#44 Reinventare il mondo
La frutta Uht; le api anti-Covid; l'energia solare concentrata; la nascita di un nuovo blu; l'hamburger vegetale che assaggiai anni fa; lo strepitoso documentario sui Beatles
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Prologo
I lettori, che dio o chi per lui li protegga, stanno cambiando. Sono pochi, d’accordo, ma invece di tenerci più stretti tutti insieme si stanno incattivendo. C’entrerà l’effetto imbarbarente dei social, dove un semplice dissenso tracima in una guerra di religione? Sta di fatto che ieri, poco dopo la messa online dell’anteprima di un’articolo su come un’azienda californiana si è inventata un trattamento per far durare il doppio la frutta e quindi dimezzare gli sprechi, una professoressa di chimica scrive al giornale una mail scandalizzata denunciando due errori per cui sembrava proporre la decapitazione. Uno: aver usato invecchiamento come sinonimo atecnico di ossidazione. Due: aver scambiato un elettrone per un neutrone. Da queste due mostruosità derivava la conseguenza che scrivevo di cose scientifiche senza saperne niente, e che questo scempio era la prova dei “tempi in cui stiamo vivendo”. Quindi le scrivo scusandomi del secondo refuso, spiegandole che anche nelle migliori famiglie come la nostra capita di sbagliare e che avevamo già corretto online, mentre rivendicavo la semplificazione nel primo caso, a danno dell’esattezza ma a favore della comprensibilità. E che derivare da tutto questo segni precursori dell’imminente Apocalisse mi sembrava una lieve forzatura. Abbiamo trovato un’intesa a metà e ne sono uscito rattristato. Soprattutto del fatto che, invece di essere un po’ rallegrata dall’apprendere di un’invenzione così promettente lei vedesse solo la macchiolina che ai suoi occhi sporcava tutto il quadro in maniera irrimediabile. Che spreco, mi vien da dire.
ARRIVA LA FRUTTA UHT
E quindi un estratto dell’articolo, dal sud dell’Olanda (con piccolo video esplicativo):
Maasdijk (Olanda). Le cose più notevoli, in questa campagna verde tutta uguale, sono due. I vivai che sembrano casette per bambini se i bambini fossero figli di Gulliver. Tanti, altissimi, trasparenti. E le rotatorie a due corsie, un upgrade per intenditori. Per il resto la zona a tre quarti d’ora a sud dell’aeroporto di Amsterdam, il più trafficato al mondo, e a un tiro di schioppo dal porto di Rotterdam, il numero uno d’Europa, è essenzialmente una superpotenza logistica, tipo il piacentino al cubo.
Ed è qui che fatalmente ha sede Nature’s Pride, uno dei più grandi importatori di frutta e verdura del continente, che tratta 230 prodotti da oltre 58 Paesi. E che, per soprammercato, ospita anche la sede europea di Apeel, la società californiana che si è data il compito di trasformarne un certo numero in cibi Uht, a lunga conservazione. Per ora è una cosa per poche specie (in Europa avocado, manghi, agrumi, oltreoceano anche mele, cetrioli, asparagi), ma non una cosa da poco. Nel senso che, parlando tanto di sostenibilità, questo potrebbe rivelarsi un tassello non trascurabile: dimezzando gli sprechi ci guadagna il fornitore, il venditore, il cliente (a cui il frutto non marcisce all’indomani dall’acquisto) e alla fine anche il pianeta, che diventa complessivamente più efficiente.
L’idea è semplice e poggia su un caposaldo della chimica: l’ossigeno provoca l’invecchiamento (alias, ossidazione) sottraendo elettroni agli elementi con cui reagisce, dai metalli alla pelle degli uomini. La sfida era quindi proteggere, con un trattamento che crea una pellicola trasparente e non nociva, frutta e verdura per rallentare il loro tragitto dallo scaffale alla pattumiera. La pellicola però doveva tenere fuori l’ossigeno tenendo dentro l’umidità, per evitare il rinsecchimento (come succede se provate a farlo con la pellicola per alimenti). La soluzione è un composto trasparente, tassativamente segreto, ricavato dagli scarti della lavorazione vegetale, che viene spalmato o nebulizzato sopra i frutti o gli ortaggi. Essendo ancora impossibile andare a Goleta, in California, dove è stato inventato, siamo venuti qui per vedere come si applica. Ed è stata una visita altamente istruttiva sulla totale globalizzazione dell’approvvigionamento della frutta.
