#32 Venti anni fa le Torri gemelle
I libri di testo dei jihadisti; le cronache di Lawrence Right; gli incubi di un torturatore; come parlare ai no vax; affamare i tumori; Trapped
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Prologo
La mattina dell’11 settembre 2001 ero appena arrivato a Varanasi, in India, dopo un impegnativo viaggio in treno da Delhi. In albergo c’era un televisore acceso con le immagini che sarebbero diventate iconiche ma che allora sembravano soprattutto irreali di un aereo che si schiantava dentro una torre e poi un’altra. Gli ospiti erano più increduli che terrorizzati. Qualcuno, se la memoria non mi inganna, aveva fatto anche dei commenti su come gli americani raccoglievano quel che avevano seminato. Niente a che vedere con le reazioni che avrei trovato, una settimana dopo, in Italia. Sarà quell’imprinting alternativo ad aver fissato in maniera diversa quell’evento tremendo nella mia memoria. Agli esteri di Repubblica, per tanti anni, come tutti, ne ho scritto dalle prospettive più disparate: era la notizia restata notizia più a lungo. Qui ripesco giusto un paio di cose, uscite sul Venerdì, più eccentriche rispetto alla copertura tradizionale – e indispensabile – sul prezzo di sangue e il dolore delle vittime americane.
I LIBRI DI TESTO DEI FUTURI JIHADISTI (ISPIRATI DALLA CIA)
A cominciare dai libri di testo su cui si sono formati i futuri jihadisti:
È lì, nella provincia afgana di Kunar, che Najibullah Quraishi ha girato per Pbs e Al Jazeera un documentario sull’avanzata dei concorrenti di Al Qaeda. Tra le testimonianze più originali c’è la scena di una lezione tipo in una madrassa fai-da-te. Le bambine sono fatte sedere in fondo alla stanza, i bambini davanti. L’insegnante punta una parola e chiede ai ragazzi di pronunciarla: «Jihad». Poi chiosa: «Allah dice di fare jihad fino a quando gli intrighi, l’idolatria e l’infedeltà non siano scomparsi dal mondo». Poi a un bimbetto smarrito chiede di identificare il modello di una pistola che ha in mano («Tt, di fabbricazione cinese», gli suggerisce un compagno sussurrando). Poi spiega come sparare, come lanciare una granata, con il kalashnikov (in pashto si dice solamente macchina») appoggiato sotto alla lavagna. È tutto immensamente desolante. Purtroppo niente affatto nuovo.
Stesso Paese, poco più di trent’anni fa. Quesito di matematica, terza elementare: «Un gruppo di mujaheddin attacca 50 soldati russi. In quell’attacco ne vengono uccisi 20. Quanti russi sono riusciti a fuggire?». Quarta elementare, un po’ più difficile: «La velocità di un proiettile di kalashnikov è di 800 metri al secondo. Se un russo è a 3200 metri di distanza da un mujahid che gli sta mirando alla testa, calcolate quanti secondi ci vorranno per la pallottola per colpire il russo nella fronte». Erano i curriculum, messi a punto con la consulenza del Center for Afghanistan Studies dell’università del Nebraska con i soldi della Cia, per i bambini afgani in chiave antisovietica. A denunciare l’amnesia selettiva dell’amministrazione Bush sulle cause del «crescente estremismo islamista nel mondo» fu undici anni fa Hamida Khuhro, ministro dell’istruzione del governatorato pachistano del Sindh sul quotidiano di Lahore The Nation. È allora che avviene una vera e propria mutazione genetica dell’islam. Prima la jihad, spiegava nel libro Musulmani buoni e cattivi l’antropologo Mahmood Mamdani, al più giustificava la violenza solo per difesa, mentre «la nozione militarista fu formulata come ideologia completa nelle madrasse, con manuali pensati e finanziati dai servizi segreti per un ben preciso scopo militare». Che ora, a parti invertite, tragicamente ritorna. È il destino della gramigna: una volta che ha attecchito diventa difficilissimo estirparla.
GLI ANNI DEL TERRORE RACCONTATI DA LAWRENCE RIGHT
Dietro la silhouette generica e mortifera di «terrore» ci sono gli uomini, con le loro irragionevoli ambizioni e inevitabili frustrazioni. Il problema è che nel racconto maiuscoleggiante dello scontro di civiltà queste storie minuscole si tendono a perdere. Un peccato mortale cui Lawrence Wright, da un quarto di secolo giornalista del New Yorker nonché premio Pulitzer per una strepitosa anatomia dell'11 settembre (Le altissimi torri) rimedia con Gli anni del terrore (Adelphi, pag. 464, e. 28), una collezione di reportage da Al Qaeda all'Isis.
