#45 Momento "io l'avevo detto" tra robot, rider e Amazon
Praticamente tutte le cose di cui mi sono occupato in questi ultimi anni sono venute a maturazione in questi ultimi giorni. Quando si dice la sincronicità
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Prologo
Solo i migliori ci riescono, e io non sono tra quelli. A invecchiare con grazia intendo dire. Gli altri, io tra loro, sviluppano una vena se non misantropica almeno mugugnatrice. Non ne possono più dell’eterna commedia dell’arte dei talk show; degli intellettuali No green pass; dei falsari che fan carriera; delle finte vittime (talvolta beneficiate) della scorrettezza politica, eccetra eccetra. Nei giornalisti un segno tipico di questo processo di senescenza è dire “io l’avevo scritto” segue data indietro nel tempo a piacere. Lo faceva anche Attilio Giordano, uno dei giornalisti più giornalisti con cui avuto l’onore di lavorare (qui un ricordo), e lo prendevamo in giro per questo. Ora lo faccio anch’io e mi prendo in giro da solo.
ROBOT E LAVORO IN ITALIA
Dunque esce un nuovo studio sull’effetto dell’automazione sui posti di lavoro in Italia. “Licenziati da un robot. A rischio 7 milioni di italiani” scrive l’ottimo Roberto Mania sul mio giornale. E a me, dopo tante litigate con bocconiani de fero o ex-sindacalisti che odiavano il sindacato, mi viene da tirar fuori il catalogo. Perché nel 2013, col suddetto Giordano, avevamo fatto una copertina del Venerdì proprio su questo.
Che poi nel 2016 era diventato un libro dal titolo Al posto tuo (Einaudi).
Ora è chiaro che per uno studio così ne uscirà un altro di segno opposto. È però il primo che riguarda il nostro paese, fatto da tre economisti molto seri dell’università di Trento. E, insomma, mi ha fatto piuttosto soddisfazione.
MULTA MILIARDARIA AD AMAZON
D’altronde in quello stesso libro si parlava molto anche di Amazon, delle dimensioni eccessive che stava assumendo per il bene della società (e quindi anche del mercato). E oggi arriva questa multa dell’Antitrust italiana per oltre 1 miliardo di euro per aver discriminato i venditori indipendenti a favore di quelli che usano la logistica della piattaforma. Vuoi vedere che dopo una ricreazione lunga venticinque anni i maestri han deciso di far valere la loro autorità… (ne ho discusso stamani ospite di Pietro Del Soldà a Tutta la città ne parla su Radio 3 Rai).
AUTONOMIA, PER PICCINA CHE TU SIA…
Nei giorni scorsi si è parlato della direttiva della Commissione europea che imporrebbe ai datori di lavoro di considerare, salvo eccezioni, come dipendenti i lavoratori della gig economy. Di questa vasta nebulosa i rider sono forse i più numerosi e sicuramente quelli mediaticamente più noti. Se da molte parti si parla di rivoluzione, c’è una quota di rider che si preoccupano al punto da indire una petizione per mantenere l’autonomia perché, ad esempio, come assunti non potrebbero più lavorare per più piattaforme e rischierebbero di guadagnare ancora meno. Alla gig economy ho dedicato un libro, Lavoretti, (Einaudi) che ha contribuito a far entrare il termine nel lessico comune con l’accezione che oggi è chiara a tutti.
Da sempre, però, sono convinto che quella dell’assunzione non fosse la via obbligata e forse neppure la più desiderabile. L’ultima volta l’ho sostenuto sempre ospite di Pietro Del Soldà. In discreta solitudine. L’importante è aumentare i diritti di chi lavora, non necessariamente ingabbiarlo in una griglia che, in casi come questo, può essere troppo rigida per il bene del lavoratore stesso.
SE I RIDER SI RAPPRESENTANO DA SOLI
Anni fa ho fatto la cronaca della prima assemblea di Riders Union Bologna, il tentativo di un collettivo di rider di difendersi da soli. La Cgil rimase molto delusa dall’articolo perché, a sentir loro, un loro sindacalista non ne era uscito bene. E ricordo con grande tristezza una telefonata con il protervo portavoce di Susanna Camusso che provava negare l’evidenza. Un estratto (e l’integrale):
Angelo, barba nera e jeans bassi in vita, viene da Milano e fa parte del collettivo Deliverance Project. Un «solidale», ovvero uno che aderisce alle lotte dei fattorini pur non essendolo. Cosa direbbe alla Camusso, se si presentasse qui per aiutare? «Di andare affanculo, perché sanno solo stare appresso ai pensionati. Per loro siamo una contropartita troppo bassa, non gli interessiamo». C’è parecchia rabbia verso «i complici di Renzi nel Jobs Act per una scientifica destrutturazione del lavoro». Per molti il fondo si è toccato in una data precisa: 23 luglio 2013. Fu allora che Cgil Cisl Uil firmarono l’accordo con Expo spa che autorizzava l’utilizzo di 18.500 volontari (su 20 mila addetti) a paga zero per far funzionare l’evento. Il giorno in cui la triplice morì definitivamente, forse senza neanche accorgersene, nel loro racconto. «Sono un strumento vecchio, burocratico» insiste Lorenzo, che ai testi della Scuola di Francoforte alterna le pedalate per Glovo e Deliveroo: «I sindacalisti di base che sono qui mettono a disposizione strumenti e competenze. Non vengono a dire “ti spieghiamo” perché adesso siamo noi a spiegare come si protegge il lavoro».
