#40 "L'ambiente? Raccontiamolo meglio"
Jonathan Safran Foer è tra i più lucidi a parlare del perché la crisi climatica è una storia che scalda il pianeta ma non i cittadini. Vecchia intervista, sempre attuale; The Fourth Estate
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Prologo
Nell’agosto del 2019, in un bar di Brooklyn dove vive, ho incontrato Jonathan Safran Foer per parlare del suo libro Possiamo salvare il mondo, prima di cena (Guanda). Non ero partito con troppe aspettative e invece mi ha aveva stupito per una lucidità sul tema che non avevo trovato altrove. Mi sembra che i due anni trascorsi non abbiano affatto invecchiato il suo ragionamento. All’indomani del G20 e dei suoi presunti risultati e mentre ancora è in corso il Cop26 mi sembrava utile riproporlo.
New York. A parole l’ambiente sta a cuore a tutti. Nei fatti, molto meno, tendente al nulla. Pochissimi hanno l’onestà di riconoscerlo. Tra queste mosche bianche Jonathan Safran Foer, che scrive: «Per me è ovvio che m’importa del destino del pianeta, ma se tempo ed energie investite sono indici dell’importanza di una cosa, è innegabile che m’importa di più del destino di una particolare squadra di baseball, quella della mia città natale: i Washington Nationals. È altrettanto ovvio che non nego i cambiamenti climatici, ma è innegabile che mi comporto come se li negassi». Parafrasando Forrest Gump, ambientalista è chi l’ambientalista fa. Quello dell’ecocidio, per il grosso dell’umanità, risulta un orizzonte astratto, lontano e sfocato. Soprattutto è una prospettiva che stenta a diventare una storia appassionante, le sole che riescono a mobilitare gli uomini come spiega il Nobel per l’Economia Daniel Kahneman. Eppure le cose da fare per cambiare il finale sarebbero molte, e non tutte proibitive, sostiene l’autore di Possiamo salvare il mondo, prima di cena (Guanda), a partire da un cambiamento di stile di vita alla portata di tutti. Ovvero: mangiare meno carne. Sentirsi in colpa è inutile. Idem ripetere, come inno dei nostri tempi confusi, «dobbiamo fare qualcosa». I fatti, nella loro trivialità, sono noti: il bestiame, ruttando, scoreggiando o attraverso gli escrementi, è la fonte principale di emissioni di metano e quella dei due terzi di protossido di azoto. Per questi motivi gli allevamenti sono direttamente responsabili, nei dati Fao, del 14,5 per cento delle emissioni globali di CO2. E se si includono, come fa il Worldwatch Institute, anche le quantità di anidride carbonica che la deforestazione per foraggio e pascoli impedisce di assorbire, il totale raggiunge il 51 per cento. Un recentissimo rapporto Onu conferma le responsabilità. Che vogliamo fare? Che possiamo fare? L’unica opzione impraticabile è restare a guardare. L’ultimatum di Foer è di una chiarezza veterotestamentale: «Dobbiamo rinunciare ad alcune abitudini alimentari oppure rinunciare al pianeta». Messa così non dovrebbe esserci partita. Eppure...
Nel libro lei ricorda le limitazioni che l’America accettò in tempo di guerra quando le città lungo la costa spegnevano le luci all’imbrunire per impedire ai sommergibili tedeschi di scorgere le navi in uscita dai porti, e la benzina veniva razionata («Quando vai in macchina da solo vai in macchina con Hitler!»). L’analogia con la guerra, nel nostro contesto, è calzante?
«Sì, nel senso che in gioco è il nostro stile di vita. La vita stessa. La differenza è che stavolta stiamo da entrambe le parti della barricata. Il che è psicologicamente difficile, giacché è molto più facile immaginare un nemico, sentirsi superiore a lui. Quando ho inziato a scrivere questo libro pensavo che avrei voluto dire qualcosa agli altri, per poi scoprire che soprattutto volevo dire qualcosa a me stesso. Più ci pensavo più mi sentivo confuso e imbarazzato dalle mie stesse reazioni».
Uno dei principali argomenti che usa è proprio la distanza tra comprensione del fenomeno e azione: come si possono unificare?
«Tendiamo a dividere il campo in due: quelli che credono al riscaldamento climatico e quelli che non ci credono. E siamo soddisfatti di appartenere al campo giusto. Però questa divisione soffre di un doppio problema. Il primo è che tendiamo a sopravvalutare drammaticamente le dimensioni di chi non ci crede, ovvero il 16 per cento, meno degli americani che negano l’evoluzione o il fatto che la Terra orbiti intorno al sole. Quindi c’è un vasto consenso, però ci piace lo stesso gettare la colpa su chi non ci crede. Il secondo problema è che questa divisione non è decisiva: al pianeta, o ai nostri nipoti, non frega niente se ci importa o no. Ai bambini curati per la malaria dal 46 per cento del patrimonio di Bill Gates importa se lui si sente buono o meno? O a quelli che muoiono perché Jeff Bezos dà solo il 4-6%? Ecco, è un’idea molto ebraica, ma non dovremmo sopravvalutare l’importanza dei nostri sentimenti, perché chi siamo è determinato da ciò che facciamo. In pochi altri settori più che sul climate change, che io preferisco chiamare “crisi del pianeta”, questa confusione tra sentimenti e azioni è pericolosa. Non basta scrivere “Dobbiamo fare qualcosa” su una maglietta. C’è un incendio da spegnere, è ozioso dire che vogliamo spegnerlo mentre in realtà continuiamo a buttarci legna sopra».
