#47 A lezione da David Foster Wallace
Anteprima di un corso di giornalismo narrativo e, per Natale, regalate “Lo stato delle cose”!
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Prologo
Con l’anno nuovo terrò un corso di giornalismo narrativo alla scuola Belleville di Milano. Intanto ho fatto una lezione di presentazione e la ripropongo qui. Se credete fatela girare a chi può essere interessato. E come regalo di Natale, per chi di voi non ha ancora provveduto, cosa c’è di meglio di Lo stato delle cose? Fate un figurone e non vi costa niente.
SCRIVERE DAL VERO: UN CORSO
Buonasera e grazie per essere qui. O meglio per essere lì, ognuno a casa sua, in quel malinconico surrogato di presenza cui quest'instancabile pandemia ci ha abituati.
Io mi chiamo Riccardo Staglianò, faccio il giornalista da un quarto di secolo abbondante e dopo questo non breve periodo di riflessione mi è venuto l'ardire di tenere un corso di scrittura dal vero, come recita il titolo. Spero vivamente di non avere a pentirmi di quella che, a uno sguardo distratto, potrebbe sembrare un'imperdonabile hubris.
Provo a spiegarvi il movente di quest'azzardo. Si da il caso infatti che la scrittura sia l'unica cosa che non insegnano nelle scuole di giornalismo italiane. Voglio dire, la insegnano incidentalmente, quando ti correggono i pezzi, ma in linea di massima al loro interno non sono previsti corsi dedicati allo stile. Almeno così era ai miei tempi, nell'altrimenti valoroso IFG Walter Tobagi di Milano ma, da una piccola istruttoria che ho fatto tra allievi del XXI secolo, questo buco di programmazione non sembra essere stato colmato. E a me, fervido sostenitore della continua perfettibilità dell'essere umano, sembra un peccato non veniale, un torto da riparare.
D'altronde una mancanza del genere qualcosa dice sulla gerarchia dei talenti necessari per fare questo mestiere. È un po' come se all'accademia di belle arti non si insegnasse il disegno. Il sottotesto è: scrivere bene non serve. Che, a giudicare da certe carriere, è anche fattualmente vero ma non per questo meno triste. Tagliando con la motosega, giornalismo è provare a capire le cose e raccontarle al meglio delle proprie possibilità. Rinunciare alla seconda metà del compito non è sacrificio da poco.
E ovviamente giornalismo è una vox media, una nebulosa molto ampia, che si qualifica solo con gli aggettivi. Comprende tanto il vicecaposervizio che non ha mai alzato il culo dalla sedia ma che garantisce che ogni giorno esca il giornale, quanto l'inviato che non ha mai toccato un titolo e viaggia cento giorni all'anno. E tutto quello che ci sta nel mezzo. Non instauro alcuna gerarchia tra queste categorie. Senza l'uno l'altro sarebbe inutile. Però qui parliamo di giornalismo narrativo, dunque quello in cui i fatti sono visti con i propri occhi e raccontati in reportage generalmente più lunghi e complessi di una breve in cronaca. Che hanno bisogno di una costruzione diversa per poter reggere. E quindi di uno stile più ambizioso per tenere il lettore dall'inizio alla fine.
Ecco, lo stile. È frutto di tante cose, inclusa purtroppo la genetica, ma sono convinto che il grosso venga dalle letture e da un'abitudine a pensare bene, in maniera chiara e pulita. Quindi ci si può lavorare. Soprattutto si può lavorare a ripulire la scrittura dalle scorie più radioattive: la sciatteria, il genericismo, i luoghi comuni, ma anche il lirismo malinteso, quello che lo spietato fuoriclasse Ezio Mauro chiamava "cattiva letteratura". Noi, in queste sette lezioni, parleremo di questo, lavoreremo su questo.
Soprattutto esponendo chi parteciperà al magistero di alcuni fenomeni. Persone che, pro quota, hanno cambiato il giornalismo facendogli perdere i complessi di inferiorità nei confronti della letteratura.
