#20 Guantánamo, Abu Ghraib e altri inferni
La Foster vince ma non convince; quando aspettai i primi taliban a Cuba; il qaedista e il torturatore americano si pentono, il jihadista britannico no; i sussidiari dell'odio; Gli anni del terrore etc
ARTICOLI
.
VIDEO
.
PODCAST
.
LIBRI
.
LIVE
.
BIO
.
![](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep/https%3A%2F%2Fbucketeer-e05bbc84-baa3-437e-9518-adb32be77984.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2F9c266414-e43f-47f3-ad61-6e7fd5e0c62c_780x439.jpeg)
Prologo
Nella mia vita professionale precedente ho lavorato per cinque anni agli esteri di Repubblica. Ai tempi della guerra in Iraq una corvée che toccava a tutti era fare due-tre settimane a Nassiriya perché c’erano i militari italiani. Era il luglio del 2004, se non mi sbaglio. Si trattava di uno dei compiti più giornalisticamente ingrati che ci fossero perché uscivi solo con i militari, sperando di non incocciare in quale ordigno improvvisato, e se non succedeva niente di veramente drammatico non c’era niente da scrivere. La cosa più epica fu il viaggio di andata. Prima tratta Roma-Kuwait City. Lì, con un elicottero dell’esercito, sarei dovuto arrivare a Nassiriya. Peccato che l’elicottero aveva cambiato piani e una volta arrivato mi dissero che, se non volevo aspettare 3-4 giorni in albergo, l’alternativa era andare via terra. In un blindato fino al confine e poi a Bassora, in Iraq. Da lì mi prese in consegna un convoglio militare di tre blindati italiani (io stavo in quello di mezzo) verso la destinazione finale. Mi ricordo pochissime cose. Il soldato-ragazzino che disse sconsolato che la radio tra il primo e il terzo veicolo non funzionava. 200 km di autostrada surrealmente deserta con l’ansia che le rarissime vetture potessero rivelarsi kamikaze. Ma soprattutto l’arrivo. Quando finalmente entrammo nella “bolla” di sicurezza della base italiana il soldato alla ralla, la torretta con la mitragliatrice, si tolse l’elmetto e lo tirò in aria. Anche quella volta era andata. Non ho mai visto da vicino così tanta basilare felicità.
JODIE FOSTER DIFENDE UN INNOCENTE
Guantánamo, Abu Ghraib e decine di dark site, prigioni segrete extraterritoriali rispetto al diritto. Una maledizione per gli uomini, una mano santa per gli sceneggiatori che hanno un canovaccio ideale per raccontare l’inferno in terra. Zero Dark Thirty, The Report, Standard Operating Procedure per citare giusto i principali. Ora arriva Jodie Foster in un film che è più utile che bello (con lei che evita di rispondere alle domande più politiche di un film che non potrebbe esserlo di più). Sono stato sul set – un’altra cosa divertente che non farò mai più – e racconto tutto nel servizio di copertina del Venerdì. Piccolo estratto:
«Senza un’icona americana come Jodie» ammette lo scozzese Macdonald «il film non avrebbe avuto chance: sarebbe stato immediatamente liquidato come propaganda liberal». Con lei a bordo forse lo stesso, ma almeno ha visto la luce. Anzi, il sole assassino che nel mezzo dell’estate sudafricana strema tutti (l’han girato qui per i bassi costi, una varietà di scenari naturali e l’abbondanza di anglofoni con esperienze militari da poter prendere come comparse), a partire dal regista in bermuda e sandali Birkenstock, tutti tranne lei, perfetta in camicia azzurra, rossetto e unghie dello stesso vermiglio e non un capello bianco fuoriposto. D’altronde cosa sono trentadue gradi per una che non ha battuto ciglio neppure di fronte a Hannibal Lecter e che a dodici anni si spogliava davanti a DeNiro in versione squilibrato autista di taxi?
ALL’ARRIVO DEI PRIMI DETENUTI IO C’ERO
A Guantánamo ci sono stato quasi vent’anni fa. Più esattamente nel gennaio 2002 mentre ero in vacanza a Cuba. Lessi da qualche parte che proprio in quei giorni sarebbero arrivati i primi prigionieri nella base americana. Ero a Trinidad e mi misi in viaggio lungo la terrificante Carretera Central, senza lampioni ma in compenso con un’infinità di buche più simili a crateri primordiali. Arrivai di domenica. C’era una partita di calcio. Tutta la città sembrava pensare ad altro. Ovviamente non mi dettero il permesso per entrare nella base però bisogna sempre provarci. Assistetti all’atterraggio da una collinetta che sormontava la base. La cronaca di questa assurda vicenda la trovate, gratis in integrale, qui.