A dire la verità non sta scritto da nessuna parte che tradizione e avanguardia non possano coesistere. Anzi. All’assemblea emiliana partecipano anche un paio dei sei fattorini torinesi che, in orgogliosa autonomia, hanno fatto causa a Foodora per essere inquadrati come dipendenti. Perdendo in primo grado. A differenza degli autisti di Uber londinesi che, con le spese legali del leggendario studio Leigh Day coperte dal sindacato Gmb Union, hanno vinto sia nell’ottobre 2016 che in appello. Non è detto che sarebbe andata meglio, ma è ridicolo considerare il denaro confederale (comunque non offerto) come sterco del demonio. Intanto in Germania IG Metall ha assunto un celebre attivista web per organizzare i lavoratori digitali. In Austria i fattorini di Foodora hanno aperto una Rsu e in Danimarca il sindacato 3F ha appena firmato il primo contratto collettivo con una piattaforma di pulizie. «Gig workers e sindacati tradizionali devono venirsi incontro se vogliono risultati» avverte da Lovanio, in Belgio dove insegna, il giuslavorista Valerio De Stefano, «altrimenti i lavoratori rischiano di ingabbiarsi in iniziative simboliche e il sindacato di perdere queste nuove forze».
MA SONO LAVORETTI O SERVIZIO PUBBLICO?
Durante la pandemia la dissonanza cognitiva che li riguardava ha toccato il livello massimo. Sono lavoretti o servizio pubblico? La seconda direi dal momento che erano tra i pochi autorizzati a circolare nelle città bloccate dal lockdown. Il pezzo iniziava così:
Contactless, nel lessico famigliare dei riders, assume oggi tutto un'altro significato. Non c'entrano le carte di credito che basta appoggiare sul lettore e che buona parte di loro non ha mai posseduto. Ha invece a che fare con le nuove modalità di consegna ai reclusi. Ce lo spiega Gabriel, ciclofattorino a Bologna in attesa di mettere a frutto una laurea in psicologia: «Appoggiamo l'ordine sul cubo. Ci allontaniamo. Aspettiamo che il cliente esca, lo recuperi e solo dopo possiamo avvicinarci per recuperare la borsa frigo». Due passi avanti. Due passi indietro. Due passi avanti. Un balletto triste, senza contatto. In teoria, almeno, perché poi «c'è la mamma giovane con il bimbo di sei mesi in braccio che ti apre prima ancora che tu abbia suonato al campanello o i ragazzini di quattro-sei anni che ti corrono incontro passando sotto le gambe del papà che, con la mascherina, presidia la porta». Il protocollo fa acqua da tutte le parti. E a Gabriel tocca improvvisare. Bei tempi quelli in cui fare il corriere era solo un problema di salari scandalosi (si coglie l'ironia?). Adesso è anche questione di non contagiare e non ammalarsi. Con i tassisti e gli autisti di bus vuoti i corrieri sono gli unici che vedi sfrecciare per le strade deserte delle nostre strade di notte. Da ultima ruota del carro del diritto del lavoro a servizio pubblico de facto. Quanti paradossi per un pugno di euro. Abbiamo provato a ricostruire com'è cambiata la loro giornata tipo.
LA REMUNTADA DEI CICLOFATTORINI
Il 2018 è stato un buon anno per le ragioni dei corrieri in bici. Facevo il punto in un articolo uscito a giugno di quell’anno che iniziava così:
Per i riders, i fattorini che in bici o in motorino consegnano pasti a domicilio, sono successe più cose negli ultimi due mesi di quante non ne fossero accadute nei due anni prima. Dal giudice torinese che ha negato loro la qualifica di dipendenti al neoministro del lavoro che ha per loro apparecchiato un tavolo d’ascolto. Passando da una città pioniera che ha dimostrato come anche un sindaco può fare la differenza, alla regione che ne ha seguito l’esempio. Con la Cgil che ha organizzato uno sciopero, alla ricerca del tempo perduto. E le piattaforme che, alternando le due proverbiali espressioni di Clint Eastwood (con cappello e senza), hanno nella prima rifiutato di trattare salvo poi, nella seconda, concedere assicurazioni e altre aperture. Eventi debitamente registrati dalle cronache ma il cui valore cumulativo, come proveremo a dimostrare, è superiore alla somma delle sue parti.