TOM WOLFE E L’ASSALTO AL ROMANZO
A partire da Tom Wolfe, teorico e iniziatore del new journalism negli anni 70. Il coltissimo dottorato in american studies che sembrava un teorico dell’ignoranza come premessa metodologica. Lui, doppiopetto bianco estate-inverno e scarpe bicrome fatte arrivare da Londra, si è intrufolato nelle officine lerce di morchia delle auto supertruccate (The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby, 1965), non ha sfigurato nei festini all’lsd degli hippy (The Electric Kool-Aid Acid Test, 1968) né in quelli alle ostriche dei radical chic (Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers, 1970), ha raccontato la discesa agli inferi del re dei broker di Wall Street (Il falò delle vanità, 1987) e la parabola epica di un palazzinaro della Georgia (Un uomo vero, 1998).
Che a questo proposito era capace di scrivere una scena come quella che sto per leggere, raccontando il giorno del giudizio in cui un sin lì riveritissimo palazzinaro incontra i dirigenti della sua banca per "rientrare" di vari mutui. Incontro che in poco tempo si rivela per quello che è: una trappola orchestrata da un plotone di esecuzione. L'estratto scelto appartiene al capitolo dal titolo The sandbags, le bisacce (di sudore). Prima c'è tutta la descrizione della «mascolinità vulcanica» di Charlie Croker, nonostante i sessant'anni, della sensualità delle due assistenti, una delle quali si chiama Peaches, pesche, a rimarcare la dolcezza della sua pelle.
C'è già tutta l'ossessione per lo status, uno dei quattro capisaldi del new journalism secondo Wolfe. Questa ragazza-trofeo che si permette di trattare con sufficienza Peepgass, uno dei dirigenti di banca, solo perché lei è nell'orbita di un pianeta più importante, il capitano Croker appunto. Non avendo ancora capito che razza di esplosione l'avrebbe mandato in frantumi. Segue la descrizione dello squallore della stanza scelta per l'appuntamento all'Ok Corrall, di quella sedicente colazione di lavoro dove però non c'era niente da mangiare e dove tutto gridava un'ostentata povertà che puntava all'umiliazione:
«Visto che l'avete convocata voi» continuò il Capitano, «tocca a voi spiegarne il motivo».
Pronunciò queste parole con un sorriso così rilassato che Peepgass cominciò a domandarsi se Harry sarebbe mai riuscito a produrre le bisacce.
«No, io voglio sapere se lei lo sa» disse Harry. «Consideri questa di oggi come una riunione degli Alcolisti Anonimi, Mr Croker. Adesso che la festa è finita, vogliamo che lei si faccia l'esame di coscienza. È vero, siamo stati noi a indire questa riunione, ma io voglio che sia lei a dirmi il perché. Di che si tratta? Quale problema dobbiamo affrontare?»
Peepgass osservò la faccia di Croker. Oh, adesso sì che veniva il bello, il momento in cui finalmente i pezzi di merda si rendono conto che le cose sono cambiate, che sono passati dalle stelle alle stalle (o meglio, sono ormai nella merda ).
Croker sbirciò in direzione di Harry, cercando di farsene un'idea, non sapendo bene come giocare le proprie carte. (I pezzi di merda non lo sanno mai), Ogni fibra mascolina della sua persona - e la persona di Charlie Croker era piena di fibre mascoline - avrebbe voluto mettere subito al suo posto quella testa di cazzo supponente, con decisione e senza indugi. Ma se la riunione si fosse trasformata in una rissa con tanto di insulti personali lui si sarebbe trovato nettamente in svantaggio. Quella supponente testa di cazzo avrebbe potuto dargli del filo da torcere. Era PlannersBanc ad avere tutte le carte in mano. La Planners Banc poteva chiamare altre sei banche più due compagnie di assicurazione che si sarebbero aggiunte alla lista dei creditori. La Croker Global aveva un debito con costoro di altri 285 milioni di dollari, per un totale di 800 milioni, 160 dei quali in cambiali di cui Croker doveva rispondere di persona.
«Be', siamo qui» disse Croker alla fine, «siamo qui» - (e se non lo sapete voi il perché, noi non possiamo farci nulla) – « per mettere mano alla ristrutturazione di questa cosa, e per quel che ci riguarda, siamo venuti qui con un buon piano aziendale studiato nei minimi particolari, che vi piacerà senz'altro».