Una parte di questo drammatico scollamento ha anche a che fare con la difficoltà che giornali e letteratura hanno nel raccontare il fenomeno: perché?
«Perché non è una buona storia, è astratta. Procede in maniera incrementale: che suspense c’è nella calotta artica che si scioglie? È letteralmente la cosa più noiosa del mondo. E tende alla ripetitività: quante volte, ormai, abbiamo sentito ripetere “le peggiori inondazioni degli ultimi cento anni?” Ogni anno. E senza una buona storia non convinci nessuno. Era vero 5.000 anni fa e resta vero oggi. Bisogna reinventare il modo in cui lo raccontiamo. Per alcuni saranno manifesti, film, racconti basati sui fatti o sulle emozioni: qualsiasi cosa, basta che funzioni. Dovremo tentare gli uni e gli altri, perché il tempo stringe e o questo o quello non possiamo più permettercelo».
A proposito dell’importanza di un buon storytelling, il libro svela la verità sulla prima donna che si oppose alla segregazione in America…
«Sì, e non è quella della storiografia ufficiale. La prima arrestata a Montgomery per essersi rifiutata di alzarsi e lasciare posto a un bianco sul bus non fu la celeberrima Rosa Parks ma la sconosciuta Claudette Colvin. Ma aveva quindici anni, era incinta di un uomo sposato, molto più vecchio di lei, e veniva da una famiglia povera. Niente a che vedere con la quarantaduenne Parks, sposata, di famiglia rispettabile, che provocò di nuovo l’incidente nove mesi dopo. Quella di Claudette era una storia non abbastanza buona per passare alla Storia. Oppure mi viene in mente Jackson Pollock quando lavorava su tele lunghe 20 metri e poi ne ritagliava una parte soltanto: quella era l’opera d’arte, non il resto. È la selezione giusta che fa la differenza. Era una manipolazione, ma ogni scelta è una manipolazione».
A proposito di includere o lasciar fuori cose, scrive che Una scomoda veritàdi Al Gore è stato per lei un punto di svolta. E che tuttavia quel film ha un grave limite: quale?
«Premetto che una cosa è aprire una discussione, altra è espanderla. E il merito di quel documentario è incalcolabile, quanto alla prima parte. Il limite è di aver omesso uno dei fattori che più contribuiscono alla crisi del pianeta e che, guarda caso, è anche il più facile da correggere. Ovvero il ruolo dell’allevamento animale, con il suo fenomenale contributo nella produzione di metano e protossido di azoto, rispetto a quello della CO2 di cui esclusivamente si occupa. A partire dalla locandina, con ciminiere e orsi polari, il film ha scommesso sulla metafora dell’industria e non su quella della fattoria. Senza niente togliere all’anidride carbonica, il metano ha un “potenziale di riscaldamento globale” (Gwp) 34 volte maggiore. Ordinandoli in scala, il CO2 sarebbe basso come una coperta e il metano alto come il cestista LeBron James. E il protossido di azoto, 310 volte maggiore, un’altezza tale che saltando giù vi sfracellereste. E siccome il tempo è limitato e si debbono fare delle scelte, se foste sull’orlo della bancarotta tagliereste sull’abbonamento al giornale da 100 dollari o sulla seconda auto da 5000? Gli obiettivi di Parigi puntano a un’impronta da 2,3 tonnellate di CO2 per cittadino globale. Oggi è di circa 4,3 tonnellate che potrebbe essere dimezzata non mangiando carne né a colazione né a pranzo».
Ecco tornare il tema del libro scorso, che però si concentrava sull’aspetto morale. Perché l’allevamento animale fa tanto male al pianeta?
«L’Onu lo mette tra le prime due-tre cause del riscaldamento globale. Al primo posto il consumo di energia elettrica (25 per cento di gas serra). Poi l’agricoltura (24), in gran parte riconducibili all’allevamento. Quindi l’industria (24). I trasporti (14) e le costruzioni (6) e il restante su varie fonti. In passato era sostenibile, ma non ora che l’allevamento intensivo è stato introdotto per sfamare 7,5 miliardi di persone. Un suo effetto collaterale è la deforestazione, sia per coltivare il mangime che per creare nuovi pascoli. Risultato: meno alberi, che invece sono indispensabili per assorbire circa un terzo dei gas serra. Sapendo tutto questo, vogliamo davvero dire che non possiamo fare a meno di qualche hamburger?».
