunciato emozionatissimo due settimane fa («Inshallah!»), ha detto proprio: «Diventerete nonni!». E nonni bis lo saranno anche grazie a Elena, sangue del loro sangue, incinta nel paesino da 900 abitanti della Val Venosta in cui vive. Il professor Antonio e l’insegnante neo-pensionata Nicoletta si guardano soddisfatti. Quattro anni fa erano diventati una copertina del Venerdì dal titolo: Accogliamoli a casa nostra. Ovvero la storia di come avevano trasformato una famiglia large (con quattro ragazzi) in una extra-large grazie all’aggiunta di altri sei rifugiati africani. Siamo tornati a vedere a che film assomiglia, oggi, il Natale in casa Calò. «A uno col lieto fine. Perché una volta sistemati, tutti con un lavoro e una casa, hanno potuto pianificare il futuro» dice fiero il professore di storia nella cucina della canonica in cui lui e la moglie si sono trasferiti.
DA VEDERE: DON’T LOOK UP
Di grana grossa quanto vi pare, ma pieno di trovate (su Netflix). E sì, La grande scommessa era meglio eccetera eccetera, però ha varie scintille di intelligenza. Che, come si sa, son piuttosto rare.
Epilogo
Nell’ultima Galapagos suggerisco un buon proposito a Big Tech: tanto per fare una cosa nuova, e non ripetere vanamente di voler «rendere il mondo un posto migliore», perché con l’anno nuovo non cominciate a pagare le tasse come tutti? Sarebbe una rivoluzione. Prima che quelli che le pagano già, a un certo punto, non si mettano in testa di farla loro.
La questione eutanasia presenta numerosissimi livelli di riflessione. Leggendo l'articolo mi si ripresenta un pensiero che covavo già da diverso tempo. Cosa succede quando capita a noi in prima persona di dover vivere una situazione analoga? Con lo sguardo esterno, sono assolutamente a favore. Ma con lo sguardo interno? Ancora non saprei rispondere.