La remuntada inizia a Bologna, il 12 aprile. All’indomani della sentenza che nega la richiesta di sei fattorini di essere inquadrati come dipendenti, il Comune presenta la Carta fondamentale dei diritti dei lavoratori digitali nel contesto urbano. A parte il nome lungo come un titolo della Wertmüller, è un documento importante che fissa alcuni principi irrinunciabili tra cui il diritto a un equo compenso orario, a ricevere indennità se si lavora sotto la pioggia o la neve, l’obbligo di assicurazione. «Mi sono ispirato» spiega l’assessore al lavoro Marco Lombardo «a una proposta di legge del Parlamento europeo. Come Comune non possiamo decidere se siano autonomi o dipendenti, ma se è vero che l’algoritmo organizza la prestazione lo è anche che la strada è il luogo dove si lavora. E su quella abbiamo giurisdizione. Perché aspettare che qualcuno si faccia male?». Già. Così hanno fatto sedere accanto riders, sindacati e piattaforme. Il 31 maggio a firmare sono state solo le due più piccole, le italiane Sgnam e MyMenu, che insieme però rappresentano circa la metà dei 500 fattorini bolognesi. Il sindaco Virginio Merola ha chiamato al boicottaggio dei renitenti con parole di una nettezza veterotestamentaria («Se ordinate una pizza da uno che sfrutta, avete la possibilità di ordinarla da uno che non sfrutta»). «La leva del consumo responsabile» parafrasa Lombardo, alla quale ha richiamato anche le associazioni di commercianti. Annunciando che se qualcuno di questi ragazzi dovesse cadere e farsi male il Comune potrebbe costituirsi parte civile. Prossimi passi? «Estendere la carta ad altre piattaforme. Ad altri lavoratori (si parla solo di riders, ma non sono i soli). Ad altre città» come dimostra la presenza alla firma dell’assessore al lavoro di Milano Cristina Tajani. O l’annuncio del 14 maggio del governatore del Lazio Nicola Zingaretti di varare, entro l’estate, un Foglio dei diritti primari del lavoro digitale. Bologna ha fatto scuola. Non solo sul versante istituzionale.
ROMANZO RIDER (E ANCHE FILM)
Se non ancora tutti i diritti che meritano, senz’altro i rider hanno conquistato l’immaginario collettivo. E sono diventati protagonisti di romanzi e film in quantità. Ne scrivevo qui:
Ho visto anche dei rider felici, parafrasando il poeta. Soprattutto nei romanzi, sul piccolo schermo e nell’appiccicosa narrazione di sindacati compiacenti. La vocazione cinematografica di chi affronta la notte pandemica per portarci il cibo a domicilio era evidente da tempo. Rispetto alla base sommersa dell’iceberg del precariato i ciclofattorini hanno almeno un triplice vantaggio: sono molto visibili, spesso giovani e anche il gesto atletico li mitizza, moderni Sisifo con il cubo-frigo al posto del macigno, in una fatica senza esito. Era scritto che la finzione li avrebbe adottati. In questo mese, mentre un’indagine monstre della procura di Milano prescrive di assumerli tutti, due libri li vedono protagonisti. Le balene mangiano da sole (Feltrinelli), che troverebbe l’adattamento ideale nelle sapienti mani del Paolo Virzì di Tutta la vita davanti, Rosario Pellecchia racconta dell’improbabile, ma non meno convincente, amicizia tra Genny, ventitreenne che pedala forte per lasciarsi alle spalle un lutto precoce, e un dodicenne che conosce durante una consegna. Genny è un napoletano a Milano, inorridisce di fronte a certe richieste («Pizza Bismarck, con uova e asparagi? Ja’, ma come fai?»), non si arrende al fatto che il suo sia solo un lavoro e prova a intuire mondi dietro ai fugaci scambi con i clienti. Alla fine gli «piace fare il rider» perché è «sempre meglio che stare otto ore chiuso in fabbrica o in un call center. Almeno giri la città ascoltando musica». Candido (La nave di Teseo, dal 12 marzo) di Guido Maria Brera con il collettivo I diavoli è invece una rivisitazione del pamphlet voltairriano dove l’ottimista è proprio il rider che, nonostante spinga come un ossesso sui pedali in una città sfregiata da una disuglianza economica estrema, non dubita della superiore saggezza dell’algoritmo e si beve le sedative banalità ammanite dall’onnipresente ologramma Pangloss. Salvo resipiscenza finale, dopo che «una serie di tragicomici eventi fa maturare in lui il disincanto ed esplode la rabbia di chi si accorge di essere solo una minuscola parte di un ingranaggio di una società al collasso nella quale solo i più ricchi possono sopravvivere». Ovvero, dettaglio biografico non omettibile, quelli come l’autore che è capo degli investimenti del Gruppo Kairos Julius Baer.
Epilogo
Sempre a proposito di gigantismo tecnologico sull’ultima Galapagos mi occupo dell’annunciato metaverso annunciato da Facebook, che ci crede così tanto da aver cambiato il suo nome in Meta. Ma che forma avrà questo doppio digitale del nostro mondo analogico? Mi limito a ricordare che Snow Crash, il magnifico romanzo di fantascienza di Neal Stephenson che ha ispirato il termine, era una distopia. Fate i vostri conti.