#19 C'è chi dice no (in Israele)
Breve storia di un libro abortito sui refuseniks; Esecuzioni a distanza; Le Bureau des légendes + Samouni Road; La canzone del maggio
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Prologo
Nella notte, alla fine, è arrivato il cessate il fuoco. Dopo undici giorni infernali che hanno lasciato 232 morti a Gaza (tra cui una settantina di bambini) sotto le bombe dell’esercito israeliano e 12 in Israele (tra cui due bambini) per i razzi di Hamas. È una tragedia immane. E un tema così radioattivo che da anni mi mordo la lingua per evitare di parlarne. Dopo che mi era costato discussioni aspre con persone con le quali, per il resto, andavo d’accordissimo. Ma a forza di mordersela la lingua sanguina. Soprattutto si dovrebbe poter dibattere seriamente della questione israelo-palestinese senza essere immediatamente impallinati dalle solite demenziali equazioni (“critichi le politiche di Netanyahu, allora sei antisemita”; “denunci la carneficina dei bambini di Gaza allora sei per Hamas”; e via ricattando). È imbarazzante, ma purtroppo non inutile, dover specificare che l’antisemitismo è abominevole, sono impastato di cultura ebraica (a cominciare dal mio pantheon letterario) e ripudio la violenza di Hamas in tutte le sue forme. Però condanno anche quella dell’esercito israeliano quando bombarda i palazzi e fa strage di civili. È una contabilità macabra quella tra morti palestinesi e israeliani che però dice molto sui rapporti di forza (Ian Bremmer ha compilato una cronologia di questa drammatica disparità). Così mi aspettavo che Enrico Letta, giustamente sollecito nello scendere in piazza per le vittime di Tel Aviv, lo fosse altrettanto (non dico venti volte di più, ma altrettanto) nel manifestare a favore di quelle palestinesi. In questa ennesima, cruenta puntata di una guerra infinita ci sono vari elementi di novità tra cui lo sdoganamento dell’estrema destra israeliana che predica la pulizia etnica e la ribellione degli arabi israeliani. Oltre che la scomparsa, dal discorso pubblico, dei palestinesi come esseri umani distinti da Hamas (se la Lega vincesse le elezioni, per dire, faremmo ancora le distinzioni tra Lega e italiani, no?). Ecco, secondo me bisognerebbe tornare a parlare di loro, come fanno tantissime persone di buona volontà in Israele e altrove.
LETTERA A UN LIBRO MAI NATO
Oltre alle novità però ci sono anche degli elementi ricorrenti. Nell’autunno del 2003 ventisette piloti dell’Israeli Defence Forces fecero scalpore pubblicando una lettera aperta in cui dicevano che d’ora in poi non avrebbero più partecipato a bombardamenti “illegali e immorali” che rischiavano di uccidere civili palestinesi. Mi era sembrata una bella storia da raccontare. Ne avevo parlato con un editore che mi aveva detto che il soggetto lo interessava e sì, si poteva farne un libro. Siccome eravamo in buoni rapporti e i tempi per la partenza erano stretti, eccezionalmente partì senza contratto, a spese mie, per due settimane tra Israele e Territori occupati. Non ho mai conosciuto persone che avessero così tanto riflettuto su una scelta esistenziale e che fossero in grado di spiegarla in termini tanto cristallini quanto quei soldati. Al ritorno scrissi l’introduzione e la mandai all’editor. Passano i giorni e non mi risponde. Quando infine lo chiamo mi dice che ci ha pensato meglio e forse sarebbe il caso di trasformarlo in un capitolo di una storia più ampia sull’obiezione di coscienza. Ero così stupefatto che non sono neppure riuscito ad arrabbiarmi. A quel punto, smaltita la delusione, lo propongo a un altro editore che mi dice «sì, magari però mettendo dentro anche i refuseniks di destra che non vogliono intervenire sugli insediamenti». Ringrazio e declino. Il terzo editore dice «interessante ma sai, è una materia delicata». E su quali altre materie si dovrebbero scrivere i libri? Quindi, a rivedere le stesse scene in tv, ho pensato di ritirare fuori dall’oblio quel testo e riproporlo qui, come semplice testimonianza di un passato che sembra non passare mai. Per la sua lunghezza è un’eccezione monografica rispetto al format normale di Lo stato delle cose e resterà tale.
