#36 Roma disastro capitale
Più rifiuti per tutti; trasporti in stato comatoso; bike sharing nato morto; neofascisti che incendiano le periferie; una speranza chiamata America. Breve vademecum horror a uso del prossimo sindaco
ARTICOLI. LIBRI. VIDEO. PODCAST. LIVE. BIO.
Prologo
Non c’è pericolo di spoiler se scrivi di Roma: che appaia o meno una pistola nel primo atto nel finale c’è sempre una città che si fa male, molto male. Anche la titolazione è diventata un cliché, come quella che vi propongo qui, ripetuta mille volte. Roma e disastro sono ormai rima baciata. Com’è possibile che una delle cittá più belle del mondo versi perennemente in condizioni così pietose? Piccola rassegna a uso del futuro primo cittadino.
DISCARICA CAPITOLINA
Tra i record capitolini c’è quello di poter vantare tra le aziende più enigmatiche del pianeta. Ad esempio l’Ama, che dovrebbe raccogliere i rifiuti. Due anni fa, dopo aver osservato un disco giallo cambiare posto indisturbato nelle strade sotto casa mia, me ne ero occupato:
Scrivere sui rifiuti di Roma è una missione quasi suicida. L'argomento è complesso, farcito di sigle arcane (tmb, fos, css), le responsabilità diffuse. La città produce 1,8 milioni di tonnellate all'anno. Quasi 5.000 tonnellate al giorno, di cui solo il 44 per cento viene differenziato. Restano 3.000 tonnellate di indifferenziata alle quali trovare quotidianamente una collocazione. Dove vanno a finire?
Circa 1.200 nei due impianti di trattamento meccanico biologico (tmb) di Malagrotta, che separano l'umido dal secco, gestiti dalla Colari che si scrive Consorzio Lazio Rifiuti ma si legge Manlio Cerroni, il ras nella cui discarica per cinquant'anni è finito il grosso della monnezza. Fino a cinque anni fa quando, con sprezzo del pericolo, l'allora sindaco Ignazio Marino l'ha fatta chiudere. Il novantenne avvocato non si è perso d'animo e, attraverso i suoi due tmb, tratta ancora circa un quarto dei rifiuti capitali. Altre 650 tonnellate vanno invece nel tmb Ama di Rocca Cencia e 400 andavano a quello, sempre pubblico, del Salario che un misterioso incendio ha messo fuori uso a dicembre.
Anche se Ama riuscisse a spazzare le strade (apodosi dell'irrealtà, disco giallo docet), non saprebbe dove portare i rifiuti. Che infatti per 1.000-1.500 tonnellate emigrano fuori provincia (Frosinone, Aprilia, Viterbo) quando non fuori regione (Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Lombardia) o, fino all'estate scorsa, all'estero (Austria, Germania).
Prima domanda ingenua: non converrebbe costruire qualche nuovo tmb per avvantaggiarsi della tariffa imposta dalla Regione di 104 euro a tonnellata rispetto ai 137 che pretende Cerroni o dai 139 ai 197 dei forestieri?
VIAGGIO AL TERMINE DELL’ATAC
Altra eccellenza locale è municipalizzata dei trasporti Atac, specialità bus autocomburenti, è una di queste (articolo completo):
La colpa è sempre di qualcun altro. Della Regione in arretrati totali pari a un miliardo e duecento milioni di euro di trasferimenti. Dei ricambi che mancano. Dei «70 dirigenti = 1000 autisti», tormentone suggestivo ma circa tre volte sovrastimato, che ritornerà spesso. C'è anche un autista tozzo, maldisposto, con gli occhiali neri da bodyguard che doveva essere partito un quarto d'ora fa, ma il suo autobus ha il «motore irregolare», che singhiozza. Aspetta istruzioni. Arrivano dopo un'altra decina di minuti: «Devo andare in rimessa a prendere un'altra vettura. Coi mezzi». Se va tutto bene, calcolando un'ora e venti a corsa, quando si rimetterà a guidare ne avrà perse quattro. Che è come se un chirurgo passasse mezza giornata in giro per la città a rimediare i ferri. Spesso si affaccia un turista per chiedere informazioni (il servizio preposto è stato esternalizzato). Ci sono anche occasionali utenti italiani che accennano comizietti estemporanei. Mi sento esattamente sull'epicentro di un'inefficienza profondissima. Hanno tutti un piccolo pezzo di ragione che insieme producono un torto colossale. Di fronte al peggioramento del servizio a luglio, per lo sciopero bianco che gli autisti negano ma senza il ricorso al quale si faticherebbe a giustificare un'impennata del 300 per cento di vetture giudicate inidonee rispetto al luglio scorso, il sindaco Marino ha fatto la voce grossa: «Azzererò il Cda e cercheremo un partner privato». Nemmeno un emiro ubriaco la comprerebbe in queste condizioni, ha ironizzato a distanza l'ex sindaco Rutelli. Gli esperti danno ragione al secondo. Fosse un'impresa privata l'Atac sarebbe morta da tempo. Ma come e perché è arrivata al coma farmacologico in cui versa da anni?