L’IDEOLOGO DI AL QAEDA SI PENTE
Nella primavera del 2009 aveva fatto scalpore il pentimento (in carcere) di uno dei massimi ideologi del qaedismo. Ero andato al Cairo a intervistare il figlio.
Il dottor Fadl ci ripensa e il terrorismo diventa, con poche eccezioni, una bestemmia contro Allah. Stolti quelli che in Medio Oriente festeggiarono l'11 settembre: «È stata una catastrofe per i musulmani, morti poi a decine di migliaia in Afghanistan e in Iraq». Tutto sangue che mette in conto a Osama Bin Laden e Ayman al Zawahiri con i quali, nell'88 a Peshawar, tenne a battesimo Al Qaeda. Dei tre soci fondatori lui era l'intellettuale, quello che a undici anni aveva imparato il Corano a memoria. Se avevano un dubbio religioso i mujaheddin chiedevano a lui l'interpretazione autentica della «Guida essenziale per la preparazione» diventata il manuale dei combattenti in nome e per conto di dio. C'era scritto che la jihad era lo stato naturale dell'islam, che il buon musulmano doveva essere perennemente in lotta con gli infedeli e che il martirio garantiva salvezza eterna. Un libretto tanto incendiario che in molti stati arabi bastava possederlo per finire in galera. Ma il tempo passa e i furori si ammorbidiscono. La carta vetrata del carcere egiziano di Tora, braccio speciale Scorpion, a sud della capitale, può far miracoli nello smussare gli spigoli. Così nel 2007 il prigioniero Sayyid Imam al-Sharif faxa a due giornali la summa del suo nuovo pensiero, assai più conciliante del vecchio. Nessuna tortura, giura, dietro al revisionismo. Lo ripete il figlio Ismaiel che, dopo una lunga trattativa, il Venerdì incontra al Cairo. Il risultato è un attacco alzo zero contro le fondamenta teoriche del qaedismo. Un anatema che, a una settimana dalla visita di Barack Obama per rilanciare il dialogo col mondo arabo, ha acceso un dibattito che non accenna a spegnersi.
GLI INCUBI DI UN TORTURATORE
A proposito del male fatto in nome della mal pensata “guerra al terrore” nel 2012 sono andato a New York a intervistare un interrogatore di Abu Ghraib pentito. Una persona mite, a parlarci allora, quella che vedete qui sopra, che ho incontrato da Veselka, un ristorante ucraino del Lower East Side che a lungo è stato uno dei miei posti preferiti. Nessuno si pente con grazia cinematografica come gli statunitensi:
È una storia con tutti gli ingredienti dell'epica americana quella di Eric Fair, Eric "il giusto" a voler credere al destino scritto nei nomi: la guerra e Dio sull'elmetto, il male compiuto nella tragica illusione che servisse a un bene più grande, la forza fisica e la malattia. Nell'attesa che Hollywood prenda nota, ha cominciato a raccontarla lui stesso. Si è iscritto al Veterans Writing Workshop della New York University dove ogni sabato ex combattenti, sotto la guida di insegnanti di scrittura creativa, esorcizzano le loro esperienze, una pagina alla volta. Il primo risultato è stato un lungo articolo apparso sulla rivista online Ploughshares. Ma la confessione pubblica a mezzo stampa era iniziata nel febbraio del 2007, quando Fair aveva spedito al Washington Post un breve editoriale autobiografico. Raccontava il suo Iraq e quello dei colleghi. Documentava gli abusi. E concludeva che quelle "tattiche erano, oltre che inutili, terribilmente sbagliate", come i suoi incandescenti ricordi gli ribadivano ogni notte. Era stato onesto e, sebbene tardivamente, coraggioso. Alla firma aveva aggiunto l'indirizzo email. Ne aveva ricevute un migliaio in un giorno. Una gli augurava di "bruciare all'inferno, figlio di puttana". In un'altra il possessore di una calibro 45 gliela metteva gentilmente a disposizione. Ma quella che ricorda per intero diceva così: "Mister Fair, le sue parole sono vuote e superficiali. Non ne accetto neppure una. Ma si lasci dare un consiglio se davvero vuole fare una cosa onorevole: si uccida. Lasci un biglietto. Faccia i nomi. E, fino a quel giorno, spero che non dormirà più un giorno per il resto della sua vita". L'anatema stava già funzionando. Aveva preso in considerazione le conseguenze legali di quel passo ("l'evenienza di finire in carcere"), ma non la magnitudine di quelle emotive. Così l'indomani aveva chiuso il suo account Facebook e Linkedin e cominciato, se possibile, a dormire ancora peggio di prima.