BANDIERA NERA
Perché i migliori soldati d'Israele rifiutano l'occupazione
Fu un'esplosione che squassò molte coscienze. D'altronde una bomba da una tonnellata non è ordigno che deflagra senza lasciare conseguenza, anche sulla morale callosa di soldati che hanno già visto tutto il male del mondo. Perché nell'inestricabile assurdità di quella guerra segnava un salto di qualità, un inedito che rinnovava lo sconcerto. I fatti sono questi. A mezzanotte circa del 22 luglio 2002 un caccia F-16 sganciò un obice da 1000 chilogrammi su un'abitazione in uno dei quartieri più popolati di Gaza. Il bersaglio di quella operazione dell'aviazione israeliana era Saleh Shehadeh, uno dei leader di Hamas, l'ala radicale del movimento di liberazione palestinese, ritenuto responsabile di vari attentati terroristici. La bomba però non si portò via soltanto il suo destinatario ufficiale ma anche la moglie, le guardie del corpo e 14 altri civili, per la maggior parte bambini, che avevano l'unica colpa di abitare a un domicilio sbagliato. Varie altre decine di persone, nessuno ha mai fornito la stima ufficiale, furono ferite più o meno gravemente. Dei quattro piani dell'edificio, d'altra parte, non era rimasto niente. In un video girato quella notte gli abitanti dei due palazzi confinanti guardavano sconvolti dalle pareti che erano state strappate via dall'esplosione nell'enorme buco in mezzo. Era come un grande molare di cemento e mattoni estratto, questo sì con perizia chirurgica, da una tenaglia al tritolo. I sopravvissuti maledicevano Sharon e l'America che lasciava che tutto questo accadesse. Il corpo di Shehadeh, probabilmente polverizzato, non fu mai ritrovato e nacquero varie leggende che si fosse miracolosamente salvato.L'indomani la notizia era sulla prima pagina di tutti i quotidiani israeliani. E quando il portavoce parlò con orgoglio di "un importante successo per le Israeli Defence Forces" più d'uno fece notare che l'obiettivo era stato centrato a scapito di almeno quattordici vittime
innocenti. Mai, nella oltre ventennale storia delle cosiddette "uccisioni mirate", la mira era stata così grossolana. Un'indagine interna concluse che l'intelligence, responsabile delle informazioni sulla base delle quali si decidono le modalità di questi raid, si era sbagliata. "Dovevano esserci solo la moglie e le guardie del corpo" spiegò un rapporto. Intanto il dibattito infuriava: era accettabile che una democrazia adoperasse questi mezzi? E uno Stato che assumeva il rischio di pagare questo prezzo in termini di vite umane poteva ancora dirsi "morale"? Qualcuno doveva rispondere. Nei giorni successivi alla carneficina l'allora comandante dell'aeronautica, generale Dan Halutz, si schierò in difesa dei suoi uomini: "Non avete niente da rimproverarvi. Avete eseguito il compito in maniera perfetta, superba". Un mese dopo, intervistato da Haaretz, ribadì che la sua coscienza era cristallina e perciò "dormiva sonni tranquilli". "Vuole proprio sapere cosa provo quando pigio il bottone per sganciare una bomba? - replicò seccato al cronista - Un leggero sobbalzo dell'aereo, come effetto dello sganciamento. Un secondo dopo è passato, e questo è quanto. Ecco cosa provo".Ci sono frasi che segnano una biografia, e che non si vorrebbero aver mai pronunciato. Quella del generale Halutz, la cui nomina a vice capo di forza maggiore dell'esercito è stata impugnata davanti alla corte suprema proprio per quella disgraziata uscita, è una di queste.
