#31 Quanta vita persa smadonnando contro un monitor
Se anche Amazon fatica a correggere un errorino; un software dirotterà quelli che urlano al telefono; imparare a programmare in un'ora?!?; in Estonia dove i tuoi dati devi darli una volta; The chair
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Prologo
Che certezze ci restano se non possiamo più fare affidamento neanche sull’assistenza clienti di Amazon? Ho raccontato una disavventura piuttosto sorprendente (e non ancora superata) sull’ultima Galapagos. In breve: nel cercare di aprire un account business il sistema si è impadronito della mia vecchia email lasciando per l’account personale una mail scomoda, che non uso mai. Una volta che me ne sono accorto volevo semplicemente correggere l’errore, ripristinare lo status quo ante. Pensavo che, con i mezzi di un’azienda da 1,7 miliardi di dollari, fosse un’operazione facile come la combinazione mela-Z. E invece sono finito nel tunnel di una prima conversazione da quasi un’ora e una seconda, il giorno dopo, di cinquanta minuti. Senza ancora venirne a capo. La sciagurata vicenda mi ha fatto pensare, in un periodo in cui anche al giornale bestemmiamo per un sistema di note spese che doveva semplificarci la vita e ce l’ha complicata non poco, di quanto tempo perdiamo per colpa di software più a misura di macchina che di uomo. E mi auguro che qualche ricercatore, presto, si entusiasmi all’idea e provi a quantificare il costo, economico e umano, di questo buco nero di energie bruciate.
ANCHE I RICCHI (AMAZON) PIANGONO
E pensare che, ancora qualche mese fa, incensavo proprio la leggendaria assistenza clienti Amazon in un servizio di copertina del Venerdì. È proprio vero quel che Don DeLillo faceva dire al trader protagonista di Metropolis a proposito della Borsa: “Oggi sali su una parola e crolli su una sillaba”.
E ogni anno le lettere si concludono con un «ricordatevi che siamo sempre al Giorno 1», gemello diverso del motto dei Navy Seals («L'unico giorno facile era ieri»). Religione del cliente che si estrinseca al massimo livello con invenzioni tipo il pulsante Mayday sui tablet Fire Hd dove, se qualcosa va storto, basta premerlo e qualcuno interviene direttamente sull'apparecchio. Assistenti così servizievoli che in pochi mesi avrebbero totalizzato almeno 35 proposte di matrimonio, pulsione provata di recente anche dal cronista, alle prese con uno spinoso problemino di software, verso l'impareggiabile Emanuela da Cagliari a cui mando i migliori auguri.
CALL CENTER GRANDE FRATELLO
Qualche anno fa, invece, avevo scritto di un call center particolarmente intelligente che era in grado, dal tono di voce e dalla scelta dei vocaboli, di dirottarvi sulla persona giusta. L’altro giorno, con l’addetto di Amazon (con il quale mi scuso di nuovo), sarei finito molto male se avessero adottato un sistema del genere:
CHICAGO. A chi perde facilmente la calma al telefono con l'ennesima, frustrantissima assistenza clienti, un consiglio spassionato: risparmiatevi i «Lei non sa chi sono io». Non fate bella figura, ma soprattutto è inutile. Se vi trattano come vi trattano è proprio perché lo sanno sin troppo bene. Conoscono quanto valete, commercialmente parlando, e ciò incide sui vostri tempi di attesa. E che tipi siete, dal punto di vista psicologico, gliel'ha rivelato il software che ha registrato e analizzato le vostre chiamate precedenti. In teoria l'operatore con cui state discutendo è quello meglio in grado di gestirvi. In meno di mezzo secondo da quando avete maturato il diritto di parlare con un interlocutore umano, l'algoritmo ha riconosciuto il vostro numero, gli ha associato una personalità, e vi ha dirottato verso l'agente con il temperamento più compatibile. Forse non sapevate di essere un carattere dogmatico, che presume di poter insegnare a tutti come si fanno le cose e non si arrende nemmeno davanti all'evidenza. Al call center, alla sua memoria informatica, era invece chiarissimo ed è per questo che vi hanno riservato uno specialista di casi difficili. Quindi niente escandescenze: senza l'accoppiamento elettronico vi sarebbe andata peggio. Questo almeno è ciò che sostengono alla Mattersight (ex eLoyalty), l'azienda di Chicago che ha investito 75 milioni di dollari per creare questo programma e convinto quattro delle sei principali assicurazioni sanitarie, oltre a una quantità di banche e compagnie telefoniche a usarli. Il motivo per cui questi grossi nomi preferiscono restare anonimi, pur entusiasti dei risultati (telefonate più brevi e soluzioni più frequenti significa risparmi nell'ordine del 20 per cento), è che temono di spaventare i clienti. I quali, come succede da noi, sanno che «la chiamata può essere registrata al fine di migliorare la qualità del servizio». Ma ignorano che possa anche essere passata al setaccio da due milioni di diversi tipi di codice che desume, dalla scelta delle parole e dalla costruzione delle frasi, a che tipo umano appartengano.
