#37. Indebitiamoci tutti!
Il boom delle fintech; le rate reinventate; nel lockdown gli italiani scoprono della Borsa; la Teoria monetaria moderna; la lezione inascoltata dei subprime; La grande scommessa
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Prologo
Ogni crisi (per tanti) è un’opportunità (per pochi). Lo sboom della new economy (2000) fece perdere pensioni a milioni di americani ma segnò anche l’alba del web 2.0 aprendo la strada a Facebook, Youtube e tutte le altre piattaforme dove il lavoro lo facevano gli utenti e ad arricchirsi erano i proprietari. La crisi finanziaria del 2007-2008 coincide con la nascita della gig economy: la miseria di tanti sdoganò il fatto di dover arrotondare come tassista (Uber) o affittacamere (Airbnb). Quella che stiamo per lasciarci alle spalle è una crisi ancora più grande: quali cambiamenti porterà nel settore dell’economia e in particolare del lavoro?
L’ANNO DELLE FINTECH
Tra i primi segni c’è il boom delle fintech, quelle aziende che vogliono rivoluzionerà il settore del credito prima monopolio delle banche. Una volta ci si poteva permettere anche il lusso di lasciare i soldi a sonnecchiare in banca, adesso a quanto pare non più. Però facilitare troppo l’accesso al credito ha i suoi rischi, come scrivo nell’ultima Galapagos.
COMPRA OGGI, PAGA PIÙ TARDI
Campionessa di questa tendenza è la svedese Klarna che consente di comprare adesso e pagare più tardi. Reinventando le rate. Anche prima del 2007 si era pensato di facilitare l’acquisto delle case dando mutui a gente che tipicamente le banche avrebbero tenuto a distanza. Si chiamavano subprime e sappiamo com’è andata a finire. «Son preoccupato da qualsiasi cosa che renda molto facile indebitarsi come sonnambuli» ha commentato Martyn James di Resolver, un'associazione di consumatori britannica
GLI ITALIANI SCOPRONO LA BORSA
Nello stesso ordine di idee, la pandemia ha portato anche un altro cambiamento nella vita degli italiani. Preoccupati per i nostri destini economici e passando più tempo in casa davanti al computer abbiamo cominciato a investire in borsa. Siamo passati dai Bot, intesi come buoni ordinari del tesoro, ai bot come gli algoritmi che governano gli acquisti azionari.
Prima di iniziare ho chiesto qualche pezza d’appoggio a Salvatore Gaziano e a Roberta Rossi di SoldiExpert, piccola società di consulenza finanziaria con vent’anni e circa 400 clienti alle spalle. Stando a un censimento di Assosim, tra gennaio e aprile scorsi gli scambi azionari sono saliti del 55 per cento, toccando il 166 sugli Etf. E se, in questa febbrile attività borsistica, ci concentriamo sul sottoinsieme retail, ovvero gli investitori non professionali, io e voi per intenderci, questo è cresciuto di un quarto rispetto all’anno prima (da 73 a 91 miliardi di euro).
Ad adiuvandum, ecco poi una slide di un seminario recente della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane titolato Boom di acquisti azionari durante il lockdown, con punte sui 5.000 nuovi investitori nelle settimane più crude della prima ondata. I broker fai-da-te sono ormai una legione: 15 mila day trader, che comprano e vendono in giornata; 200 mila persone che operano almeno una volta alla settimana; 2,2 milioni di intestatari di un conto titoli, il prerequisito per negoziare alcunché. La realtà è sempre più complessa delle nostre semplificatorie intuizioni – svago su Netflix, shopping su Amazon, lavoro su Zoom e nelle pause approfitti per investire online – ma un aumento c’è stato.
Il movente psicologico del cambiamento di abitudini lo spiega bene questo banchiere:
Non ha difficoltà ad accettare la correlazione Alessandro Foti, amministratore delegato di Fineco, che lavora dalla sua casa al mare: «Alcuni trend hanno preparato la transizione. Gli italiani sono ottimi risparmiatori e pessimi investitori e gli 1,7 trilioni di euro sui loro conti lo dimostrano. Finché stai comodo, puoi permetterti di tenere i soldi improduttivi, oggi però sempre meno. Per non dire che i tassi negativi e la liquidità messa in circolo dalla Bce, riflazionando l’economia, rimpiccioliranno i depositi in contanti. Così, di colpo, molti son stati costretti a darsi una mossa». Per lui, lasciare denaro sul conto è un delitto: «L’Istat sottostima l’inflazione. Soprattutto per i più benestanti che non rinunciano a comprare a 650 euro gli stessi sci che l’anno prima costavano il 10 per cento in meno. E il mondo, nel suo complesso, non può che crescere. Basta guardare l’andamento del MSCI World, un indice rappresentativo di tutte le borse: con la crisi del 2000 ha perso il 50 per cento, con quella del 2008 il 40 ma, negli ultimi vent’anni, ha comunque guadagnato il 600 per cento. Se di due fratelli uno ci avesse messo 100 euro e l’altro li avesse lasciati sul conto, il primo oggi ne avrebbe 700, il secondo 66. Tra i due chi vorreste essere?».