"Sentirgli dire che quel crimine non gli toglieva il sonno suonò per me come una sveglia assordante" ricorda oggi Yonathan Shapira, uno dei 27 piloti che nel settembre del 2003 avrebbero spedito la loro lettera aperta alle autorità e ai giornali, mettendo per iscritto i motivi della loro indisponibilità a continuare a servire militarmente nei territori occupati. "Noi, per i quali l'Idf e l'aviazione sono parti integranti di noi stessi - vi si leggeva -, rifiutiamo di continuare a fare del male a civili innocenti. Questi attacchi sono illegali e immorali e sono il risultato diretto dell'occupazione attuale che corrompe tutta la società israeliana". Il documento fece gran rumore. Che i piloti, i fiori all'occhiello delle forze armate, annunciassero la loro ribellione era sin lì impensato. E che tra loro ci fosse anche il generale Iftach Spector, il "barone rosso" dell'aviazione con la stella di Davide, l'unico che aveva abbattutto quindici velivoli nemici in combattimento e che aveva portato a termine missioni all'apparenza impossibili, era ancora più sconcertante. Dal lago di Tiberiade al deserto del Neghev non si parlava d'altro: traditori o veri patrioti? E mentre la strenua dialettica ebraica passava al setaccio pubblico i motivi per l'una o l'altra conclusione, un secondo documento rinfocolò ulteriormente la discussione.A dicembre, infatti, tredici ufficiali del Sayeret Matkal, le prestigiosissime forze speciali, scrissero al premier Ariel Sharon e, per conoscenza, al ministro della Difesa, al capo di forza maggiore dell'Idf e al comandante del corpo cui appartenevano: "A causa di un profondo senso di inquietudine per il futuro di Israele come stato democratico, sionista ed ebraico - spiegavano - e per la preoccupazione riguardante la sua integrità morale e i suoi valori, non possiamo più rimanere in silenzio". Seguiva una lista a punti: "Non prenderemo più parte nella violazione dei diritti umani di milioni di palestinesi", "Non forniremo più uno scudo protettivo per la campagna di insediamento", "Non comprometteremo la nostra umanità partecipando ad azioni di un esercito di conquista" erano alcuni degli impegni. Niente diserzione, sia chiaro, né ripensamenti sulla propria vocazione di soldati: era l'esercito a essere cambiato, non loro. "Molto tempo fa abbiamo varcato il confine della lotta per una giusta causa e adesso ci troviamo a combattere per opprimere un altro popolo". Quindi "Non passeremo più quella linea! Vorremmo dirlo chiaramente: continueremo a difendere lo stato di Israele, la sua sicurezza e i suoi cittadini contro i suoi nemici. Chi osa vince".
Quello dei refuseniks non era un fenomeno nuovo. Fu nell'82, nel bel mezzo della guerra del Libano, che vide la luce Yesh Gvul ("C'è un limite"), un gruppo che invitava a rifiutare di combattere in una guerra ingiusta, non di difesa, fuori dai confini nazionali. Fu un movimento che fece scalpore perché metteva in discussione l'obbedienza a uno dei principali pilastri dello Stato, l'esercito. Ma quella guerra era osteggiata dalla maggior parte della popolazione e allora non esistevano i kamikaze che si andavano a far saltare in aria per le strade di Gerusalemme o Tel Aviv. Alla fine l'esercito si ritirò dal Libano, gli obiettori presero la loro parte di successo e stettero in silenzio per un bel po'. Negli anni '90, d'altronde, le speranze per un processo di pace toccarono il loro massimo storico. Nel '91 si apre la conferenza di Madrid, nel '93 iniziano a Oslo negoziati segreti tra Israele e Olp che a settembre si riconoscono reciprocamente e firmano una "dichiarazione di principi", nel '94 Arafat rientra a Gaza come capo della neonata Autorità palestinese, al Cairo si trova un accordo sul ritiro parziale dai Territori, nel 2000 Barak e il leader palestinese riprendono i negoziati a Camp David. Fu con la seconda "rivolta delle pietre" che ogni traccia di ottimismo svanì di colpo e il dissidio morale di molti soldati israeliani si fece lancinante. "In quanto membro dell'Idf - è il ragionamento più condiviso dai soldati che ho incontrato - sono pronto in ogni secondo a morire per il mio Paese. Ma il nostro è, già dal nome, un esercito di difesa. Quando andiamo nelle terre dei palestinesi e facciamo perquisizioni notturne in casa loro, li obblighiamo a controlli estenuanti ai check point, li priviamo della loro libertà e dei loro possedimenti, radiamo al suolo le loro case e sradichiamo i loro ulivi secolari, non siamo più, in nessun modo, una forza di difesa".