PROGRAMMA COME SCRIVI
D’altronde, quando si parlava molto – ricordate la #buonascuola di Renzi? – di insegnare a programmare ai ragazzi avevo scoperto che, dietro ai proclami, il famoso programma di coding consisteva in… un’ora. Alla settimana? No, all’anno.
Il giovane Bill Gates, per dire, cominciò da Tris. Aveva tredici anni e già monopolizzava il computer della Lakeside School di Seattle, di fatto un terminale collegato a un mastodontico calcolatore della General Electric. Si era così appassionato che, per un periodo, lo esentarono dalle lezioni di matematica. Il suo primo programma fu appunto la versione elettronica del gioco per cui si devono allineare tre zero o tre x. Di informatica, era il '68, ne sapeva più lui da autodidatta che i prof. Avanti rapido di quasi mezzo secolo. Scuola elementare italiana. Interno giorno. Con un maestro che, armato delle migliori intenzioni, dovrebbe introdurre gli allievi all'informatica. Ha a disposizione un'ora. Compito arduo.
Tutto parte dal Piano Nazionale Scuola Digitale varato ad autunno 2014 dal ministro dell'istruzione Stefania Giannini. Un pacchetto da oltre un miliardo di euro di cui fa parte Programmare il futuro, ovvero la traduzione dell'iniziativa americana code.org, con Obama come testimonial-in-capo. «Si è partiti l'anno scorso, con un'ora, che dall'anno prossimo dovranno diventare dieci» spiega il coordinatore Giorgio Ventre, «ma al di là del numero di ore è una vittoria che sancisce il valore formativo del pensiero computazionale».
CLICK DAY, FLOP DAY
Intanto, versante pubblica amministrazione, gli italiani sanno che se c’è il corrispettivo della camminata di Kant su cui è possibile rimettere l’orologio è che a ogni click day corrisponde un flop day. Ho chiesto in giro. com’è possibile? parte della risposta ha a che fare proprio con il format scelto e, incomprensibilmente, ripetuto ogni volta, di insuccesso in insuccesso:
Una parte della risposta sta proprio nel format: un giorno solo, se non ore, in cui si concentrano tantissime richieste. Stefano Quintarelli, decano delle cose internettiane e presidente del governativo comitato di indirizzo dell’Agenzia per l’Italia Digitale, l’ha scritto in un tweet recente, in risposta allo stupore per i disservizi dell’ex presidente di Cassa depositi e prestiti Franco Bassanini: «Siamo ancora a fare i click day... Se metti “in palio” qualcosa di ambìto a partire dall’ora x, tutti coloro che vi ambiscono tenteranno di accedere tra le x:00:00 e le x:00:01. Una delta di Dirac, un auto-attacco Ddos (distributed denial of service) istituzionale». Al di là dei tecnicismi un po’ compiaciuti (il Delta di Dirac è un picco improvviso in una curva di distribuzione) l’immagine del Ddos, ovvero il fatto che un sito va giù quando non riesce a sopportare la concentrata quantità di richieste di un attacco hacker, è efficacissima. Con la differenza che gli inconsapevoli hacker siamo noi quando pretendiamo di iscriverci, come ci hanno detto che si poteva fare, per avere indietro il 10 per cento delle nostre spese. Ma se è così chiaro che la modalità concentrata si presta al fallimento (anche se obietterei che quando Amazon indice il Cyber Monday o meglio ancora Alibaba il Singles Day con 74 miliardi di dollari di merci vendute non va mai giù niente), perché continuare a farla? Vorrei chiederlo a Luca Attias, informatico di talento che guida il Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio, ma col cambio di ministro appena avvenuto non rilascia interviste. Lo stesso Quintarelli, per il suo ruolo istituzionale, preferisce non rispondere e mi rimanda alle otto tesi sulla trasformazione digitale scritte assieme a Paolo Coppola, appassionato ex senatore del Pd ora tornato a insegnare informatica all’università di Udine.