Detto questo, tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, molto soddisfatto di sé. A quel punto Wismer Stroock e il resto della squadra, i consulenti finanziari, gli avvocati e i capidivisione, gli addetti alle pubbliche relazioni, Peaches e la sua collega si riaccomodarono nelle loro poltrone, più che mai soddisfatti di lui.
«Ma cos'è “ questa cosa"?» chiese l’Artiste. «Lei sta parlando di soluzioni, di un modo per uscirne fuori. Prima, però, dobbiamo sapere in che buco siamo finiti, perché sta diventando sempre più profondo, denso e fangoso. La Croker Global Corporation sta affondando nella melma. Lei sta scomparendo davanti ai nostri occhi, Mr Croker, come il continente sommerso. Prima che la perdiamo, ci dica di che melma si tratta.»
A quel punto Croker fece una cosa che, a quanto ricordava Peepgass, nessun altro pezzo di merda aveva mai osato fare. Si alzò in piedi, senza guardarsi intorno, come se nella stanza non ci fosse nessuno. Era una montagna d'uomo! Si tolse la giacca - e il suo petto si gonfiò in due protuberanze. Si sbottonò i gemelli e si arrotolò le maniche della camicia - i suoi avambracci sembravano due prosciutti cotti. (Peepgass aveva visto forme intere di quei prosciutti nei cataloghi natalizi delle vendite per corrispondenza che riceveva, come tutti i possessori di una carta di credito nell'area metropolitana di Atlanta). Allentò la cravatta e sbottonò il collo della camicia - e il suo collo possente si gonfiò, finché non parve tutt'uno con i suoi trapezi. Poi inarcò la schiena, si stiracchiò e si pavoneggiò per mostrare ai presenti i deltoidi e i latissimi dorsi, che a loro volta si gonfiarono sotto la camicia. Infine tornò a sedersi. I suoi tirapiedi, Peaches e tutti gli altri, si alzarono, per sedersi di nuovo insieme a lui.
«Allora» disse Charlie Croker con gli occhi ridotti a due fessure, il mento in alto e una smorfia di disgusto da cui si capiva che la sua capacità di sopportazione era giunta al limite, «lei ha detto qualcosa riguardo a... alla melma?»
A Peepgass il cuore batteva ancor più veloce in petto. La Battaglia Tra Maschi era in pieno svolgimento.
E andrà avanti, in una specie di corrida aziendale, fino a quando, banderilla dopo banderilla infilzata sul suo groppone dal castigatore (l'Artista dell'umiliazione altrui che ha bretelle con motivi di teschi e ossa incrociate) il tycoon fa finta di niente ma è il suo corpo a tradirlo, a cedere, il suo sistema nervoso centrale non sa fingere e quindi:
Le piccole falci di sudore sotto le braccia del tycoon, notò Peepgass, erano ormai diventate due mezzelune piene...
Ecco, al netto della mascolinità vulcanica degli anni 90 che forse oggi si tradurrebbe come mascolinità tossica, e un certo gusto quasi anni 80 – alla Gordon Gekko che dice "buono l'odore del napalm alla mattina" assaporando un sigaro – questo era il modo in cui Tom Wolfe raccontava una scena.
FOSTER WALLACE, DEL DIVERTIMENTO INFINITO
Per proseguire con David Foster Wallace, quello con il cervello così strabiliante che mentre scriveva sembrava si sentissero gli ingranaggi che si muovevano, l'uomo che ci invitava ad assaporare la noia, attimo per attimo, e poi non riusciva ad apprezzare la vita luminosa che aveva costruito, con una neo-moglie amata, una fama globale e tutto il buono che sarebbe venuto. Il virtuoso delle note a pie' di pagina, l'umorista depresso, il fluviale scrittore di fiction e l'icastico cesellatore di non fiction memorabili, l'essere umano che empatizzava anche con le aragoste. Ed è proprio la raccolta che prende il nome da questo crostaceo che ha cambiato in modo definitivo la mia maniera di guardare al racconto dal vero e spero cambierà anche il vostro. Per tanti ottimi motivi che, se mi obbligassero a farlo con una pistola alla tempia, ridurrei a uno solo: una sconcertante sincerità. Che significa mettere in piazza i propri dubbi rispetto alla realtà che si racconta perché solo i giornalisti stupidi sono sicuri di avere interamente capito l'argomento di cui si occupano, almeno quando ciò che raccontano non sia retto dalle leggi della fisica newtoniana quanto piuttosto dal capriccio degli esseri umani.