LONDONISTAN, LA FUCINA DELLA JIHAD DA ESPORTAZIONE
Due anni dopo, nel 2014, a Londra ho incontrato una delle figure di spicco dell’islamismo britannico. Uno che diceva cose così mostruose che a un certo punto l’hanno espulso come persona non grata. Da piccolo aveva visitato, di tutti i posti, Viareggio, dove sono nato. Il pezzo iniziava così (il video è stato rimosso da Youtube non so perché):
LONDRA. L’aspirante importatore ufficiale della sharia a Londra ordina vaniglia e menta in una gelateria dalla pareti rosa e le luci fluo nella periferia di Walthamstow. È l’ultimo posto al mondo dove ti aspetteresti di incontrare l’uomo che festeggiò l’11 settembre, che ha affisso volantini minacciando quaranta scudisciate ai gestori dei negozi islamici che vendano alcol e che oggi vede nell’Islamic State (Is) la realizzazione in terra delle promesse del Profeta. Ma Anjem Choudari, a capo di gruppi che l’organizzazione antirazzista Hope Not Hate ha definito «la principale porta di accesso al terrorismo della storia britannica», è due terzi cliché e un terzo sorprese. Come quando ti racconta della sua estate italiana da ragazzo, a lavoricchiare in un cantiere navale di Viareggio per poi spassarsela al mare, o quando tace delle grandi bevute e dello scapigliato womanizing all’università. Un’altra vita, recisa di netto dalla spada di Allah. Così oggi si meraviglia di chi non coglie un’ovvietà: «Perché i volontari vanno a lottare in Siria e in Iraq? Perché nel califfato che stanno costruendo non ci sono gioco d’azzardo, omosessualità, né crimine rampante. Mentre vitto e alloggio sono assicurati a tutti. Gli ingredienti per un’esistenza felice». A meno che tu sia sciita, sunnita di qualsiasi gruppo avversario, yasida o anche giornalista agnostico, se è per quello. O che tu non cada in battaglia. E i civili morti? «C’è molta propaganda». Calo dunque la carta dell’amore filiale: «Non ha fatto impressione, a lei che ha cinque figli, l’appello della madre del morituro Sotloff?» Svia: «Ma chi le dice che fossero solo giornalisti? E perché non ci si rammarica delle migliaia di iracheni morti per l’invasione americana?».
LA GUERRA ALL’INFEDELE INIZIA DAI SUSSIDIARI
Sempre a proposito di propaganda e altre follie nel 2016 scrivevo dei sussidiari del Califfato dove i bambini imparano la matematica sottraendo e moltiplicando jihadisti, infedeli e kalashinikov. Una didattica con origini lontane. Con un finanziatore originario a sorpresa: la Cia!
Sottrazioni: «In una battaglia gli eroi dello Stato islamico erano 275.220 mentre i codardi infedeli erano 356.230. Quale esercito è più grande?». Moltiplicazioni: «Se il numero di migranti verso il Califfato è di 230 al giorno, quanto sarà il totale in 32 giorni?». Divisioni: «In una missione 87 combattenti sono distribuiti equamente all’interno di tre zone. Quanti combattenti ci saranno in ciascuna zona?». Fare di conto al tempo dell’Is, sui manuali jihadisticamente corretti diffusi nelle scuole elementari di Mosul dall’ufficio propaganda del Califfato. D’altronde se ambisci a diventare Stato non puoi trascurare i servizi essenziali. Lo sanno Hezbollah, la mafia, i narcos e ora anche gli uomini dello sceicco Abu Bakr al-Baghdadi. Con un supplemento ideologico tipico delle dittature più distopiche, ovvero plasmare già sui banchi le teste di ragazzini da avviare al martirio. (…)
Stesso Paese, poco più di trent’anni fa. Quesito di matematica, terza elementare: «Un gruppo di mujaheddin attacca 50 soldati russi. In quell’attacco ne vengono uccisi 20. Quanti russi sono riusciti a fuggire?». Quarta elementare, un po’ più difficile: «La velocità di un proiettile di kalashnikov è di 800 metri al secondo. Se un russo è a 3.200 metri di distanza da un mujahid che gli sta mirando alla testa, calcolate quanti secondi ci vorranno per la pallottola per colpire il russo nella fronte». Erano i curriculum, messi a punto con la consulenza del Center for Afghanistan Studies dell’Università del Nebraska con i soldi della Cia, per i bambini afgani, in chiave antisovietica.