Chi critica le loro posizioni dice che è tutto molto triste ma necessario: "Noi li uccidiamo prima che loro uccidano noi" è l'argomento più ripetuto, una sorta di variante del "preemptive strike" che George W. Bush ha applicato su larga scala in Iraq; "altrimenti diventeranno attentatori suicidi e si faranno esplodere uccidendo i nostri figli". Una contabilità di sangue incontrovertibile che, nei quattro anni dall'inizio dell'Intifada Al Aqsa, ha fatto contare quasi 1000 morti sul versante israeliano e oltre tre volte tanti su quello palestinese. Ma questo libro non tenterà neppure di avvicinarsi alle radici del conflitto, il ginepraio geopolitico più intricato dell'ultimo secolo. Vorrebbe limitarsi a raccontare, attraverso alcune storie emblematiche, l'impatto che le scelte personali di alcuni dei migliori soldati di Israele stanno avendo su quella società martoriata. Perché se a chiedere la fine dell'occupazione e la garanzia di condizioni di vita decenti per i 3,5 milioni di palestinesi confinati da decenni in territori residuali è un palestinese, la sua voce si perde nel vento. Se è un occidentale, americano o europeo che da migliaia di chilometri di distanza può permettersi il lusso dell'empatia, viene liquidato come estremista di sinistra o pacifista ideologico. Ma se a parlare sono i figli prediletti di Israele, cresciuti ai valori del sionismo, che hanno ripetutamente messo a disposizione la loro vita per difendere quegli ideali, vale la pena di aprir bene le orecchie. Tantopiù che - e non è un dettaglio da poco - costoro sono gli unici israeliani in grado di valutare "dal vivo" il punto di vista del "nemico". Gli abitanti di Gerusalemme conoscono sin troppo bene l'esperienza tragica delle bombe sui bus ma possono solo immaginare, attraverso i resoconti giornalistici o le testimonianze di seconda mano, la realtà quotidiana di Gaza o della Cisgiordania. I soldati no, hanno informazioni dirette: sono loro stessi che, il più delle volte, decidono la forma che la vita nei territori può assumere, aprendo o chiudendo un posto di blocco, disponendo o meno un controllo documenti. E mentre la popolazione civile, comprensibilmente anestetizzata da attentati sanguinosi e frequenti, finisce per riuscire a immedesimarsi sempre meno nelle sorti dei vicini palestinesi, quella militare, protagonista
o testimone in presa diretta di quelle stesse vicende, è sempre più inorridita da quel che vede. E lo denuncia a voce alta, di modo che anche chi sta a casa possa comprenderlo.Un dissenso che aumenta di qualità, toccando livelli inimmaginabili (i piloti, le forze speciali) e che Israele teme. "Essere militari significa obbedire" semplifica il ragionamento delle forze armate, "ne va della sopravvivenza dell'esercito, e quindi dello Stato". Ma i refuseniks non accettano il sillogismo: "Ci sono ordini - ribattono - che un buon soldato deve saper rifiutare, ne va della sopravvivenza dell'essere umano che sta sotto la divisa". E citano una vecchia giurisprudenza della corte marziale che fece epoca: "Gli ordini manifestamente illegali non devono essere obbediti" scrisse in una sentenza del 1956 il giudice Benjamin Halevy, aggiungendo che in quei casi è come se "una bandiera nera ci sventolasse sopra". Quella volta si trattava della fucilazione sommaria di 43 palestinesi che non sapevano che era stato imposto un coprifuoco. Oggi la "black flag" viene invocata quando un comandante chiede di sganciare una bomba da una tonnellata in un centro abitato per uccidere un solo uomo. Oppure quando si ordina di lanciare granate su abitazioni senza sapere bene chi c'è dentro. O ancora quando si pesta a sangue un ragazzetto fermato a un check point, ammanettato e quindi incapace di nuocere, solo perché aveva avuto la malaugurata