A questo proposito Forza, Simba!, un reportage scritto nel 2000 al seguito del candidato presidenziale John McCain, essenzialmente si propone di capire se si poteva credere o no alla sua dichiarazione che correva non per ambizione personale ma per il bene del Paese. Sentite come lo diceva lui (nella traduzione di Adelaide Cioni e Matteo Colombo, dura qualche minuto ma se non vi piace pago io un aperitivo per tutti i delusi):
La totalità degli articoli e i servizi televisivi su McCain citano il fatto che ancora oggi non riesce ad alzare le braccia sopra la testa per pettinarsi, ed è vero. Voi però cercate di figurarvelo all’epoca, immaginate di trovarvi nei suoi panni, perché è importante. Pensate a quanto diametralmente opposto al vostro interesse personale sarebbe beccarsi una coltellata nelle palle e farsi ricomporre delle fratture senza un’anestesia generale, poi essere gettati in una cella a non fare altro che stare lì e soffrire, perché fu esattamente quello che successe.
McCain trascorse diverse settimane perlopiù a delirare per il dolore, e il suo peso scese a quarantacinque chili, e gli altri prigionieri di guerra erano sicuri che sarebbe morto; poi, dopo aver resistito così per vari mesi e dopo che le sue ossa si erano rinsaldate alla bell’e meglio e riusciva più o meno a stare in piedi, lo andarono a prendere, lo portarono nell’ufficio del comandante, chiusero la porta e di punto in bianco si offrirono di liberarlo. Dissero che poteva semplicemente... andarsene. Venne fuori che l’ammiraglio della Marina statunitense John S. McCain II era appena stato nominato capo di tutte le forze navali nel Pacifico, Vietnam incluso, e i nordvietnamiti volevano realizzare un colpaccio diplomatico liberando generosamente suo figlio, il piccolo assassino.
E John S. McCain III, quarantacinque chili e in grado a malapena di stare in piedi, declinò l’offerta. A quanto pare il Codice di condotta per i prigionieri di guerra diceva che i prigionieri andavano liberati nell’ordine in cui erano stati catturati, e c’erano altri che si trovavano a Hoa Lo da molto più tempo, e McCain si rifiutò di violare il Codice. Il comandante della prigione, per nulla soddisfatto, gli fece rompere le costole, ri-rompere il braccio e buttare giù i denti dai secondini, il tutto lì nel suo ufficio. Ma anche così, McCain si rifiutò di andarsene senza gli altri prigionieri. Lasciate perdere i film in cui succedono cose del genere e provate a immaginarlo come qualcosa di reale: un uomo senza denti che rifiuta di farsi liberare. McCain a Hoa Lo ci passò altri quattro anni, quasi sempre da solo, al buio, in una speciale scatola grande quanto un armadio chiamata «cella punitiva». Forse questa storia l’avete già sentita; quest’anno è finita in un numero imprecisato di articoli e servizi su McCain. È sovraesposta, sono d’accordo. Ma prendetevi lo stesso uno o due secondi per fare un po’ di visualizzazione creativa, e immaginate il momento intercorso tra quando John McCain si vide offrire la liberazione anticipata e quello in cui la rifiutò. Cercate di immaginare se al suo posto ci foste stati voi. Immaginate con quanta forza il vostro più basilare, primordiale interesse personale avrebbe gridato in quel momento, e tutti i modi in cui avreste potuto razionalizzare il fatto di accettare l’offerta: che differenza poteva fare un prigioniero di guerra in più o in meno? Poi forse accettando avreste dato agli altri prigionieri una speranza e li avreste aiutati ad andare avanti, e insomma, pesate quarantacinque chili, tutti pensano che morirete da un momento all’altro, e di sicuro il Codice di condotta non si applica quando uno ha bisogno di un medico o altrimenti rischia di morire, e se riuscite a sopravvivere, uscendo di lì potreste promettere a Dio che d’ora in poi non farete altro che il Bene più assoluto, e renderete il mondo un posto migliore, perciò per il bene del mondo è meglio accettare che rifiutare, e forse se papà non dovesse preoccuparsi delle ripercussioni su di voi qui in prigione potrebbe portare avanti la guerra in modo più aggressivo e concluderla prima e quindi risparmiare vite perciò sì forse potreste effettivamente salvare delle vite se accettate l’offerta e uscite vs. a che scopo stare qui in una scatola a farsi picchiare a morte e a proposito oddio immaginatevelo un dottore vero e una vera operazione con gli antidolorifici e le lenzuola pulite e la possibilità di guarire e finire quest’agonia e rivedere i vostri figli, vostra moglie, sentire il profumo dei capelli di vostra moglie... Riuscite a sentirlo? Cosa succederebbe nella vostra testa? Avreste rifiutato l’offerta, voi? Ci sareste riusciti? Non potete averne la certezza. Nessuno di noi può averla. È difficile persino immaginare il livello di dolore e paura e desiderio in quel momento, figuriamoci sapere come avremmo reagito. Nessuno di noi può saperlo.
