#186 Manuale di giornalismo narrativo
Ovvero tre cose: 1) Un'antologia da Wolfe, Foster Wallace, Carrère, Didion, etc 2) Un tentativo di critica letteraria degli stessi autori 3) Un bel po' di consigli pratici per un buon reportage
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Prologo
Questa lunga anticipazione è contenuta nel Venerdì in edicola. Venerdì cui il libro è dedicato (“paradiso in terra di giornalismo”). E, per una volta, ecco una bella storia di amore corrisposto.
PERCHÉ QUESTO LIBRO
Nelle scuole di giornalismo italiane tendenzialmente non si insegna lo stile. Se cercate lezioni di giornalismo narrativo le troverete in quelle di scrittura, tipo Holden, Belleville e così via. È per provare a colmare questo vuoto che ho deciso di radunare in Scrivere dal vero. Manuale di giornalismo narrativo (Sellerio) il meglio degli scrittori che si sono cimentati nei reportage e dei giornalisti che si sono scrollati di dosso le catene della tradizione. Da Tom Wolfe a David Foster Wallace, da Emmanuel Carrère a Gabriel García Márquez, da Juan Villoro a Joan Didion e Eliane Brum, oltre a molti altri. Un po’ antologia ragionata. Un po’ critica letteraria. Un po’ cassetta degli attrezzi. Col «divertimento infinito» di scegliere, riproporre e ascoltare scritture diverse ma sempre cristalline. Come ci dimostra l'estratto dalla fuoriclasse brasiliana Eliane Brum.
ELIANE BRUM, O DEL RACCONTARE LA FAVELA
L’anticipazione di quattro pagine dal Venerdì:
Joan Didion a un certo punto ha scritto che «forse tutti noi dovremmo conoscere i miliardari di persona» anche solo per capire quanto siano sconnessi dalla vita vera. Ecco, Eliane Brum, teorica dei Brasili plurali rispetto a un inesistente Brasile singolare, si colloca agli antipodi. Frequenta solo il mondo di sotto degli abitanti delle favelas (prima di occuparsi dell'Amazzonia) che – provare per credere – a dispetto delle condizioni materiali non sono posti tristi. In Le vite che nessuno vede questa giornalista pluripremiata ci conduce in luoghi che altrimenti avremmo potuto solo immaginare. E non ci saremmo comunque riusciti. (...) Il suo modus operandi, a partire dall'origine del titolo della raccolta di articoli che entusiasticamente saccheggiamo, lo spiega così: «La rubrica che firmavo, pubblicata ogni sabato, si chiamava La vita che nessuno vede. In questo spazio di una pagina, scrivevo storie su quelle che si definiscono "persone comuni". Quelle che non fanno notizia o le cui vite – e morti – occupano tutt’al più una nota a piè di pagina. Scrivevo proprio per mostrare che non esistono vite comuni, ma solo sguardi addomesticati. Occhi incapaci di vedere che ogni vita è tessuta con il filo della straordinarietà. Purtroppo, questi sono i nostri occhi».
Certo, prendere tutto sul serio, verificare anche il più piccolo dettaglio può comportare una fatica immane. Talvolta per risultati frustranti: «Piccole storie che hanno comportato molte ricerche. Ogni informazione, per quanto banale possa sembrare, è stata rigorosamente vagliata. Per Funerale di povero, ad esempio, ho speso diverse ore a cercare di scoprire che tipo d’uccello era quello che aveva cantato durante le esequie. Quando finalmente sono riuscita ad appurarlo, sono rimasta piuttosto delusa. Si trattava di un sabiá, un uccello comunissimo in Brasile e a cui i poeti hanno dedicato odi di dubbio gusto. Avrei preferito un uccello più originale e interessante. Ma, come giornalista, non posso prendermela con la realtà».
D'altronde questa spasmodica ricerca fa la differenza tra una cronaca a risoluzione standard e una in alta definizione. Tra un pastoncino d'agenzia e un reportage. Detto questo, dal momento che quello giornalistico è un campionato molto agonistico, si narra anche di cronisti diventati celebri perché avevano sempre dettagli più perfetti della concorrenza. Talvolta dettagli che si riferivano a persone senza cognome o ad altre situazioni difficilmente verificabili. (...) Trattare il lettore da adulto. Dargli tutti gli elementi, anche quando in contrasto tra loro, perché possa prima soppesare e poi deliberare. Resta che il viaggio del giornalismo di prima mano è tanto più impegnativo perché, oltre che fisico, è psicologico: «Un reportage non è qualcosa che si fa solo sulla strada, sporcandosi le scarpe, come tanti hanno detto. È un lavoro che esige un primo movimento radicale: attraversare la larga strada di se stessi. È questo forse l’atto più profondo e anche il più difficile. Non implica soltanto sudore, ma anche alterità». È una scelta radicale: «Comporta la necessità di disabitare se stessi per abitare l’altro, il mondo che costituisce l’altro. Siamo in grado di completare questo processo solo mediante l’ascolto, quello che si fa con tutti i sensi, che esplora il detto e il non detto, tanto ciò che suona e risuona quanto il silenzio. Tanto la fattura dei mobili quanto la scelta dei quadri alle pareti. Gli odori e le assenze. Le negazioni, i sussulti e le esitazioni. L’imperfezione delle unghie mangiucchiate, lo smalto scelto o dimenticato. Le crepe. E gli avanzi».