LE API DI PAVLOV CHE FIUTANO IL COVID
Dalla stesa trasferta mi ero appassionato a un’altra invenzione potenzialmente niente male: usare le api per individuare le malattie, a partire dal Covid (c’è anche video).
WAGENINGEN (OLANDA). Le api di Pavlov hanno un fiuto eccezionale. E sgamano il Covid, e forse altre malattie, alla prima sniffata. Almeno questa è la scommessa di InsectSense, una startup ospitata nei sontuosi locali dell'università di Wageningen, nel sud dell'Olanda, superpotenza accademica mondiale nel settore della ricerca agraria. L'ha fondata un anno fa Aria Samimi, trentaquattrenne geologo e ingegnere minerario iraniano, e ora l'azienda è acquartierata nel palazzo Plus Ultra II, con macchina del caffè da albergo 5 stelle e kit antigenici gratuiti in libera distribuzione, tra l'"incubatore" che l'ha sostenuto e l'"acceleratore" che dovrebbe trovare nuovi finanziamenti. Ma intanto cosa c'entra un geologo con le api prima e il coronavirus poi? La storia ha la classica drammaturgia di una serie di circostanze casuali illuminate dalla perspicacia dello scienziato. Succede infatti che, ancora universitario a Yazd, località altrimenti nota come culla dello zoroastrismo, un professore di biogeochimica parli di come certe piante segnalino la presenza di alcuni giacimenti minerali. Al giovane Aria andare a cercarle una per una sembra però una missione troppo dispendiosa. E qui arriva il momento eureka, come in ogni epica siliconvallica che si rispetti, un luogo dove il nostro, barbetta e camicia nera slim a mezze maniche d'ordinanza, sarebbe indistinguibile dai locali: di ritorno a casa il suo coinquilino sta leggendo un libro con un'ape in copertina. Illuminazione! Perché non andare dagli apicoltori, analizzare il miele e da lì risalire alle piante che le api hanno visitato e quindi ai giacimenti che ci stanno sotto?
IL SUPER-SOLARE DI HELIOGEN
Un paio di ani fa ero andato in California per incontrare un signore che si era inventato un sistema nuovo per produrre energia solare concentrata, che raggiungeva temperature buone anche per l’industria siderurgica e del cemento (avevo fatto anche un video):
PASADENA (California). Per essere un'idea vecchia di oltre duemila anni il suo futuro non è mai stato così scintillante. Si narra infatti che nel 212 avanti Cristo, in piena seconda guerra punica, i siracusani istigati da Archimede la usarono per rompere l'assedio romano. L'inventore coordinò infatti l'inclinazione di vari specchi affinché i raggi del sole colpissero le vele delle imbarcazioni nello stesso punto, incendiandole. Un anno fa la stessa tecnica di concentrazione dell'energia solare ha ottenuto una vittoria apparentemente non meno decisiva avendo raggiunto per la prima volta, un paio d'ore a nord-est di Los Angeles, la temperatura di mille gradi. Ovvero quella che ne consentirebbe l'uso, a emissioni zero, nelle industrie pesanti del cemento e della siderurgia. Responsabili da sole di circa il quinto del totale dell'inquinamento creato dall'uomo. Media di tutto il mondo hanno registrato la scossa, con titoli che contenevano i termini «svolta», «soluzione del riscaldamento climatico» o «l'azienda segreta finanziata da Bill Gates». Bill Gross, un sessantaduenne nevratile, con un maglioncino col collo a V e un entusiasmo contagioso è il fondatore di Heliogen. Appena rientrato da una tournée di incontri con potenziali altri finanziatori ad Abu Dhabi non sta nella pelle: «Ho convocato i miei collaboratori e ho detto loro: "I soldi non sono più una nostra preoccupazione"». Con la sua IdeaLab, l'incubatore di Pasadena in cui l'abbiamo incontrato prima dello scorso lockdown, ha tenuto a battesimo varie decine di startup ma mai, giura, si è sentito così convinto di essere nel giusto: «È come se tutta la mia carriera trovasse finalmente una quadra: oggi ho l'esperienza che serve, la tecnologia è matura e, anche grazie a Greta, il mondo avverte l'urgenza di cambiamenti radicali». Tipo trasformare la stella intorno alla quale orbitiamo in una fornace a ciclo continuo. A buon mercato. Pulitissima per di più.