Il libro inizia ricostruendo la colossale sottovalutazione, da parte della Cia, degli allarmi lanciati dall'agente Fbi Ali Soufan che avrebbero potuto evitare l'11/9. È una storia che sembra ripetersi ogni volta, da Manchester a Parigi. Cosa si dovrebbe fare per rendere la prevenzione più efficace?
«Non basta che i potenziali terroristi siano sul radar delle forze dell'ordine. La polizia locale deve sapere con chi ha a che fare. Contattare le loro famiglie e gli imam. Ciò non solo potrebbe prevenire un attacco terroristico ma anche salvare un giovane da un'irrimediabile decisione. E salvare la sua comunità da quelle sorte di punizioni collettive cui assistiamo nel mondo».
È d'accordo con chi afferma, anche nel suo libro, che le radici del jihadismo odierno affondino nel desiderio di vendetta che le torture nelle carceri egiziane hanno istigato in ideologi come Sayyd Qutb e Al Zawahiri?
«Non c'è una singola causa del terrorismo. Povertà, tirannia, disoccupazione, mancanza di istruzione o di opportunità sono tutti tributari di quello che io chiamo il Fiume della Disperazione che scorre nel mondo arabo. In quel fiume potente, repressione e tortura giocano un ruolo. È stato vero in Egitto ma anche in Europa dove molti giovani musulmani, specialmente in Francia, si radicalizzano in carcere».
GLI INCUBI DEL TORTURATORE
Qualche anno dopo ero andato a intervistare un interrogatore di Abu Ghraib. Un americano come tanti che, dopo l’11 settembre, aveva sentito la chiamata e voleva combattere. Per poi finire torturatore ad Abu Ghraib. E infine pentito aspirante scrittore (c’era anche una versione video):
È una storia con tutti gli ingredienti dell'epica americana quella di Eric Fair, Eric «il giusto» a voler credere al destino iscritto nei nomi: la guerra e Dio sull'elmetto, il male compiuto nella tragica illusione che serva a un bene più grande, la forza fisica e la malattia. Nell'attesa che Hollywood prenda nota ha cominciato a raccontarla lui stesso. Si è iscritto al Veterans Writing Workshop della New York University dove ogni sabato ex-combattenti, sotto la guida di insegnanti di scrittura creativa, esorcizzano le loro esperienze, una pagina alla volta. Il primo risultato è stato un lungo articolo apparso nel numero di primavera della rivista online Ploughshares. Ma la confessione pubblica a mezzo stampa era iniziata nel febbraio del 2007 quando Fair aveva spedito al Washington Post un breve editoriale autobiografico. Raccontava il suo Iraq e quello dei colleghi. Documentava gli abusi. E concludeva che quelle «tattiche erano, oltre che inutili, terribilmente sbagliate» come i suoi incandescenti ricordi gli ribadivano ogni notte. Era stato onesto e, sebbene tardivamente, coraggioso. Alla firma aveva aggiunto l'indirizzo email. Ne aveva ricevute un migliaio in un giorno. Una gli augurava di «bruciare all'inferno, figlio di puttana». In un'altra il possessore di una calibro 45 gliela metteva gentilmente a disposizione. Ma quella che ricorda per intero faceva così: «Mister Fair, le sue parole sono vuote e superficiali. Non ne accetto neppure una. Ma si lasci dare un consiglio se davvero vuole fare una cosa onorevole: si uccida. Lasci un biglietto. Faccia i nomi. E, fino a quel giorno, spero che non dormirà più un giorno per il resto della sua vita». L'anatema stava già funzionando. Aveva preso in considerazione le conseguenze legali di quel passo («l'evenienza di finire in carcere»), ma non la magnitudine di quelle emotive. Così l'indomani aveva chiuso il suo account Facebook e Linkedin e cominciato, se possibile, a dormire ancora peggio di prima.
COME PARLARE AI NO VAX (PER COMINCIARE, NIENTE “GREGGE”)
Cambiando radicalmente argomento, ma restando sulla più bruciante attualità, sul Venerdì in edicola ho intervistato Heidi Larson, probabilmente la massima autorità su come provare a instillare fiducia nei vaccini. Il progetto che dirige si chiama proprio così: Vaccine Confidence Project. Mi ha detto un sacco di cose interessanti, a partire dal non trattarli da cretini (Burioni ci sei?), tipo:
Avete anche studiato quali termini inducono una reazione più positiva e quale più negativa nei confronti della vaccinazione: ce li dice?
