#27 C’è del marcio in Scandinavia
Utøya, fine dell'innocenza; quei democratici svedesi così xenofobi; il reddito di base finlandese; la flexsecurity danese; la near death experience dell'Islanda;This Way Up
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Prologo
Sono andato a sentire un filosofo pop che va per la maggiore e gli ho sentito dire, parola più parola meno, che i soldi non fanno la felicità se è vero che in Svezia stan così bene economicamente eppure hanno suicidi record. Aveva premesso «è una banalità», all’interno di una sera già molto confusa. Ho deciso quindi di tematizzare (grazie Lisa ;-)).
UTØYA, LA FINE DELL’INNOCENZA NORVEGESE
Mi hanno mandato, dopo diciotto mesi di trasferte solo italiane, in Norvegia per scrivere del decimo anniversario della strage di Utøya dove un neonazista uccise a sangue freddo 69 giovani laburisti (più 7 persone con un autobomba in città). Durante i preparativi della trasferta mando un messaggio a un amico di un’amica, norvegese che si è trasferito in Italia da anni. La prima cosa che mi dice è che, a differenza del nostro, la Norvegia è un paese moderno e i mezzi pubblici funzionano. La seconda è che nessuno da loro vive in casa coi genitori dopo i 18 anni. E che a nessuno verrebbe in mente di parlare al telefono ad alta voce sul bus. E via snocciolando. Chiudo la conversazione. Poi intervisto un filosofo che mi dice che loro prendono sul serio lo stato di diritto mentre noi arrestiamo le persone senza prove (può capitare, certo, ma piano con le generalizzazioni). Insomma, per dire che un certo complesso di superiorità ce l’hanno. Poi però arriva Breivik e va tutto in frantumi. L’incipit del pezzo (qui invece il video dall’isola):
UTØYA (Oslo). Nell'isola del massacro c'è un sentiero dell'amore, una fettina di sterrato appiccicata tra il lago e una collinetta che i fidanzatini adoravano perché al riparo dagli sguardi. Ma non dal metodo omicida di Anders Breivik, che, dopo aver sterminato il grosso delle sue prede al chiuso della vecchia caffetteria, l'unico edificio in legno lasciato com'era il 22 luglio 2011 compresi i fori di pallottola nei muri, ne aveva finite a distanza ravvicinata una decina proprio qui. Ma sia questo luogo, Utøya, sia la storia di uno dei lupi solitari di maggior successo nella storia del terrorismo domestico, è lastricata di paradossi. Jens Stoltenberg, l'allora primo ministro norvegese che commentò a caldo la strage di 69 giovani qui e di 8 altre persone a Oslo, disse che Breivik, nella sua personale guerra civile contro l'islamizzazione del Paese, aveva trasformato "quel paradiso in terra in un inferno". Però evitò di identificare nei giovani laburisti (Auf), come lui era stato, le vittime di quella violenza atroce che invece sarebbe stata compiuta contro la democrazia e i suoi valori. E oggi, dopo infiniti dibattiti ed elaborazioni di lutti, è ancora tabù dire le cose per come all'evidenza stanno: ovvero che si trattò dell'attacco premeditatissimo - e rivendicato in un farneticante manifesto di 1.500 pagine - di un uomo con tatuato sul braccio "cacciatore di marxisti" contro un'intera leva di giovani progressisti in quanto quinta colonna dell'invasione del Paese da parte dei musulmani. "Quel giorno ho perso i miei due migliori amici e mi son salvato per miracolo" mi dice Gaute Skjervø, vicepresidente dell'Auf, che allora aveva sedici anni: "Sono furioso. Ma se lo dico, gli altri partiti, compresi quelli al governo, mi accusano di giocare la 'carta del 22/7', ovvero di strumentalizzare la strage. È assurdo ma è così". Da qui parte il tentativo di scoprire se e come la Norvegia è cambiata a due lustri di distanza dal suo 11 settembre.