Eppure, vedete, noi come reagì quell’uomo lo sappiamo. Sappiamo che scelse di passare altri quattro anni in quel posto, quasi sempre in una scatola buia, da solo, battendo sui muri per mandare messaggi agli altri, piuttosto che violare un Codice. Forse era pazzo. Il punto però è che, nel caso di McCain, uno ha la sensazione di sapere, come fatto dimostrato, che lui è capace di consacrarsi a qualcosa di diverso, qualcosa di più del suo interesse personale. Tanto che oggi, quando nei discorsi pronuncia quella frase, uno ha la sensazione che forse non si tratta solo dell’ennesima fuffa da candidato, che detta da questo tizio forse è la verità. O che forse è la verità, ma anche fuffa. In fin dei conti questo signore vuole il vostro voto.
Comunque sia, quel momento nell’ufficio di Hoa Lo nel ’68 – un attimo prima che John McCain rifiutasse, con tutto il suo basilare, primordiale, umano interesse personale che gli ululava dentro – quel momento è difficile da cancellare. Per tutta la settimana, attraversando il Michigan e il South Carolina e il tedio e il cinismo e i paradossi della campagna elettorale, quel momento sembra sottendere l’espressione «più grandi dell’interesse personale», ancorarla, fornirle una sorta di riverbero profondo difficile da ignorare. John McCain è un eroe autentico, dell’unico genere che il Vietnam può forse offrire, un eroe che è tale non per ciò che ha fatto, ma per ciò che ha sofferto, volontariamente, in nome di un Codice. Questo gli conferisce l’autorità morale necessaria tanto a parlare di cause che travalicano l’interesse personale quanto ad aspettarsi che noi, perfino in quest’èra di manipolazioni e scaltrezze avvocatizie, gli crediamo.
Io dopo aver letto questa cosa qui ero dilaniato tra due pulsioni opposte: cambiare mestiere per manifesta inferiorità o impegnarmi di più. Dal fatto che sono ancora qui potete desumere quale vocina interiore abbia prevalso.
CARRÈRE, DEL DENUDAMENTO INTEGRALE
La terza lezione sarà dedicata a Emmanuel Carrère. Sì, proprio del maestro indiscusso dell'intersezione letterariamente molto fruttuosa in cui la realtà fa il salto di specie per superare, quanto a meraviglia, la finzione. Che sia il bugiardo seriale Romand in L'avversario, il fascio-futurista russo Limonov, i sopravvissuti allo tsunami in Sri Lanka di Vite che non sono la mia, i segreti della sua famiglia (con tutto quel che comporterà metterli in piazza) in Il romanzo russo o la folgorante biografia di Philip K. Dick in Io sono vivo, voi siete morti non ho mai conosciuto (nel senso di letto) nessuno che sappia estrarre e valorizzare altrettanto l'elemento letterario nascosto nelle pieghe della quotidianità.