La vicenda è fastidiosamente complessa. Una ventina di anni fa la situazione era simile a oggi: 9000 miliardi di lire di perdite di fronte di 4000 di attivi. La tentazione era di chiudere ma la giunta Rutelli, da poco insediata, non se la sentì. Partì un piano da 5000 esuberi, quasi un terzo del totale, aumentarono le tariffe, unificarono due società: una cura da cavallo che in due-tre anni portò dei risultati. Per renderli irreversibili l'assessore ai trasporti Walter Tocci decise nel '99 di dividere l'azienda in due: la parte di regolazione (che tipo di servizio doveva essere assicurato) restava pubblica, quella industriale (guida, etc) si metteva a gara tra i privati. Fu allora che, per le linee periferiche, ovvero circa un quinto del totale, vinse la Tevere Tpl (oggi Roma Tpl). I prezzi del servizio per chilometro, spiega oggi il senatore del Pd, erano di circa la metà di quelli di Atac. Doveva essere solo l'inizio di un meccanismo concorrenziale. Ma nell'ultima parte del suo mandato il sindaco Veltroni conferma il regime di in house, ovvero la possibilità di scegliere i fornitori per chiamata diretta (Bruxelles ci impone di farlo finire entro il 2019). Con gli anni, invece di far scendere i prezzi pubblici verso il livello dei privati, questi ultimi salgono quasi al livello dei primi. Il che però non smentisce la bontà del metodo che Tocci rivendica anche oggi: la privatizzazione tout court è una stupidaggine. Prima bisogna garantire che il pallino resti in mano pubblica, poi dividere il servizi tra una decina di fornitori scelti con una gara. A quel punto i prezzi scenderanno e il Comune non sarà ricattabile da monopolisti di fatto.
IL BIKE SHARING COME METAFORA
Se i bus prendono fuoco le bici sono sparite prima che cominciassero a funzionare. Tutto il resto del mondo c’è riuscito, tranne che gli eredi di Cesare (articolo completo).
Inanellare una così inesorabile serie di errori non è un risultato banale. Anche per sbaglio, una mossa giusta poteva capitare. Invece no. Tutto ha inizio nel giugno 2008, èra Veltroni. Nell'ultimo scorcio del suo mandato, il sindaco che ha già importato le archistar non vuole che il Tevere sfiguri con la Senna. Tutti parlano del successo di Vélib, le bici parigine un tanto all'ora. Si fa avanti Cemusa, una società spagnola di affissioni che ne ha fatto esperienza in città di medie dimensioni. Mettono sul piatto 19 stalli, per 263 colonnine e 160 bici, più la manutenzione complessiva per sei mesi. L'aperitivo lo offrono loro, sperando che poi al Comune venga appetito. Nel frattempo però il cosmopolita Walter lascia per fondare il Pd e la sperimentazione passa in eredità a Gianni Alemanno. Il nuovo assessore all'ambiente Fabio De Lillo mette onestamente a verbale la sua estraneità invitando all'inaugurazione il predecessore Dario Esposito. La giunta non sa bene che farne di quel regalo. Nel dubbio prolunga di sei mesi la sperimentazione spagnola. Perché nel frattempo i romani, nonostante le leggende che la città non si presti alle due ruote (i ciclisti abituali sono decuplicati negli ultimi due anni, arrivando a quota 170 mila), si sono appassionati. Nel 2009 si vendono 3500 card. L'anno dopo 4500, per oltre 50 mila euro di introiti. Considerato il numero ridicolo di mezzi è quasi un successo. Per le vie congestionate del primo municipio, il sancta santorum del centro storico, non c'è di meglio. L'ansa barocca come la City. Anche la città eterna si muove. È incredibile, ma vero. O almeno sembra.
