#84 Ultime notizie dal Giappone
La decrescita del marxista di Tokyo; le famiglie non euclideee di Kore-eda; l'albergo di Lost in translation; uno stranissimo caso di contrabbando; la lezione di Castellina alla sinistra italiana
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Prologo
Sono stato in Giappone due volte. La prima per piacere, ospite di una bravissima iamatologa che faceva il dottorato lì. La seconda per lavoro, per raccontare i primi telefonini che mandavano video e facevano un sacco di cose, intelligenti molto prima degli smartphones. Entrambe le volte ho pensato, ed era la prima volta che mi succedeva: qui non farei il corrispondente nemmeno pagato oro. Troppo alieno tutto. Troppo distanti io e loro. Non capivo niente di niente, non solo la lingua. Però erano tanti anni fa. Magari tornandoci. In ogni caso, la cosa migliore su questo sentimento di sgomento dell’occidentale in quel paese l’ha scritta Juan Villoro qui in spagnolo (Internazionale l’aveva tradotto ma non ce n’è traccia online).
LA DECRESCITA PER SALVARE IL PIANETA
Qualche tempo fa, nell’ultimo TedX che ho curato a Reggio Emilia, ho invitato Luciana Castellina che, a un certo punto, citava un filosofo giapponese, Kohei Saito, che aveva venduto mezzo milione di copie di un libro, Il capitale nell’antropocene, che usava Marx a fini ambientalistici. L’ho intervistato. Un estratto:
Ecco, da noi basta nominare quel termine per far scattare reazioni ridicolizzanti: «Ci voglion riportare al Medioevo!». È così?
«Ma no! Prendiamo l’esempio banale degli smartphone. Ne abbiamo bisogno, come di questo computer attraverso il quale stiamo parlando, ma serve davvero cambiare un iPhone ogni due anni? No. Basterebbe che Apple consentisse di aggiustarli quando si guastano. E sul “diritto alla riparazione” si stanno aprendo possibilità. Lo stesso vale per la fast fashion: negli ultimi vent’anni la quantità di capi prodotti è raddoppiata. Dimezzarla non significherebbe andare in giro nudi ma ristabilire un minimo di ragionevolezza. Lo stesso per i voli: la Francia ha appena proibito quelli brevi, facilmente sostituibili dai treni. Ecco, sono tutti punti di partenza».
Per Marx, però, il capitalismo o cresceva o moriva. Un punto di vista antitetico alla sua idea…
«Infatti nel quadro del capitalismo la non crescita è un problema, come la recessione che il mio Paese conosce da trent’anni, che porta povertà e austerità. Cambiando la cornice, invece, ci si rende conto che dobbiamo diventare molto più bravi nel dividere la torta economica. Esempi pratici? Ridurre la settimana lavorativa, un’idea che sembrava folle ancora un paio di anni fa e sta facendo enormi passi avanti in molti Paesi. Bandire i jet privati, ridurre le meganavi, le auto che consumano di più a vantaggio di piste ciclabili (Barcellona e Parigi hanno molto da insegnarci), il consumo di carne e così via. Abbandonare, insomma, l’idea che l’occupazione principale del nostro tempo libero, nel fine settimana, sia consumare in negozi sempre aperti. Meglio una passeggiata nel parco e riscoprire relazioni sociali riducendo quelle commerciali».