idea di rispondere a tono ai poliziotti militari. Ecco, gli oltre 1000 soldati israeliani che in questi anni hanno pagato con il carcere o la radiazione, e un ostracismo sociale enorme per aver detto di no all'ordine di servire nei Territori sono convinti che "l'ordine manifestamente illegale" non va invocato di volta in volta ma che la bandiera nera che lo riassume metaforicamente garrisca, sempre e comunque, su ogni operazione che l'esercito vi svolge. "Da 37 anni teniamo sequestrato un popolo, ogni azione militare compiuta in quella prigione a cielo aperto è illegale" sintetizza Zohar Shapira. Che non è un pacifista allevato negli ashram di Sai Baba ma uno degli ex comandanti più stimati delle "teste di cuoio", figlio di un pilota di caccia e fratello di un (ex) navigatore di Black Hawk. Ci ha messo così tanto tempo per prendere questa decisione, gli è costata così tanta sofferenza che davvero non vuole essere frainteso: "Siamo due popoli che hanno il diritto di vivere liberi dal terrore. Se si trattasse di fermare un kamikaze che sta per uccidere altre persone lo farei anche a mani nude, con tutto il mio cuore. Ma non voglio più che la mia condotta quotidiana generi altri attentatori suicidi e si macchi del sangue di troppi civili innocenti. Perché non riuscirei mai più a dormire sonni tranquilli".
DA LEGGERE: ESECUZIONI A DISTANZA
William Langewiesche, pilota d’aereo e giornalista narrativo sopraffino, qualche anno fa scrisse questi due lunghi articoli sulla solitudine dei cecchini e di quella dei piloti di droni a migliaia di chilometri di distanza dal teatro di guerra, poi raccolti in un libricino da Adelphi.
È un tiratore scelto dell’esercito, cioè una persona seria che fa un lavoro serio, dal quale sono tuttavia attratti megalomani e psicopatici.
In Vietnam le forze armate americane hanno ucciso circa tre milioni e mezzo di persone.
Per sparare un missile, ad esempio, il pilota deve entrare in una quantità infinita di menu, e azionare il mouse più di diciassette volte.
A quanto risulta, negli ultimi due anni, sui vari fronti in cui siamo impegnati i droni hanno ucciso più di 700 innocenti.
il Predator è talmente sensibile all’acqua da dover rientrare nell’hangar prima che cada anche solo una goccia.
DA VEDERE: LE BUREAU DES LÉGENDES
A proposito di altre latitudine mediorientali questa bellissima serie francese il cui eroe/antieroe è un fenomenale Mathieu Kassovitz nei panni di un inarrestabile infiltrato dei servizi segreti. A differenza di un possibile corrispettivo americano è un uomo pieno di contraddizioni e di dubbi. E non c’è neanche mai una bandiera francese che garrisce al vento! Le prime tre stagioni in chiaro su Amazon Prime, in attesa delle ultime due.
+ BONUS TRACK: SAMOUNI ROAD
Per farvi un’idea delle condizioni di vita a Gaza, quotidianamente alle prese con la manutenzione della morte e le sue conseguenze, guardatevi il magnifico Samouni Road di Stefano Savona che nel 2018 ha vinto il premio Oeil d’Or al festival di Cannes come miglior documentario.
DA SENTIRE: LA CANZONE DEL MAGGIO
La canzone del maggio di Fabrizio de André, inutile specificare una strofa. E grazie a mio padre per averci portato in casa tutta la sua discografia.
Epilogo
Ci ho pensato parecchio per decidere se fare o no questo numero speciale della newsletter. Ho visto i troll scatenati contro Gad Lerner per aver detto semplicemente che è legittimo «criticare Israele da amici» e quelli letteralmente inferociti contro Moni Ovadia, una delle persone più miti in circolazione, per aver definito quello di Israele un governo segregazionista (appellativo che sulle pagine del quotidiano Haaretz si ritrova abitualmente). Il quieto vivere sconsigliava la pubblicazione. Ma per il quieto vivere c’è ancora tempo.