Agli spagnoli questo primo anno di collaudo costa mezzo milione di euro. La casa madre fa gli arredi urbani a New York. Investire va bene, buttare i soldi no. Dice Marco Dallamano, l'amministratore delegato italiano: «L'assessore De Lillo (azzoppato dalla notizia del compleanno della figlia festeggiato nell'Aranciera dell'assessorato) venne estromesso. La partita passa all'Atac, la municipalizzata dei trasporti. Nella prima riunione operativa mi dicono: "Tu devi andartene: è inutile che chiedi pubblicità, al più possiamo darti soldi per ripagare le spese». Piccola pausa esplicativa. Il bike sharing ha due possibili canali di finanziamento. Il modello Parigi prevede che un gestore di pubblicità esterna, lì JCDecaux, sostenga i costi del servizio a fronte della concessione di spazi di cartellonistica, il famoso outdoor che resta l'unico segmento di pubblicità non in crisi. Poi ci sono i soldi delle card, ma saranno sì e no il 5-10 per cento del totale. La bici dev'essere quasi gratis per l'utente. A Londra invece il conto di 25 milioni di sterline per 400 stalli e cinque anni lo salda tutto la banca Barclays, che in cambio riceve un enorme beneficio d'immagine. Nessun istituto di credito si fa avanti per mettere le ruote ai romani e si segue l'esempio parigino. In dosi omeopatiche, però, dal momento che la dotazione di velocipedi è il 2,2 per cento dei francesi. Quindi, siamo a giugno 2009, Cemusa cede per 450 mila euro gli impianti ad Atac.
CORCOLLE, PAZIENTE ZERO DELL’OPERAZIONE PERIFERIE
Prima degli scontri di Tor Sapienza, Torre Maura e altre periferie romane dove i penultimi (poveri) se la prendevano con gli ultimi (immigrati), c’è stata la borgata di Corcolle. Dove ho vissuto per una settimana, dormendoci, per cercare di capire il caso dei migranti esasperati che avrebbero lanciato sassi contro un bus e che non è mai stato veramente chiarito. Quel che si sa invece è lo strano coinvolgimento nella rabbia di piazza di gruppi neofascisti. È per questo che mi ha fatto molta impressione aver ritrovato tra i candidati del Partito Comunista di Marco Rizzo Micaela Quintavalle, pasionaria Atac allora piuttosto solidale con un autista con nostalgie di Ventennio tatuate sul braccio che mi aveva querelato per averlo scritto (articolo completo):
Corcolle (Roma). A volte può bastare una bottiglia volante non identificata per mandare in frantumi un piccolo mondo antico. O almeno per dirottare l’attenzione dalla luna dei problemi veri di una borgata disastrata al dito di un’emergenza inesistente ma mediaticamente accattivante. Succede a Corcolle, estrema propaggine di Roma Est. L’unica parte della capitale che pretende un pedaggio autostradale o in alternativa si può raggiungere in un paio d’ore di autobus con lo stesso coefficiente antropologico di un viaggio in Interrail. Cercate su Google e l’oracolo elettronico, giusto sotto Wikipedia, il meteo e il sito del comitato di quartiere, vi rivelerà il motivo della recente notorietà: «Roma, assalti ai bus: a Corcolle è caccia ai neri», recita il titolo di un articolo. Che ha intristito la stragrande maggioranza di cittadini che non ha alcun problema con gli stranieri. E fatto schiumare l’esigua minoranza arrabbiata che, per contestare la maniera in cui è stata dipinta, usa argomenti tipo «Razzista io? Sono loro a essere negri». E tuttavia il cronista venuto a trascorrere quasi una settimana qui a un mese dai fatti che stiamo per ripercorrere non ha vita facile. Perché questo, infinitamente più del presunto scontro di civiltà, sembra l’epicentro di una politica transgender, dove nessuna vecchia etichetta attacca più. Con un presidente di circoscrizione piddino che promette di cacciare tutti i rifugiati. Un ex Forza nuova trasmigrato a Forza italia che firma manifesti anti-invasione con iconografia leghista ma poi definisce «beceri» i loro discorsi. E un aspirante capopolo che da dietro i suoi RayBan neri a goccia giura di essere di sinistra mentre lancia la sua Opa ostile all’appassionato comitato di quartiere assieme a un autista con l’A noi mussoliniano tatuato in latino sull’avambraccio.