Dunque l'attacco ad alzo zero rispetto a quella che Julio Villanueva Chang aveva già denunciato come la scelta della «stampa notarile», ovvero bandire la scrittura in prima persona. Non è proprio il caso in un reportage perché per farlo brillare non si deve risparmiare niente. I fallimenti valgono quanto i successi, anzi talvolta di più. Eliane Brum scrive, infatti: «[…] raccontavo i dilemmi, le scelte, le scoperte e anche gli errori che avevo commesso nello scrivere quel reportage». Perché sbagliare è facile come respirare («Parlo del rischio più grande per un reporter, che è quello di sbagliare il tono»). Con la consapevolezza terribile – e piuttosto rara – che l'errore è tanto facile da compiere quanto difficile da correggere. O, per dirlo con Brum: «Per un errore giornalistico, non c’è riparazione possibile».
Quello che la giornalista brasiliana ha capito benissimo è una piccola ma ineludibile verità che in molti ancora faticano a mettere a fuoco. Ovvero la seguente: «Nessun reportage è più importante di una persona. Come giornalista, ho il dovere di spiegare con chiarezza e onestà a ogni persona – che mi onora con la fiducia di aprirmi la porta della sua vita – che quel racconto sarà letto da molti, che diventerà un documento. La gente sa che sarà pubblicato, ma non tutti sanno che cosa davvero significhi». E mentre è relativamente facile essere rispettosi con i potenti, o almeno con i nostri simili, lo è molto di meno fare altrettanto con gli ultimi degli ultimi. È proprio qui, nel sottomondo di cui si occupa in questa raccolta, che Brum eccelle. Tipo quando si caccia, da sola, in un rovello morale veramente spinoso: «Nell’attimo in cui i nostri sguardi si incontrarono nel silenzio del suo soggiorno, mi misi in una situazione impossibile: la mia vita si legava strettamente alla sua morte. Non avrei mai potuto desiderare che quel reportage finisse. E allo stesso tempo desideravo che terminasse il più presto possibile». È proprio osservando la miseria decorosa delle favelas che Brum deriva un sacco di metafore generali sulla vita. Non solo gli umani sviluppano, in quelle condizioni di indigenza estrema, una sensibilità speciale. Anche gli animali. Uno dei pezzi più straordinari della raccolta riguarda infatti le storie d'amore a quattro zampe: «Piti è un cane di razza pinscher, di quelli piccoletti, con gli occhi grandi, le orecchie aguzze e l’abbaio stridulo. Ci guardiamo con reciproco sospetto. Avevo intenzione di ignorarlo per il resto dei giorni che avrei passato nel quartiere. Ma ero una nuova arrivata e non avevo capito una questione cruciale. I cani, lì, sono umani. A 4 anni, che è già un’età non proprio acerba per un cane, Piti, pur desiderandolo, non è ancora riuscito a perdere la sua verginità. Lo avverto che deve stare lontano dal mio cuscino. Piti ringhia. È diventato un Canis erectus». Piti è un po' il gorilla di Brassens. Ma più straziante. Non possiamo che provare una pena infinita per lui. D'altronde tutta la comunità partecipa del suo dolore come solo i consorzi di esseri che hanno più familiarità con le difficoltà pratiche della vita riescono ancora a fare. Non è un caso che ad offrirsi di aiutarti a portare pacchi pesanti o a lasciare il posto in autobus a un anziano o una donna con bambini siano più spesso gli immigrati. Frequentano ancora la fatica, la riconoscono e per il possibile provano ad alleviarla negli altri. Noi, tendenzialmente, ce la siamo dimenticata. E quindi: «Il suo dramma commuove tutta Brasilândia. Hanno provato con una barboncina. Lei lo ha rifiutato. Gli hanno portato una chihuahua. Non ha sopportato il suo peso. Adesso stanno tentando con una randagia, ma per qualche insondabile motivo, lui fa cilecca. Piti nasconde avanzi di cibo sotto i cuscini del soggiorno, mangia pane benedetto che gli portano dalla chiesa. Se Freud fosse vivo, direbbe che è un cane isterico. La verità è che Piti soffre. E, quel che è peggio, soffre sotto gli occhi di tutti. Qualunque essere umano che passa davanti al cancello grida rivolgendosi a Tuca, la padrona di Piti: "Ancora niente?", e se ne va scuotendo la testa».
LA ZONA DE-IRONIZZATA
Esempi da un reportage sul porno di David Foster Wallace contenuto in “Considera l’aragosta”.
Epilogo
Il libro lo trovate, come si diceva una volta, nelle migliori librerie. Ma anche nelle peggiori perché Sellerio distribuisce molto bene. E anche online. Insomma, non avete scuse. Sarà, al peggio, un bel complemento di arredamento (guardate che figurone fa sul mio tavolino e come sta bene sul mio pavimento ☝️). Se vi interessa decostruire lo stile dei grandi. Se vi piace scrivere. Se avete un amico cui piace scrivere o un figlio che non schiferebbe una carriera nella scrittura, è il libro che fa per voi.