E POI C’È L’ESTONIA, PARADISO DIGITALE…
Dove tutto, tranne sposarsi, divorziare e vendere casa, si può fare per via digitale. E dove, essenzialmente, tu metti i tuoi dati una volta e non devi mai più digitarli (avete mai pensato a quante volte avete dovuto ridigitare le stesse, identiche informazioni?). Ci sono stato qualche anno fa e sembrava di essere su un altro pianeta. E no, l’argomento che loro sono pochi e noi siamo tanti è così pigro che non porta da nessuna parte perché, se c’è un sistema scalabile è proprio quello digitale: non servono più addetti, bastano più server.
Tallinn. Tra una parete attrezzata per far crescere piantine idroponiche con una app e un monopattino elettrico che non sfigurerebbe nella Silicon Valley va in scena il film della vita a burocrazia zero di un estone qualsiasi. Siamo nello showroom – questo è, così l’han chiamato – del prodotto migliore che questo civilissimo Stato baltico popoloso come Milano ha da offrire: saper semplificare l’esistenza ai suoi cittadini. Una competenza preziosa, per noi esoterica. La dimostrazione la conduce il project manager Indrek Onnik. Entra con le password nel portale di cittadino dove c’è tutta la sua biografia amministrativa. Ogni rapporto che ha avuto con il settore pubblico è consultabile. La parte più strepitosa è quella sanitaria. Sportivo indomito, si è rotto una clavicola cadendo dallo skate. «Qui c’è il riepilogo fatto dal chirurgo, con tanto di decorso post-operatorio. Qui i farmaci che ho preso dopo e la fisioterapia fatta. Il sistema conosce le mie allergie e, se dovessero prescrivermi un farmaco che interagisce male, lo segnalerebbe in automatico». Breve pausa di fronte all’italico sconcerto: «So cosa pensate: la privacy! Queste informazioni sono visibili solo al vostro medico ma, volendo, potete renderne inaccessibili alcune anche a lui. Basta cliccare su questo lucchetto». Solo lo 0,3 per cento della popolazione adotta questa cautela. L’idea che qualcuno possa approfittarsene è, a queste latitudini, tanto aliena quanto il sole o la frutta matura. In verità, negli ultimi dieci anni, ci sono state due violazioni e ancora se le ricordano. Un poliziotto aveva guardato abusivamente un file dell’ex moglie: è l’ultima cosa che ha fatto prima di finire in prigione. Mentre, per aver curiosato su un documento fuori dalla sua giurisdizione, un medico ha perso la licenza. Trasparenti sì, fessi mai. Qui è tutto a portata di polpastrello, ma se fai il furbo, per così dire, te lo tagliano.
DA VEDERE: THE CHAIR
Per la prima volta diventa preside di una media università americana una donna, asiatica per di più. E subito deve fare i conti con un manager che le dice di licenziare tre vecchi prof con stipendi pesanti e classi leggerissime, perché gli studenti preferiscono altro. E poi la correttezza politica, le relazioni pericolose tra docenti, ecc. Ho appena iniziato The chair (Netflix), ma sembra promettente.
Epilogo
Il terzo giorno, come da antica tradizione, il mio account è resuscitato. Nel frattempo avevo dovuto riconfigurare Alexa, Fire Tv, cambiare le password su telefono, tablet, computer di casa e del giornale. Sì, lo so, c’è di molto peggio. Ma è un piccolo apologo su come la fiducia nel potere del cloud possa risultare mal riposta.