A denunciare l’amnesia selettiva dell’amministrazione Bush sulle cause del «crescente estremismo islamista nel mondo» fu undici anni fa Hamida Khuhro, ministro dell’istruzione del governatorato pachistano del Sindh sul quotidiano di Lahore The Nation. È avvenuta una vera e propria mutazione genetica dell’islam. Prima la jihad – spiegava nel libro Musulmani buoni e cattivi l’antropologo Mahmood Mamdani – al più giustificava la violenza per difesa, mentre «la nozione militarista fu formulata come ideologia completa nelle madrasse, con manuali pensati e finanziati dai servizi segreti per un ben preciso scopo militare». Che ora, a parti invertite, tragicamente ritorna. È il destino della gramigna: una volta che ha attecchito diventa difficilissimo estirparla.
DA LEGGERE: GLI ANNI DEL TERRORE
Lawrence Wright è un giornalista fenomenale. Ha scritto pochi libri, molto importati, tra cui Gli anni del terrore (Adelphi) a proposito del quale l’avevo intervistato qui.
L’Agenzia avesse risposto alle richieste d’informazioni di Soufan – indizi che avrebbero denunciato la presenza di al-Qaeda in America venti mesi prima dell’11 settembre –, è molto probabile che gli attentati di quel giorno non sarebbero mai avvenuti. Ancora oggi la Cia non è riuscita a identificare alcun responsabile di questa catastrofica negligenza.
«Qutb è stato il più importante teorico dei movimenti fondamentalisti » scrisse Zawahiri nel dicembre 2001, in un breve memoriale intitolato Cavalieri sotto la bandiera del Profeta. (…) Qutb divide il mondo in due fronti: l’Islam e la jahiliyya. Quest’ultima, nel tradizionale discorso islamico, indica l’epoca di ignoranza esistente in tutto il mondo prima che il profeta Mohammed iniziasse a ricevere la sua rivelazione divina, nel settimo secolo.
Si chiamavano al-Gama‘a al-Islamiyya: il Gruppo islamico. Incoraggiato dall’acquiescenza del governo di Sadat, che lo riforniva segretamente di armi in modo che si potesse difendere da eventuali attacchi dei marxisti e dei nasseriani, il Gruppo islamico radicalizzò la maggior parte delle università egiziane. Rapidamente si diffuse tra gli studenti la moda di farsi crescere la barba, e tra le studentesse di portare il velo.
Zawahiri decise di cercare i finanziamenti nell’epicentro mondiale degli investimenti venture capital, la Silicon Valley. Era già stato una volta negli Stati Uniti, nel 1989, in missione di reclutamento presso la filiale di Brooklyn dell’Ufficio Servizi dei mujahidin. Vi ritornò nel 1993, questa volta a Santa Clara, in California, dove incontrò il dottor Ali Zaki, ginecologo e leader civico di primo piano a San Jose. « Si presentò come delegato della Mezzaluna Rossa del Kuwait » dice Zaki.
Zawahiri fu un pioniere nell’impiego di attentatori suicidi, che divennero un marchio di fabbrica degli assassinii di al-Jihad. innovazioni di Zawahiri fu la registrazione su videocassetta del giuramento di martirio.
DA VEDERE: IL METODO KOMINSKY
Quando Cristina Guarinelli me ne ha parlato bene non mi ero subito fidato. Aveva, come al solito, ragione lei. E da stasera arriva su Netflix la terza stagione di Il metodo Kominsky, tra amori, prostate e altre catastrofi. Come spiegava il mai abbastanza compianto Battiato “I desideri non invecchiano/quasi mai/con l’età”.
DA SENTIRE: BIKO
Parlando di altri prigionieri, reclusi nel Sudafrica dell’apartheid (The Mauritanian, su Guantánamo, è girato in Sudafrica), mi è venuto in mente Biko, un gran pezzo di Peter Gabriel che, una vita fa, suonavo in una band assieme a un lettore affezionato de Lo stato delle cose a cui dedico questo revival.
Epilogo
Nell’ultima Galapagos (la grafia italiana è senza accento, mi sa che d’ora in poi la semplifico così) scrivo di una nuova dicotomia sociale. Una volta c’erano i lavori manuali e quelli intellettuali, le tute blu e i colletti bianchi. Oggi e ancor più domani ci saranno quelli che lavorano “sotto” e “sopra le Api”. Non c’entrano gli insetti cari all’illuminista Mandeville ma le Application programming interface che fanno parlare tra loro i computer. Sotto quelli che prendono ordini dall’algoritmo (i magazzinieri di Amazon, i rider, etc), sopra quelli che li impartiscono (tutti coloro che usano il computer come strumento e non come capo). È utile familiarizzare da subito con questa potenziale nuova lotta di classe.