DIFFIDARE DEI “DEMOCRATICI SVEDESI”
Lo scricchiolamento dei welfare più generosi produce mostri. Me ne ero reso conto qualche anno fa in Svezia, assistendo all’arrivo in parlamento di una formazione di estrema destra (nonostante il nome). Un estratto (qui il video):
STOCCOLMA. Se siamo la stoffa dei nostri sogni, come sostiene Prospero nella Tempesta, allora quello svedese si è parecchio infeltrito. Dopo quasi un secolo in vetrina sotto il sol dell’avvenire, stropicciato come un santino dai progressisti di tutto il mondo, alla fine si è ristretto. La socialdemocrazia resta, giurano a Stoccolma, ma non è più monopolio dei socialdemocratici. Che escono dalle elezioni di settembre con un triplo disastro. Al 30 per cento e spiccioli toccano il minimo storico dal 1914. Il centrodestra, che li ha quasi superati, per la prima volta resta al governo per due mandati consecutivi. E gli xenofobi SverigeDemokraterna, nel Paese che ha fatto della correttezza politica una religione, entrano in parlamento dalla porta principale. «Siamo semplicemente diventati più europei, più normali» sintetizza Hakan Begtsson, direttore del think tank progressista Arena. Il che significa anche sussidi di disoccupazione più scarsi. Permessi di malattia meno generosi. Sconti fiscali per i ricchi. È la fine di un’èra? La novità delle novità si chiama quindi Democratici svedesi (Sd). Bel nome, pessime intenzioni. Ossessionati dall’Islam, dalla sua «intrinseca violenza», a sentir parlare di società multiculturale mettono mano alla pistola. Il trentenne Jimmie Akesson, faccia da bimbo, pochette colorata e argomenti feroci, è il leader che ha ripulito l’immagine del partito. Messa a tacere l’anima neonazi, raddoppia il risultato del 2006 e col sei per cento si aggiudica 20 seggi. Kent Ekeroth, stesso volto rassicurante al netto di occhi glaciali, è il suo luogotenente per i rapporti internazionali che incontro al Riksdag. Snocciola, dividendo ogni ragionamento in tre sottocategorie, i motivi economici, sociali e culturali del perché non ne possono più degli stranieri. Dice che se non ci fosse più questo 15 per cento della popolazione (in percentuale il doppio che da noi), i lavori umili li farebbero i disoccupati locali. E che comunque il grosso sono rifugiati e ricongiungimenti familiari, «inutili all’economia» e anzi zavorre per il welfare. «Abbiamo fatto i conti e, se intervenissimo nei loro Paesi, ne potremmo aiutare infinitamente di più. Anzi, proporremo di triplicare i nostri contributi per la cooperazione internazionale».
IN FINLANDIA IL REDDITO DI CITTADINANZA È UN ESPERIMENTO
Nel 2017 i finlandesi decidono di fare un esperimento: il reddito di cittadinanza. Ma non a caso; prenedranno un gruppo di beneficiari e dopo due anni lo confronteranno con un gruppo di controllo, proprio come si fa negli studi epidemiologici, per vedere se chi ha ricevuto la “medicina” sta meglio degli altri o no. Come benessere complessivo la risposta è stata affermativa, quanto a maggiori probabilità di trovare un lavoro negativa. Così, al termine, l’esperimento è stato sospeso. L’inizio del pezzo:
TAMPERE. A prima vista Mika Ruusunen potrebbe sembrare il peggior testimonial possibile per un esperimento di reddito di base. A novembre, quando è stato sorteggiato, questo ex fornaio quarantaseienne con pizzetto biondo e cintura da mandriano era ancora nelle liste di disoccupazione. Ma già poche settimane dopo lo hanno preso a fare tirocinio pagato in un’azienda informatica dove, se tutto va bene, lo assumeranno ad aprile. E da gennaio riceve anche i 560 euro al mese che il governo finlandese ha deciso di versare per due anni a 2000 cittadini estratti dalle liste di collocamento. «Mi sento davvero molto fortunato, una specie di Gastone a cui sono piovuti addosso dei soldi senza neanche averli chiesti» confessa seduto al bar del venticinquesimo piano dell’hotel Toni da cui si gode una delle più belle viste di Tampere, cittadina con uno sfiorito passato industriale un’ora e mezzo a nord di Helsinki. Ma non sarebbe stato più giusto dare quel sussidio a chi non ha alcuna occupazione? «No, quell’uomo ha fatto esattamente ciò che speravamo facesse» mi assicura, al rientro nella capitale, Markus Kanerva direttore di Tank, la società di consulenza che ha redatto per il governo il rapporto preparatorio al primo progetto su scala nazionale di basic income (Perustulo) al mondo: «Ovvero, trovare un lavoro». Deve ringraziare la sua buona stella, come il personaggio disneyano che ha evocato, o è il sistema che sta (già) funzionando? La risposta si avrà solo nel 2019.
LA FLEXSECURITY DANESE PRESA SUL SERIO
Altra cosa che altrove funziona e da noi è solo un’evocazione, spesso a sproposito. Ero andato in Danimarca per cercare di capire:
COPENAGHEN. Chissà se l’eloquio ben scandito è una dotazione naturale o invece figlio del seminario «addestramento voce». E se la sciarpetta di seta dello stesso turchese degli occhi si deve al senso di Benedicte Christensen per il pendant oppure è il portato del workshop «come vestirsi». Sta di fatto che, quando il cronista le chiede di raccontarsi in tre minuti a favore di telecamera, la trentunenne con master in sviluppo internazionale è chiarissima e resta stupefacentemente nei tempi. Come se in vita sua non avesse fatto altro che dare interviste. Dono della sintesi o effetto delle lezioni di «curriculum» impartite in questo centro di formazione per disoccupati di Copenaghen? Perché in Danimarca essere senza lavoro è un lavoro serio. Non una sciagura devastante come una broncopolmonite. Ma un raffreddore che tutti prendono, prima e poi, e da cui tutti si riprendono.