QUELLI DEL CINEMA AMERICA
In uno dei rari varchi del millenario cinismo romano si sono inseriti i ragazzi del Cinema America. Era così sorprendente quel che avevano fatto che i romani stessi non ci credevano e sul loro conto erano subito spuntate una serie di leggende ridimensionanti. Ero andato a vedere. Nel frattempo il loro regno si è ampliato:
ROMA. Un gruppetto di gitanti bresciani che si trascinano sotto il caldo assassino di Trastevere indicano il Cinema America: "Lì vivono quei ragazzi picchiati dai fascisti". Una comitiva di americani chiede alla guida cosa proiettano sullo schermo in piazza San Cosimato: "Non so, ma purtroppo i film sono in italiano". Un'amica che lavora nel cinema sentenzia: "Sono svegli, han fatto una bella cosa. Certo è più facile quando il capetto è figlio di uno del Pd, no?". No, il padre è un prof del liceo. E no (il cinema è chiuso). E no (le pellicole sono in lingua originale e sottotitolate). Girano un po' di fregnacce sul collettivo che gestisce tre celebri arene estive romane e che è diventato un caso nazionale per un paio di ravvicinate aggressioni squadriste. Fattoidi inaccurati, mezze verità, illazioni cui il ponentino dei social non fa mai toccar terra. Aggiungete il sospetto endemico nell'Urbe per qualsiasi cosa che malauguratamente funzioni, e la conspiracy theory è servita. Ma chi sono, chi non sono e chi si credono di essere i ventenni che da sette anni animano l'associazione Piccolo America?Per rispondere abbiamo organizzato un censimento sul loro presunto radicalscicchismo. Quasi venti interviste, una via l'altra, come dal medico della mutua. Ma partiamo dal ventisettenne Valerio Carocci. Barbetta e capelli corti e neri, una passione per le sneakers e tre pilastri: "La famiglia, lo scoutismo e la nonna". I genitori di sinistra, docenti al liceo, hanno insegnato a lui e sorella (laureanda in filosofia, membro del gruppo) a "riflettere". Di Baden-Powell, il fondatore degli scout, cita la massima: "Lasciate i posti meglio di come li avete trovati". E la nonna è Mirella D'Arcangeli, già assessore alla Sanità nella giunta comunista Vetere, con Renato Nicolini alla Cultura: "Mi ha fatto amare la politica". A riprova dell'eternità dei problemi della metropoli mi mostra un incantevole spot da lei commissionato con Falcão, Conti, Pruzzo e altri della Roma anni 80 che fanno a gara per tirare una lattina in un cassonetto. Segue riassunto estremo di come questo ragazzo che al cinema andava ogni morte di papa solo per vedere blockbuster tipo Spider-Man sia diventato uno che Sorrentino, Garrone e Bertolucci chiamano sul cellulare per mettersi d'accordo su quando venire a presentare i loro film in piazza e che ora è tra i selezionatori della Festa del cinema.
Epilogo
E quindi? E quindi c’è molto da fare. Ho pochi motivi di ottimismo, osservando le serie storiche della neghittosità della politica romana, ma non c’è alternativa all’azione. O, per dirla con Samuel Beckett, “I can’t go on. I’ll go on”.