LE FAMIGLIE A GEOMETRIA VARIABILE DI KORE-EDA
Ho scoperto tardi Hirokazu Koreeda, grazie a Mauro Covacich che mi aveva invitato a una rassegna estiva a Vedere Air Dolls, un film su una affettuosa relazione con una bambola gonfiabile. Le bambole gonfiabili non mi hanno mai scaldato tanto e avevo declinato. Ma poi Mauro aveva insistito: “Ok, ma sono sicuro che lui ti piacerà…”. E infatti aveva ragione. Ho visto di seguito buona parte della sua produzione e lo reputo un genio (sì, etichetta impegnativa, lo so). Così quando è capitata l’occasione di intervistarlo in occasione dell’uscita della sua prima serie su Netflix l’ho fatto. Purtroppo via email. Purtroppo traducendo in automatico dal giapponese all’italiano (grazie papà di Junko Terao, che cura la migliore newsletter sull’Asia in circolazione). Purtroppo ricevendo risposte un po’ stitiche dal Maestro, che però resta un Maestro. L’intervista sul Venerdì di oggi. Qui un estratto:
In Un affare di famiglia, con cui ha vinto Cannes, una famiglia scalcinatissima di fatto adotta una bambina che trova per strada e le vuol bene come se fosse propria. In Little Sister, all’indomani del funerale del padre, una ragazzina viene accolta dalle tre sorellastre come se fossero sempre vissute insieme. Le parentele biologiche sono sopravvalutati?
«Sì, ne sono convinto. Il problema è che, sia legalmente che socialmente, il Giappone è ancora bloccato in una situazione in cui i non consanguinei e le unioni tra persone dello stesso sesso non sono trattati nello stesso modo dei rapporti tradizionali».
Personalmente mi sono innamorato del suo cinema con Father and son dove due famiglie scoprono, quando i rispettivi figli hanno ormai sei anni, che sono stati scambiati in culla. Qual è, per lei, l’ambiente ideale in cui i figli dovrebbero crescere?
«I bambini hanno bisogno di una persona o di un luogo, sia immaginari o reali, che costituiscano per loro un posto sicuro, un rifugio».
Anche in Broker la mamma che abbandona il bimbo poi fa di tutto per salvarlo. E quelli che volevano venderlo alla fine si redimono. Sembra che il rapporto degli adulti con l’infanzia sia per lei l’unica forza capace di salvare l’umanità: è così?
«Non so se è l’unica. Di certo non ha niente a che fare con quel che c’è scritto sulla carta d’identità. Per quanto mi riguarda la perdita di un produttore che amavo come un padre è diventata, in retrospettiva, un’opportunità di crescita. Ho anche cominciato a pensare di provare a essere una figura paterna per quelli che lavorano con me, anche se in modi diversi dal mio vero padre. Passare il testimone che ho ricevuto al prossimo “padre” o “madre” è un modo per crescere».
PERSO SULLE TRACCE DI LOST IN TRANSLATION
Nel secondo viaggio giapponese, correva il 2003, avevo approfittato per mettermi sulle tracce dell’hotel di Lost in translation. Non era stato facile. Il reportage per il Venerdì.
Tokyo è la capitale delle traduzioni impossibili. E quindi l'inevitabile
location del formidabile film di Sofia Coppola, Lost in translation che sta
per uscire nelle sale italiane. Cerco di spiegarmi meglio. Roppongi, per
dire, e' il quartiere di quelli che chiamano gentlemen club ma sono posti
dove, a giudicare dalle giarrettiere nelle locandine (e al molto che non
coprono), un gentiluomo non metterebbe mai piede. Dal suo incrocio
principale, se chiedete dell'Hotel Hyatt a 3-4 passanti, nessuno vi
risponde in inglese (la media ponderata è 1 su 5) ma tutti vi mettono
sulla strada a gesti e sorrisi: tutto dritto, si capisce, e ci si inchina
per contraccambiare. Ma quando finalmente si arriva alla Mori Tower, il
certificato edile di onnipotenza della ricchissima famiglia di
imprenditori, e la segnaletica a fumetti disegnata dal celebratissimo
Takeshi Murakami indica Grand Hyatt, è solo la prima di una lunga serie di
malintesi quella di credere di essere arrivati a destinazione.