A un certo punto, con la moglie da cui si è poi separato molto amaramente (con accuse spiacevoli ma alla fine irrilevanti anche sulla veridicità di quel che ha scritto in Yoga, l'ultimo libro), va a Davos, il ritrovo annuale dell'élite globale per un reportage che inizia così:
Davos non è certo il posto in cui uno si aspetta di vedere una rissa per strada, tantomeno durante il Forum economico mondiale. Eppure, quando siamo usciti da un bar in cui allo scoccare delle tre del mattino un gruppo di giovani banchieri festeggiava la decisione di costituire insieme un hedge fund (è il genere di cose che fanno i giovani banchieri quando sono ubriachi), ci siamo imbattuti in due tipi in giacca e cravatta che se le stavano dando di santa ragione. Niente di serio, i due erano grandissimi amici e si sono presto riconciliati. Raccontiamo questo episodio per il comportamento singolare di un testimone, un cinese sui trent’anni che si è avvicinato ai litiganti, con gentilezza ha picchiato sulla spalla di uno dei due per attirare la loro attenzione e, una volta ottenutala, ha raccolto dal marciapiede una manciata di neve dopo l’altra cominciando a gettarsele sistematicamente in faccia. Una manciata, due manciate, tre manciate, e mentre si bersagliava di neve da solo sorrideva con una dolcezza che ha disorientato i due contendenti al punto da far dimenticare loro la lite. Ci è sembrato che quella mossa sconcertante e la sua non meno sconcertante efficacia esprimessero lo Zen nella sua essenza, e tornando in albergo abbiamo immaginato l’uso che se ne potrebbe fare in conflitti più gravi.
Il giorno dopo pranziamo in un ristorante locale in cui Félix, che fra poco presenteremo, è riuscito ad agganciare Jean-Claude Trichet per la nostra prima intervista. L’ex presidente della Banca centrale europea è un uomo posato e distinto, e ci dice con estrema gentilezza che abbiamo cinque minuti.
Prima domanda: «Se fossimo venuti qui nel 2007 avremmo certamente intervistato qualcuno che prevedeva la crisi imminente dei subprime, dei quali noi non sapevamo nulla. Non conoscevamo nemmeno la parola. Allora ci chiediamo: quale sarebbe oggi l’equivalente? Ciò che noi non sappiamo e che, forse, lei sa?».
Lo sguardo incredibilmente limpido di Trichet si fa indagatore, non è chiaro se trova la domanda stupida o se invece la ritiene tosta; fatto sta che si alza e ci dice che sarebbe meglio rivedersi a Parigi per un’intervista da condurre secondo regole concordate preventivamente. Detto questo scompare, e quasi nello stesso istante la sua sedia lasciata vuota viene occupata dal cinese del giorno prima, quello che disinnesca i conflitti gettandosi la neve in faccia. Per quanto sontuoso sia il locale, a Davos è consuetudine dividere il proprio tavolo con altri senza tante formalità, e il cinese si trattiene con noi più a lungo di Trichet. Accomodante, malizioso, molto cool, indossa una felpa con cappuccio e grossi scarponi di montagna; lo si potrebbe prendere per un giovane che ha fatto i miliardi con Internet o per un esperto di arti marziali, in realtà per entrambe le cose insieme, e quando gli chiediamo che cosa fa nella vita risponde che insegue l’illuminazione e l’espansione della coscienza per raggiungere uno stato permanente di felicità. Infanzia a San Francisco, università a Berkeley, residenza a Hong Kong, è iperspecializzato in scienze cognitive ed è attualmente impegnato in un grande progetto internazionale che consiste nel radunare sull’isola polinesiana di Vanuatu un conclave di menti aperte come la sua per elaborare una nuova mitologia: qualcosa, precisa, a metà strada fra il buddhismo e Star Wars. Ed è per questo che viene a Davos? « Well,» risponde allargando nuovamente il suo sorriso da gatto del Cheshire « male non può fare. E poi, questa è la Disneyland dei grandi, no?».
Prima di venirci non la vedevamo di certo così, anche se un’intervista di Klaus Schwab avrebbe dovuto metterci in guardia. Klaus Schwab è il professore tedesco di economia che quarant’anni fa si è inventato a Davos una serie di incontri fra manager europei diventati, dopo la fine del comunismo, l’irrinunciabile forum di uomini d’affari e politici che lui ancor oggi presiede. E se, secondo Hegel, la preghiera mattutina dell’uomo moderno consiste nella lettura dei giornali, scopriamo con sorpresa che quella di Klaus Schwab, prima di leggere le quotazioni di Borsa e il «Financial Times», consiste in mezz’ora di meditazione. Torneremo sul profumo new age che aleggia sull’empireo di coloro che decidono i destini del mondo, ma ora è giunto il momento di parlare di Félix, senza il quale non ci saremmo mai trovati qui.