Il centro al numero 15 di Ryesgade è un tassello esemplare della flexsecurity, quel misto di flessibilità in entrata e in uscita e di sicurezza sociale per cui il mercato danese del lavoro è celebrato. Lo schema, lontanissimo dal nostro, verso il quale il presidente Monti vorrebbe avvicinare il Paese impantanato nella guerra santa sull’articolo 18. E che in sostanza prevede, dietro il pagamento di un’assicurazione volontaria mentre si è assunti, una cospicua indennità nel caso di perdita del posto (fino al 90 per cento, per un massimo di 2000 euro, per un periodo che è stato di 7, 5, 4 e ora è di 2 anni). A patto però che il disoccupato dimostri di darsi da fare. Contattando almeno due potenziali datori di lavoro alla settimana. Facendo il punto ogni tre mesi con i consulenti dei jobcenter pubblici. E partecipando, dopo nove mesi, a sei settimane di formazione «attiva», come fa Benedicte e gli altri che incontro, con coach che cercano di individuare le falle nelle strategie di ricollocamento.
L’ISLANDA MUORE E RESUSCITA
Lo so che non è tecnicamente Scandinavia, ma insomma. La crisi del 2008, complice una certa disinvoltura finanziaria, aveva tramortito l’Islanda. Ma è durata poco. Un estratto:
Prima un breve riassunto. Ancora nel 2007 l'Islanda è presentata come una success story di dimensioni planetarie. Le tre principali banche, che la politica pascola e munge, finanziariamente parlando hanno licenza di uccidere. Prendono a prestito denaro da altre banche europee e lo usano per speculare sui cambi. Creando ricchezza cartacea arrivano a valere dieci volte il Pil del paese. Quando qualcuno mette in dubbio la sostenibilità del modello, una coppia di economisti pagati 135 mila euro per l'incomodo producono un rapportino di 35 pagine dal titolo «Stabilità finanziaria in islanda». Nessun problema. Salvo poi, dopo lo schianto, rettificare online il titolo in «Instabilità». L'anno prima era il paese più felice del mondo. Nel 2009 Transparency International lo conferma al primo posto tra i meno corrotti. Nel frattempo però è venuto giù il mondo. A settembre sprofonda Lehman Brothers. I giochi di prestigio non incantano più. A ottobre è la volta di Landsbanki, Kaupthing e Glitner. Si scopre, tra l'altro, che dieci dei 63 parlamentari avevano con loro un debito medio di 9 milioni di euro. Islanda, Italia. Sulle ceneri calde dello schianto attecchisce la prima leggenda. «Si è detto e si continua a ripetere che abbiamo scelto di non salvarle» spiega l'economista Gylfi Magnusson «ma non è affatto così. Valendo tanto di più dell'intera economia reale, non avevamo i mezzi per farlo». Hanno chiesto aiuto alla Federal Reserve, alla Bank of England, ma la sproporzione era mostruosa. «Nessuna particolare saggezza» conferma il suo collega Gylfi Zeoaga, protagonista del documentario Oscar Inside Job, «ma solo un fortunato incidente che ha fatto sì che i 47 miliardi di euro di buco non si spalmassero disastrosamente su una popolazione di 320 mila anime. Ero in Spagna di recente e ho visto alcuni indignados incitare a fare come i "vikinghi islandesi". Ecco, è una favoletta di cui non abbiamo alcun merito».
DA LEGGERE
Ho moderato una conversazione, diventata un dibattito a tratti movimentato, tra gli autori di due libri recenti a tema lavoro: Noi schiavisti di Valentina Furlanetto e Contro lo smart working di Savino Balzano, entrambi editi da Laterza. Qui il video.
DA VEDERE: THIS WAY UP
Due sorelle, una svitata ma divertentissima, l’altra apparentemente con la testa sulle spalle (al netto di uno scivolone che rischia di compromettere il suo matrimonio). Si ride e si soffre come nella vita, come solo gli inglesi san fare nelle serie. This Way Up (Hulu), per chi ha amato After Life con Ricky Gervais.
DA SENTIRE: NORWEGIAN WOOD
Norwegian Wood, versione Stefano Bollani.
Epilogo
Non c’entra ma, per non lasciar fuori niente, ho scritto dell’ultima evoluzione dell’intelligenza artificiale: il software che scrive software. Si chiama GPT-3. Ucciderà i programmatori?