"Can you tell me where is the place where the movie by Sofia Coppola has
been shot?" chiedo, tentando di scandire ogni parola, alla reception. Tutto
il personale e' vestito Armani, o qualcuno che gli assomiglia
sfacciatamente. Ma nonostante il completo di taglio occidentale il ragazzo
strabuzza gli occhi: "Movie here? There is no movie theather" e prende una
cartina del quartiere per mostrarmi dove sono le sale piu' vicine. Insisto
sullo "shot", "girato" e lo cambio anche con "fatto qui" e mimo con la mano
il gesto della cinepresa che gira. Il giovane chiama un superiore, che non
ne sa niente. L'imbarazzo cresce, palpabile, sulle loro facce come prima
era successo con i pedoni che non riuscivano a verbalizzare le indicazioni.
Gli spiego che il luogo dove i due protagonisti, Bob (Bill Murray) e
Charlotte (Scarlett Johansson), si incontrano e' un american bar dalle cui
immense vetrate si vede tutta la città. "Bar", ripeto e ne trovo uno sulla
mappa dei piani con il nome promettente di New York Grill. Procedo per
fatti miei e li' finalmente il caposala, un inglese, svela l'arcano: "Il
posto che lei cerca e' al Park Hyatt, a venti minuti da qui". Scendendo al
decimo piano mi affaccio in una sala da dove entra e esce un sacco di
gente. Un cameriere mi intercetta e chiede se può aiutare: "Cercavo il
posto dove hanno girato il film..." mi sfugge e l'anfitrione mi spiega che
sono feste di matrimonio, con tanto di karaoke, e girano anche i filmini,
si', con le videocamere digitali (ce ne sono almeno una decina in funzione,
tutti riprendono tutti, contenti) e anche lui fa il gesto della cinepresa.
Capisco perfettamente, adesso, lo sgomento di Bob, attore che in patria ha
iniziato la discesa, quando il regista giapponese dello spot che deve
girare a Tokyo cerca di spiegargli l'espressione giusta da assumere per
pubblicizzare una marca di whisky locale. L'uomo, con foga da samurai,
mitraglia un migliaio di parole che al termine l'interprete sintetizza con
un "piu' intenso". L'attore è basito, ma i 2 milioni di dollari di
compenso gli danno una riserva inesauribile di pazienza: "Ma come, ha
parlato per mezz'ora?" e decide che l'unico modo è di fare come gli viene.
"For relaxing times, it's Suntory time" sentenzia infine sornione, e
all'interlocutore non resta che arrendersi alla sua interpretazione.
Il resto di Lost in translation si svolge perlopiù dentro i sessanta e
passa piani dello spazio ermetico dell'Hyatt. Charlotte è la
venticinquenne moglie di un fotografo di moda che ha a fuoco tutto meno che
le ansie crescenti della ragazza. Lui è fuori tutto il giorno, lei guarda
la città dalle finestre della camera. Spesso piange e quasi mai riesce a
prender sonno. Come il cinquantacinquenne Bob, che ha la faccia di uno che
ha digerito un sacco di bocconi amari nella vita ma non riesce a buttar
giù il jet lag e vaga tra il bar e i corridoi di quell'enorme stazione
spaziale. I due si vedono e si sorridono, cominciano a cercarsi per farsi
compagnia. Lui intanto riceve nel cuore della notte i fax della moglie che
calcola male i fusi orari e lo mette al corrente delle opzioni possibili
per la moquette: "Meglio color prugna o amaranto?". Non sa cosa rispondere,
non gli sembra che faccia (piu') una gran differenza e le telefonate
intercontinentali con la compagna di una vita sono burocratici,sonnolenti,
penosi scambi di monosillabi intervallati da silenzi che il ritardo della
comunicazione acuisce. Marito e moglie parlano la stessa lingua ma non si
capiscono piu'. E a diecimila chilometri da casa Bob, lentamente,
impercettibilmente, entra in contatto con l'altra giovane ospite alienata
di quell'albergo cinque stelle. Un avvicinamento costellato di trovate
geniali e spassose, come quella dell'attempata geisha che mandano in camera
all'ex stella hollywoodiana e che vuole farlo felice al grido "strappami le
calze" ("rip my stockings") che malpronunciato si trasforma nell'ancora
piu' grottesco "lick my stockings", "lecca le mie calze".