UN NUOVO BLU È NATO
Nel 2018 in Oregon ho incontrato l’inventore di un nuovo blu molto promettente. Ci abbiamo fatto una copertina. Il pezzo iniziava così:
CORVALLIS (OREGON). Mas Subramanian è il Cristoforo Colombo dei colori. Cercava l’India (un superconduttore da usare in computer e telefonini), ha trovato l’America (un promettente nuovo blu che gli ha cambiato la vita). Galvanizzato dalla scoperta ora è all’inseguimento del rosso perfetto, le cui innumerevoli applicazioni commerciali potrebbero aggirarsi sul miliardo di dollari all’anno. Il celebre rosso Ferrari, in base a calcoli elusivi ma qualificati, ne varrebbe da solo 300 milioni. Nella classifica dei reagenti che attivano questo sessantaquattrenne chimico indiano i soldi però si piazzano piuttosto in basso: «La cosa meravigliosa è l’eco che la scoperta ha avuto nel mondo. La prossima settimana mi hanno invitato per una conferenza al Rijksmuseum di Amsterdam, poi a Francoforte e quindi in Turchia. Ed è solo la piccola parte di proposte che ho accettato. Come succede con molte storie di scoperte, spero che motiverà molti giovani a darsi alle scienze». Il tutto perché il composto ottenuto pestando in un mortaio tre elementi tutto sommato marginali della tavola periodica è uscito di un blu extraterrestre dal forno in cui era stato messo a cuocere. È nato così l’YInMn blu (dai simboli dei tre ingredienti), o blu Oregon, o semplicemente Mas blu, come si legge su un tubetto di pittura che omaggia lo scopritore giocando con l’avverbio spagnolo «più». E da allora, nonostante una sessantina di brevetti già alle spalle e un h-index, la misura della celebrità degli scienziati, decisamente alto, non gli chiedono di parlare d’altro.
In realtà non gli spiace. Anzi, cavalca l’onda presentandosi con una camicia blu oltremare mentre il bordo della custodia del telefono tende più al turchese («Ma no, è un colore che mi piaceva già!»). Prima scriveva articoli sugli «zeoliti come precursori delle ceramiche elettroniche», sulla «termoelettrica sketterudite» o sulla «sintesi fluoroaromatica». Argomenti chiave della scienza dei materiali ma binari morti nelle conversazioni sociali. Oggi gli capita che, dopo essersi presentato genericamente come prof all’Oregon State University al vicino di posto in aereo, quello gli dica: «Ah, dove hanno inventato quel blu…» e lui può calare l’asso e dire «Sì, sono stato io».
IL FINTO HAMBURGER HA UN RETROGUSTO PERTURBANTE
Nel 2017 mi ero imbucato alla degustazione per la stampa di uno dei primi Impossible Burger, gli hamburger interamente vegetali che sembravano hamburger veri. A Redwood City, nel mezzo della Silicon Valley:
Ma qual è la grande novità di questa svizzerina hi-tech che ha convinto Bill Gates, Google Ventures e Khosla Ventures, ovvero la crema del capitale di rischio, a investirci milioni e ad autorizzare impegnative analogie mediatiche («La Tesla del cibo»), al punto da calamitare per la dimostrazione odierna eccitate troupe fino dal Giappone e dalla Corea del sud? Perché la storia tristanzuola dell’hamburger vegetale non è nata oggi. L’inventore, a quanto pare, è il ristoratore londinese Gregory Sams, un quasi perfetto omofono del protagonista delle Metamorfosi di Kafka, che l’ha servito per la prima volta nel ‘71 nel suo locale. Poi, declinati in innumerevoli varietà, espugnando addirittura Burger King e McDonald’s, hanno conquistato piazzamenti anche nei menu di tante nostre trattorie. Però quelli, di tofu, di seitan, di lenticchie pressate, non provavano a sembrare altro da quel che erano. L’Impossible Burger ambisce invece a essere indistinguibile: quanto a consistenza, sapore, odore e sfrigolio mentre lo cuoci in padella e sangue che sprizza quando lo addenti. Un programma ambizioso.