Allora, senz'altro Carrère è anche molto fortunato. Dove va lui succedono sempre cose. Qui scoppia la rissa che non ti aspetti. In Yoga, quando va sull'isola di Leros, alcuni profughi gli raccontano delle storie così perfette che nella mia già non sfortunata carriera di cronista raramente ho incontrato. Storie che se non ci fidassimo di lui sembrerebbero inventate. Però c'è chi la fortuna la sa valorizzare mentre gli altri, di fronte a queste pirotecnie della realtà, si scanserebbero e tirerebbero dritto. Quello che possiamo, potete prendere da lui, nei cento esempi che faremo nel corso, è il gusto parossistico per i dettagli rivelatori.
RISCATTARE UNA CATTIVA REPUTAZIONE
Quello che avete ascoltato è solo un piccolo assaggio di quel che ci sarà nel corso. Oltre a questi mostri sacri parleremo anche di maestri della scuola latinoamericana, oggi tra le più vitali (gente come Juan Villoro, Martin Caparrós e il misconosciuto Julio Villanueva Chang). Di due donne da competizione, di due epoche e culture molto diverse, l'americana Joan Didion e la brasiliana Eliane Brum. Di Martin Amis, che sa essere uno dei più divertenti scrittori viventi anche se l'ironia non è necessariamente il talento per cui è più noto (non ci credete? Sentite qua: Sul penultimo presidente degli Stati Uniti: «Forse è questa la dote maggiore di Trump: un istinto da coccodrillo per le prede inerti, preferibilmente moribonde»; Su Elizabetta d'Inghilterra: «Quando festeggia il suo ventisettesimo compleanno, la regina può rilevare che l’unica volta che si è comportata male in pubblico è stato nel giorno del suo battesimo. Aveva pianto per tutto il tempo, tanto che avevano dovuto darle un preparato contro le coliche»; sul protagonista della febbre del sabato sera: «John Travolta è talmente un’icona che ti stupisci che non sia morto. Ma non è morto, non più»). E parleremo anche, si parva licet, di come funziono io. Tutte cose pratiche che, se tutto il resto dovesse fallire, dovrebbero giustificare il prezzo del biglietto. Tipo: come preparare le trasferte, sbobinare gratis le interviste, scannerizzare i libri, prendere appunti per un podcast, montare un video su un telefonino. Oltre – impagabile! – al consiglio sul blocco note dal miglior rapporto qualità/prezzo in circolazione. Nella penultima lezione (dal vivo) assegnerò un compito che voi svolgerete e che correggeremo in classe durante l'ultima lezione.
Tutto questo per alzare la vostra soglia critica nei confronti della sciatteria endemica nella scrittura giornalistica. Ma anche, spero, per provare a centrare un bersaglio più alto. Ovvero quello per cui solo chi è disposto a mettersi in gioco, intellettualmente ed emotivamente, riesce a scrivere bei reportage. Non è solo questione di stile ma, innanzitutto, di sostanza. E qui prendo a prestito le parole insuperabili di Eliane Brum che su questo tema si dev'essere interrogata a lungo:
Questo è il bello e il brutto del reportage, un tipo di scrittura che si regge solo sul dettagliato riscontro di ogni informazione.
Nella verifica delle fonti, cerco di dare al lettore il massimo della ricchezza del reale, perché possa lui stesso stare dove sono stata e fare le proprie scelte.
Un reportage non è qualcosa che si fa solo sulla strada, sporcandosi le scarpe, come tanti hanno detto. È un lavoro che esige un primo movimento radicale: attraversare la larga strada di se stessi. È questo forse l’atto più profondo e anche il più difficile. Non implica soltanto sudore, ma anche alterità.