Le celle extra-lusso dell'Hyatt - che uno zelante capo mi mostra con
straziante orgoglio nipponico - sono l'ideale contenitore sottovuoto delle
rispettive solitudini. Anche la scenografica piscina del 45esimo piano -
mai visto niente del genere - dalle cui finestre a vetri si vede la
metropoli e le sue lucine distanti, è illuminata da faretti che rendono il
suo azzurro non tanto di acqua ma di amnio, in cui i due naufraghi
ritrovano un surrogato di natura. "Non succede molto - sintetizza David
Denby sul New Yorker - ma il film crea un incantesimo". "Uno dei piu' bei
film dell'anno" dichiara il critico del San Francisco Chronicle e, se
sbaglia, è per difetto. "La relazione tra Bob e Charlotte - scrive il
recensore di Salon - è un momento di intima magnificenza. Non ho mai visto
niente del genere, in nessuna pellicola". E così è, un amore impossibile,
agrodolce e intraducible, che nasce e si compie nell'empireo terrestre e
tutt'attorno nuvoloso del Park Hyatt.
LO STRANO CASO DI DUE GIAPPONESI A CHIASSO
Nel 2009 era uscita questa storia, che sapeva di bufala. Però cinematografica. Un estratto:
Ci sono due giapponesi su un trenino italiano che vanno in Svizzera con una valigia piena di bond americani per 135 miliardi di dollari. Sembra una barzelletta sui tic nazionali, rischiava di diventare il colpo più colossale della storia del contrabbando. L’equivalente dell’1 per cento del Pil statunitense, comodamente nascosto in un doppiofondo. Il Tesoro Usa assicura che i titoli sono falsi come i soldi del Monopoli. La Procura di Como indaga e dice che è presto per chiudere questa stranissima partita. Soprattutto perché, se le obbligazioni fossero invece autentiche, una fetta di circa 50 miliardi di dollari rimarrebbe nel nostro Paese a titolo di multa. Che è come dire tre manovre finanziarie piovute dal cielo. Nell’attesa che la nebbia sul lago si diradi, sul web la sagra del complotto sforna ogni settimana nuove suggestioni che la stampa straniera diligentemente registra. Dietro gli spalloni nipponici, che nel frattempo si sono volatilizzati, spunta un giorno la mafia nostrana, il giorno dopo il governo di Tokyo che in segreto voleva disfarsi di un pezzo del debito Usa, l’ospite sempre più indesiderato delle banche centrali di tutto il mondo.
Mettiamo in fila i fatti, per cercare di capire se questa storia sta meglio nello scaffale di John Le Carrè o dalle parti del Nanny Loy di Pacco, doppio pacco e contropaccotto. Il 3 giugno, alla frontiera di Chiasso, i doganieri controllano il bagaglio di Mitsuyoshi Watanabe e Akihiko Yamaguchi, due giapponesi sui cinquant’anni che viaggiano su un treno regionale verso la Svizzera. Bingo! «Un’accurata verifica consentiva di rinvenire» si legge nel comunicato stampa congiunto con la Guardia di Finanza, «occultati in uno scomparto chiuso e separato da quello contenente gli indumenti personali, n. 249 bond della Federal Reserve americana, del valore nominale di 500 milioni ciascuno e 10 Bond Kennedy del valore nominale di 1 miliardo di dollari ciascuno, oltre a cospicua documentazione bancaria in originale». Questi bigliettoni, con la faccia del presidente sciupafemmine, sarebbero la pezzatura più grande mai prodotta.
Epilogo
Chiudiamo dove avevamo cominciato, con il talk della Castellina dove citava il filosofo giapponese tra le varie lezioni per la sinistra.