«Sì, in collaborazione col World Economic Forum abbiamo chiesto a NetBase Quid, una società di analisi dei dati, di misurare il sentimento riguardo le vaccinazioni. A ben disporre è "protezione", molto meglio di "prevenzione", mentre quello che più maldispone è "obbligo morale". Un'altra scoperta è che messaggi semplici da infermieri, medici e gente normale con cui rapportarsi suscitano risposte più positive di quelle dei politici o di altre celebrità».
Sempre sui termini lei è molto critica nei confronti dell'uso di ogni espressione oppositiva, e mentre le faccio la domanda visualizzo almeno un virologo divenuto celebre per aver umiliato in pubblico gli scettici...
«L'unico effetto di chiamarli ignoranti è di radicalizzarli, facendone aumentare la ribellione nei confronti dell'elite di cui temono le scelte. Ma sono anche contro l'espressione "immunità di gregge" che evoca le pecore, dando un magnifico argomento ai contrari, da sostituire con "immunità di comunità". Sembrano dettagli ma è anche da lì che parte un dialogo».
METTERE IL CANCRO A DIGIUNO
Infine ho intervistato Valter Longo, direttore del Longevity Institute a Los Angeles, sul suo nuovo libro Il cancro a digiuno (Vallardi). L’idea è di affamare le cellule tumorali. Idea molto interessante e promettente. Ma ho immaginato alcune complicazioni pratiche:
Ma lei si immagina che un paziente, con tutte le preoccupazioni che già ha, si presenti dall'oncologo con il suo libro il mano pretendo di convincerlo a seguire la sua strada? E non teme che qualcuno ci trovi un incentivo a lasciare le cure?
«Se lo fa vuol dire che non ha letto perché io ripeto a oltranza che ogni cura deve essere decisa dal medico. Però i pazienti sono sempre più consapevoli. Possono suggerire al medico l'esistenza di altre strade. Possono anche, se lo specialista non li convince, trovarsene un altro. Il paziente ha tutto il diritto di scegliere la strada che può massimizzare la durata della sua vita. Abbiamo in cura da anni un paziente con un glioma, terribile cancro al cervello, cui avevano dato pochi mesi di vita. O un altro con un tumore al polmone a cui avevano pronosticato sei mesi e sono passati dieci anni. C'è anche la possibilità di accedere al nostro protocollo, quando gli altri metodi non funzionano ed è in pericolo di vita, come cure compassionevoli, ovvero sperimentali. Io dico sempre di affiancare la dmd alle cure, anche se in un paio di casi (linfomi e mielomi) ci sono già prime indicazioni per cui la dieta funziona addirittura da sola. Abbiamo tre pazienti che vanno avanti bene così da anni. Ma ovviamenti sono troppo pochi per generalizzare i risultati».
A un certo punto la dmd e il digiuno intermittente sembravano, forse complici giornalisti a caccia di nuovi tormentoni estivi, l'ultima moda nella categoria diete. Che impressione le fa?
«Io penso che la dmd sia uno strumento molto potente. Che va trattato come un farmaco, sotto la supervisione di un medico. Per questo spiego di che si tratta, perché non voglio essere accusato di obbligare a comprare il kit (159 euro per il fabbisogno di energetico di cinque giorni, «gratis per chi non se la può permettere») dall'azienda che ho fondato ma che non dirigo più e i cui ricavati delle azioni devolvo in beneficienza, ma sconsiglio fortemente dal seguirla da soli. La gente, giustamente, confonde i grammi delle proteine con i grammi del cibo che le contiene. Succederebbero disastri. Ipotensione, ipoglicemia, persone che sverrebbero alla guida in autostrada. Non me la sento proprio di incoraggiare il fai da te. men che meno nel caso di pazienti oncologici».
DA VEDERE: TRAPPED
Neve, neve e ancora neve. Un cadavere smembrato ritrovato in mare. Un poliziotto amareggiato da un divorzio che non cicatrizza. Un sospetto cha non riesce a riprendersi dalla morte (accidentale?) della fidanzata nelle fiamme della loro casa. sette anni prima. Riuscirà questo paesino islandese a uscire dalla tormenta? Trapped (Netflix).
Epilogo
Ah, ho scritto anche della presunta intelligenza dell’intelligenza artificiale al volante delle auto senza pilota (pari a quella di un bimbo di 7 mesi). A proposito di bimbi, auguri a Dalia (2 anni tra due giorni) e mia madre, Delhi, 75 oggi.