Gli ingredienti, una decina, sono allineati sul tavolo di una saletta senza finestre. Li illustrerà Celeste Holz-Schietinger, dottorata in chimica a Santa Barbara (l’organigramma aziendale sarebbe tranquillamente sovrapponibile con il corpo docente di una buona/ottima facoltà) e capa della cruciale divisione «sapore». I loro hamburger devono essere, in uno slogan che tornerà spesso, «deliziosi senza compromessi». Il livello «buoni per essere vegetali» non lo prendono neanche in considerazione. Il primo ingrediente, indispensabile per la consistenza masticosa, sono le proteine estratte dalle patate e dal grano che si presentano come un trito di medie dimensioni. Fondamentale per il sapore è invece l’eme, la parte dell’emoglobina che contiene il ferro. In pratica la sostanza che dà il sapore metallico al sangue, nonché il suo colore rosso. E che dell’Impossible Burger è un po’ la firma dal momento che, una volta estratto attraverso un procedimento brevettato dalle radici della soia e di altri cereali, mescolato con il macinato di patate lo fa già stupefacentemente assomigliare alla cosa vera. Quindi arrivano lo xanthan e il konjac, i due emulsionanti che conferiscono la plasmabilità alla fettina. E infine i grassi, per il sapore e l’effetto sfrigolio, ottenuti dall’olio di cocco (privato dell’odore per evitare un imbarazzante effetto Mars) e dalla soia. Questo, almeno, è quello che si può dire davanti ai cronisti a cui è fatto tassativo divieto di scattare foto dentro al laboratorio perché è lì che l’alchimia ha luogo. La bionda Celeste, con un maglioncino leggermente più chiaro del nome, mescola tutto vigorosamente in una ciotola. Quindi realizza una polpettina destinata, prima o poi, a finire nella vicina padella su una piastra termica a favore di telecamere.
DA VEDERE. THE BEATLES: GET BACK
Paul, genio e organizzazione. John, più allegro e meno ascetico della vulgata. George, che morde il freno. Ringo, il più risolto di tutti. Quattro persone che hanno reinventato il rock, divertendosi un sacco nel frattempo. La cosa più irresistibile di The Beatles: Get Back (Disney+), torrenziale documentario uscito dopo mezzo secolo da quando fu girato (grazie a Massimo Bavastro per avermelo consigliato per primo), è il godimento che i Fab Four, al di là delle incomprensioni, delle minacce di divorzio, di tutto il resto provavano mentre suonavano. È una cosa che chiunque abbia strimpellato in un gruppo sa ma qui raggiunge livelli parossistici e contagiosi, essendo il gruppo quello che è. Peraltro tutti suonavano tutto. L’unica che non si divertiva, a quanto pare, è la spettrale Yoko Ono, «la nippona che il gruppo scompiglia>, che fa quasi tenerezza nel suo essere costantemente fuori sincrono rispetto alla felicità altrui. Che non ne esce comunque danneggiata. Belli loro, i vestiti, la poca Londra che si intuisce. Ogni cosa è illuminata. Dopo la visione uno vorrebbe solo rinchiudersi in casa e ascoltare le loro canzoni fino alla fine del tempo. Grazie Peter Jackson.
Epilogo
Tra le invenzioni che stanno cambiando il presente e cambieranno il futuro, forse incidentalmente obliterando per sempre il cielo buio di notte, ci sono anche i satelliti a bassa orbita. C’è un pezzetto in Galapagos. Come si diceva, ogni cosa è illuminata. Anche la notte.