MMT CONTRO IL MITO DEL DEBITO
Una cosa sono i debiti privati, altra cosa quelli pubblici. L’austerità può essere una cura peggiore della malattia. Almeno se, come gli Stati uniti, puoi stampare moneta. Un filone economico che sembrava un eresia ed è sempre più preso sul serio è quello della Teoria monetaria moderna (mmt) di cui qualche tempo fa avevo intervistato l’interprete principale, la professoressa Stephanie Kelton:
Senza che nessuno ce l'abbia detto stiamo vivendo un assaggio di "teoria monetaria moderna" (Mmt). E, a occhio, non ci dispiace. D'altronde cos'altro è il permesso di Bruxelles agli Stati membri di spendere senza preoccuparsi dei sacri vincoli di bilancio, con la fondamentale complicità della Bce che comprerà debito pubblico fino a quando serve? Tra sirene di ambulanza e bollettini medici l'opinione pubblica ha altro a cui pensare ma, rispetto all'ortodossia economica europea, non è un'eresia da poco. La stessa che da anni predica la scuola scismatica americana di cui Stephanie Kelton, professoressa all'università Stony Brook e alla New School di New York, nonché autrice di Il mito del deficit, è probabilmente l'interprete più convincente. Piccolo assaggio, perché il menu completo dice che "i governi che emettono la propria valuta non possono mai "finire i soldi", né possono diventare insolventi sui titoli di debito emessi nella loro stessa valuta. Perché possono semplicemente creare "dal nulla" tutto il denaro di cui hanno bisogno". Servono più terapie intensive? Ristori a chiunque abbia perso qualcosa? Stampando moneta si può. E se vi sembra una provocazione - certe recensioni nostrane ridicolizzano la tesi come "albero della cuccagna" mentre in America il libro è stato pacificamente nella classifica del New York Times, non di Lotta comunista - è solo perché ci hanno cresciuto nell'analogia fuorviante che il bilancio di un governo sia come quello di una famiglia, per cui non si spende più di quanto si abbia.
I SUBPRIME, OVVERO DEI MUTUI AL PRIMO CHE PASSA
Qualche anno fa avevo visto in anteprima a New York The big short (La grande scommessa), il film che con intelligenza e ironia provava a spiegare la Grande recessione:
Ma una cosa per volta. Il film deriva dal libro di Michael Lewis, il più epico cronista di cose finanziarie di sempre, a partire da A liar's poker in cui raccontava i suoi esordi come broker alla defunta Salomon Brothers per finire con Flash boys, la saga di un gruppetto di trader che denuncia le porcate dell'high frequency trading, per cui circa il 60 delle transazioni di borsa viene ormai eseguita in automatico da algoritmi. La sua grandezza sta nel riuscire sempre a risalire alle persone dietro alle storie, così che anche le formule più arcane e algide si scaldano a contatto con i 37 gradi della temperatura umana. Così conosciamo Michael Burry (Christian Bale; i nomi sono stati cambiati, ma le persone non potrebbero essere più vere), il neurologo leggermente autistico, con occhio di vetro, bermuda e bacchette da batterista sempre in mano, che è il primo a intuire che le mortgage-backed securities, quegli strumenti finanziari che mettono in un solo pacchetto migliaia di mutui diversissimi tra loro, sono una bomba a orologeria. O l'incazzosissimo Mark Baum (Steve Carrell) che sulle prime è scettico che il mercato immobiliare possa crollare ma poi va a vedere in Florida e si accorge che i mutui ora li concedono anche alle ballerine di pole dance, non per una casa ma cinque, senza nemmeno controllare quanto le sue evoluzioni in perizoma le rendano ogni mese. Per non dire di Jared Vennet (Ryan Gosling) di Deutsche Bank che capisce che ci sono montagne di soldi da fare puntando sul fatto che il castello di carte subprime venga giù presto, nonostante le sempre più sbiadite rassicurazioni delle banche.
Fedele alla sua ambizione didattica, il film è costellato da interludi in cui celebrità pop spiegano i concetti più ostici. Come quando il cuoco Paul Bourdain propone l'analogia tra i mutui più a rischio, quelli col rating BBB, e il pesce di tre giorni. "Lo butto via? No, lo taglio a pezzi più piccoli, lo salto in padella e ci faccio qualche altra ricetta in cui risulta irriconoscibile". Semplificando, è andata proprio così: dei mutui immobiliari non si è buttato via nulla. Prima le banche conoscevano la persona a cui li concedevano e quante probabilità c'erano (poche) che non pagasse le rate. Poi, illusi che modelli matematici sempre più sofisticati potessero comunque calcolarne i rischi, hanno cominciato a metterne insieme migliaia, cartolarizzandoli, ovvero trasformandoli in strumenti finanziari su cui potevano guadagnare di più. Sin quando gli altri non hanno perso tutto.
DA VEDERE: LA GRANDE SCOMMESSA
Vedi sopra.
Epilogo
Se state a Roma, o passerete da Roma entro il 22 febbraio, andate a veder al Maxxi Amazônia, la lussureggiante mostra di Sebastião Salgado. Non mi vengono in mente modi più efficaci per capire come siamo lillipuziani di fronte alla natura.