Ecco, ma esattamente che sacrificio suggerisce? Il titolo americano dice che «inizia con la colazione» mentre quello italiano preferisce un «prima di cena»...
«Propongo di dimezzare i nostri consumi di carne, mangiandone solo a cena. Porterebbe molti vantaggi. Sarebbe una dieta incontestabilmente più sana. Più economica e lo conferma uno studio di Harvard dell’anno scorso che calcola che una svolta vegetariana equivale a circa 550 dollari di risparmio annuale su un salario di 33 mila. E alla fine dà anche più soddisfazione, perché non c’è niente di meglio di qualche limite autoimposto per apprezzare ciò del cui consumo ti moderi. Non sono così ingenuo da dire che tra dieci anni la metà dei miei concittadini saranno diventati vegetariani, ma è invece verosimile che la metà dei pasti consumati qui nei prossimi 5 anni anni potrebbero diventare tendenzialmente vegetariani. Capisco uno che mi dice che non se la sente di diventare vegetariano, ma non ho mai conosciuto nessuno che dica di non poter ridurre affatto il suo consumo di carne. Tra il rinunciare al 100 per cento o invece all’1 c’è un ampio margine di manovra».
Oltre alla riduzione carnivora lei suggerisce altri tre rimedi. Non viaggiare in aereo. Niente auto. Fare meno figli. Non le sembrano estremi, soprattutto l’ultimo?
«A scanso di equivoci, non sto suggerendo di tagliare il pisello a nessuno. Né una legge che proibisca di riprodursi. Ma la matematica demografica ci impone una riflessione. Magari, dopo due figli (il numero che ho anch’io), considerare di adottare uno dei tanti bimbi abbandonati nel mondo. E magari concepire regole fiscali che dissuadano dal consumo di benzina, dall’abuso di voli e spingano verso alcuni cibi anziché altri, secondo la teoria del nudge di Cass Sunstein».
C’è qualche politico che sente più alleato in questa lotta?
«Gli indifferenti sono più facili da trovare. Obama, con tutti i suoi meriti, non ha fatto quasi niente per il clima. Paradossalmente Trump offre una migliore prospettiva: come insegnava Marx, bisogna che le cose si mettano veramente male per far germogliare una resistenza. Hillary avrebbe indotto una certa, malriposta compiacenza: un movimento come gli Extinction Rebellion non sarebbe mai nato con lei. Da noi l’unica che ha imposto ai candidati democratici il tema del clima è Alexandria Ocasio-Cortez. Ci sono poi personaggi pubblici che possono fare una differenza, come Beyoncé che ha lanciato concorsi in cui chi dimostra di seguire diete a base vegetale può vincere biglietti gratis ai suoi concerti. Ma la persona al mondo più influente è Greta Thunberg. Se a chiedere di non mangiare carne fosse lei credo che quasi il 100 per cento di chi ascolta la seguirebbe».
Ovviamente non tutti, anche nel campo dei sensibili al tema, sono d’accordo col suo punto di vista. Roy Scranton, autore di Imparare a morire nell’Antropocene, bolla come ingenua «l’idea che possiamo salvare il mondo attraverso le scelte individuali dei consumatori». Cosa risponde?
«Che è un punto di vista rispettabile ma non lo condivido. Il mio approccio non ha niente contro il riciclaggio dei rifiuti o il fatto di asciugare i panni al sole, ma le trova pratiche cerimoniali, di testimonianza. È come se un medico prescrivesse a un infartuato l’esercizio fisico ma non di tenere a bada il colesterolo. Io, sulla base dei dati che cito, penso che la riduzione del metano sia la cosa più urgente e più alla nostra portata. Da soli non possiamo cambiare il regime fiscale della benzina ma il nostro stile di vita sì. E allora perché non farlo? Ciò che rischiamo di perdere è molto, molto più appetitoso di un hamburger».
Devo dire che fatico a credere che possa bastare. Forse per gli Stati uniti sarebbe una vera rivoluzione, molto meno per l’Europa. Io, che mi ritengo mediamente sensibile al tema, passerei tre (poca carne, no figli, no auto) dei suoi quattro criteri di sostenibilità. Mi sembra sinceramente pochino per sentirsi a posto…
«Non voglio deluderla ma un singolo volo transoceanico andata e ritorno neutralizza su per giù un anno dei risparmi ambientali di uno che segua un regime vegetariano. Poi è vero che gli americani sono i più colpevoli dal punto di vista ambientale, ma c’è margine di miglioramento per tutti. Per esempio lei potrebbe prendere in considerazione di ridurre uova e formaggi o abolirli del tutto, come intendo fare io: la loro produzione ha un discreto costo ecologico. Sarebbe stato più coerente col tema se la nostra conversazione fosse avvenuta via Skype invece che dal vivo. E anche riguardo al mio tour promozionale ho sentimenti molto combattuti. Da una parte voglio far arrivare il libro al maggior numero di persone ma dall’altra voglio prendere meno aerei possibile. Non so ancora come me la caverò, ma devo trovare un modo». La via per la sostenibilità è lastricata di dilemmi onnivori.
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