Comporta la necessità di disabitare se stessi per abitare l’altro, il mondo che costituisce l’altro. Siamo in grado di completare questo processo solo mediante l’ascolto, quello che si fa con tutti i sensi, che esplora il detto e il non detto, tanto ciò che suona e risuona quanto il silenzio. Tanto la fattura dei mobili quanto la scelta dei quadri alle pareti. Gli odori e le assenze. Le negazioni, i sussulti e le esitazioni. L’imperfezione delle unghie mangiucchiate, lo smalto scelto o dimenticato. Le crepe. E gli avanzi.
E poi:
Quando è possibile, non faccio nemmeno la prima domanda. Perché penso che la prima domanda parli più di me che della persona che voglio raggiungere e che ancora non so chi sia. La prima domanda, oltretutto, dà all’intervistato degli indizi su un supposto desiderio del reporter. La prima domanda è una forma di controllo. E, per essere una brava reporter, devo rinunciare a questo controllo.
Un reporter è tale solo se rinasce e si rigenera dopo ogni reportage. Preferibilmente, di parto naturale.
Tenendo sempre bene a mente una cosa, che sembra banale ma – credetemi – non lo è affatto.
Ovvero che:
Nessun reportage è più importante di una persona. Come giornalista, ho il dovere di spiegare con chiarezza e onestà a ogni persona–che mi onora con la fiducia di aprirmi la porta della sua vita–che quel racconto sarà letto da molti, che diventerà un documento. La gente sa che sarà pubblicato, ma non tutti sanno che cosa davvero significhi.
E che bisogna raccontare anche «i dilemmi, le scelte, le scoperte e anche gli errori che avevo commesso nello scrivere quel reportage» perché «per un errore giornalistico, non c’è riparazione possibile». (Ho una ricca casistica al proposito e vuoterò il sacco durante il corso).
Insomma, alla fine – e scusate l'ambizione, così titanica da rasentare il patetico – vorrei parlare di come scrivere bene senza diventare delle brutte persone. Perché, è inutile negarlo, chi scrive ha sempre il coltello dalla parte del manico. Con un paio di aggettivi ben assestati posso mettere al tappeto qualsiasi gigante. È un potere tremendo, che va usato con grande consapevolezza. E il tesserino da giornalista non è un porto d'armi sufficiente.
Lo dice, nella maniera più chiara e dura possibile, Janet Malcolm nel lapidario inizio di The Journalist and the Murderer, un saggio sulle scelte etiche cui chi scrive dal vero è tenuto:
«Ogni giornalista che non sia così stupido o presuntuoso da non vedere la realtà sa che ciò che fa è moralmente indifendibile. Il giornalista è una specie di scagnozzo, che sfrutta la vanità, l'ignoranza o la solitudine delle persone, che si guadagna la loro fiducia e poi le tradisce senza rimorsi. Come la vedova credula che un giorno si sveglia per rendersi conto che l'affascinante giovane se n'è andato con tutti i suoi risparmi, quella che ha accettato di essere intervistata impara la sua dura lezione quando appare l'articolo o il libro. I più pomposi parlano di libertà di espressione e dicono che "il pubblico ha il diritto di sapere"; i meno talentuosi parlano d'arte e i più decenti mormorano qualcosa sul guadagnarsi da vivere».
Alcuni fortunati sanno scrivere, ma sono dei talenti dell'entertainment più che del giornalismo perché si capisce subito che sotto le mossette aggraziate c'è un sovrano disprezzo per quello che raccontano. Vale per tutti la lezione di Ryszard Kapuscinski (che magari aggiungeremo in un corso futuro): il cinico non è adatto a questo mestiere. Per tutti gli altri non nati con la camicia della narrazione addosso si può migliorare, si deve. E non c'è miglior modo che essere esposti alle radiazioni benefiche di tanto talento concentrato. Attentamento selezionato. E messo in contesto.
Buon divertimento se ci rivedremo. Buona fortuna in ogni caso.
Epilogo
Sul fronte cattive notizie è morta ieri Joan Didion, giornalista gigantesca. Sul fronte buone notizie, sul Venerdì in edicola torniamo a casa Calò, quella in cui una famiglia con già quattro figli aveva accolto sei rifugiati. “Li illudete, finiranno tutti in strada” era stato allora il commento meno ostile. Com’è andata a finire? Son tutti sistemati, con lavoro e casa, stanno anche mettendo su famiglia. Buon Natale!