#184 In morte di un camionista in pensione
1) A 76 anni muore il primo giorno del nuovo lavoro 2) Il suicida ignoto di un Cpr torinese 3) L'azienda di Peter Thiel ingrassa con le guerre 4) Rappresaglia californiana contro il suo amico Musk
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“IN PROVA” A 76 ANNI
Una piccola storia che contiene tutto quel che c’è da dire su lavoro, redditi e pensioni in Italia. L’incipit:
Il 10 aprile Massimo Mirabelli aveva rimesso la sveglia alle cinque e mezza. La levataccia di una vita che evitava da dicembre, data dell’ultimo lavoro. Si era lavato la faccia e aveva preparato la moka, attento a non fare rumore. Non voleva svegliare la moglie, con la quale ad agosto avrebbe festeggiato le fatidiche nozze d’oro, e il figlio quarantanovenne che era tornato a stare da loro. È proprio lui, Federico, a raccontarcelo perché da quando si è separato ha il sonno leggero: «Ha chiuso la porta in modo più energico del solito, come per sincerarsi di averlo fatto bene». È dunque andato a una rimessa per prendere un “padroncino”, come qui chiamano non tanto gli autisti-imprenditori ma quei furgoni grandi una volta e mezzo un Ducato, con cui trasportare un carico di lenzuola e asciugamani puliti in alberghi di lusso a Montecatini, a un’oretta di strada da Livorno. È dunque arrivato al quattro stelle Ercolini e Savi e – praticamente in mezzo a un cantiere – ha trovato l’entrata secondaria che gli avevano indicato. Ha scaricato un carrello alto come lui. Forse ha provato ad alzarlo per i quattro scalini che conducevano a una porta troppo stretta, giura il figlio, perché il contenitore su ruote potesse passarci. Sta di fatto che si è accasciato a terra. Era il suo primo giorno “in prova” di questo nuovo lavoro primaverile nell’autunno della sua esistenza. È stato anche l’ultimo. Aveva settantasei anni.
Quando ho letto sul Tirreno questa notizia non ci potevo credere. “Settantasei anni” e “in prova” nella stessa frase sono, dovrebbero essere, un ossimoro vivente. Quale valore professionale deve dimostrare ancora uno che era nonno di quattro nipoti? Mi è venuto in mente La corta vida de José Antonio Gutierrez, un vecchio documentario di Heidi Specogna che raccontava i capitoli precedenti la fine precoce di una delle prime vittime della guerra in Iraq, un ragazzo guatemalteco arruolato nella speranza di ottenere la cittadinanza americana. La vita sconosciuta prima di una morte che, per un viluppo di circostanze, aveva conquistato una piccola notorietà. È con identico spirito che ho rintracciato il figlio – per paradosso finale assessore al lavoro del comune toscano – e l’ho convinto a parlare al Venerdì e ad aprirci l’album di famiglia.
Ci vediamo da Peperino, una pizzeria vicina al Municipio. L’assessore è senz’altro ancora sotto botta ma fatico comunque a immaginarlo estroverso. Suo nonno paterno vendeva fiori, soprattutto corone funebri, mentre sua nonna lavorava nei ristoranti. «Una famiglia normale, di idee comuniste. A lei, un paio di anni fa, ho consegnato la tessera che attesta cinquant’anni di iscrizione al circolo Colline-Coteto» ricorda Federico, che è anche segretario del Pd cittadino. Di estrazione medio-bassa. Casa in affitto a Coteto, quartiere pur sempre meno popolare dei vicini Corea o Shanghai. Perché tutto, in questa storia, griderà solo e soltanto “normalità”.
“QUANDO HANNO APERTO LA CELLA”. FINE PRECOCE DI UN RAGAZZO
Anni fa avevo scritto di un’altra morte non celebre che però diceva molto della società in cui viviamo. L’articolo iniziava così:
Torino. Mamadou Moussa Baldé viene selvaggiamente aggredito da tre italiani a Ventimiglia il 9 maggio. Non ha i documenti in regola e l’indomani lo trasferiscono nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino. Ne uscirà tredici giorni dopo senza vita per essersi impiccato con un lenzuolo nella cella di isolamento dove l’avevano trasferito per proteggere gli altri “trattenuti” da una psoriasi scambiata per scabbia. Arrivato in Italia nell’ottobre del 2016 era nato in Guinea, ventitré anni prima. Questa le versione stringatissima dei fatti. In un video su Sanremo News di un paio di anni fa si vede un bel ragazzo snello che dice che la pasta gli piace molto, la pizza no, è un calciatore e tifoso della Roma, musulmano, e il suo progetto è «studiare per trovare un buon lavoro e vivere bene». Dice anche di essere scappato dal suo Paese per problemi politici e che è contento di stare da noi perché ha finalmente avuto un «assaggio di come la vita può essere bella». Purtroppo le portate successive si riveleranno non all’altezza di quelle speranze. La sua è la storia di una metamorfosi rapidissima e incomprensibile: da vittima a colpevole a morto, in una struttura dello Stato, il tutto nell’arco di due settimane.
Il racconto del fratello
Il caso nasce da un video tremendo in cui tre uomini si avventano, colpendolo alla testa con un portacenere a colonna e un altro oggetto cilindrico, su Moussa che continuano a prendere a calci una volta a terra. Sono 42 secondi di violenza in purezza. I tre, identificati in meno di un giorno e ora indagati a piede libero per lesioni aggravate, sono Ignazio Amato, 28 anni, di Palmi, Francesco Cipri, 39 anni, e Giuseppe Martinello, 44 anni, entrambi originari della provincia di Agrigento. Uno di loro ha dichiarato che il pestaggio era nato dal tentativo di furto di un cellulare. Moussa al suo avvocato Gianluca Vitale ha negato, dicendo che stava chiedendo l’elemosina davanti a un supermercato, e l’assalto sarebbe stato del tutto immotivato.
Inutile dire che, ai fini della reazione barbarica, cambia poco, ma cerchiamo di capire che tipo era Moussa. Con l’aiuto di suo fratello maggiore Thierno Hamidou, architetto di 29 anni, che al telefono da Matoto, in Guinea – dove vive il resto della famiglia con i dodici figli che il padre, prima contabile e poi imprenditore edile, ha avuto da due diverse mogli – ci racconta: «Era un bravo ragazzo. Aveva fatto studi coranici fino a sedici anni, ma poi, per aiutare economicamente, aveva fatto l’elettricista per un paio di anni prima di decidere di partire per l’Europa per cercare migliori prospettive economiche». Trafila classica: via terra attraverso Mali e Algeria e da lì in barca fino in Sicilia da cui, poi, lo assegnano a una casa comunità di Imperia. È qui che fa il ciclo delle scuole medie, impara bene l’italiano e fa amicizia con Fofana Jibril, un ragazzo maliano che ora lavora e studia Scienze politiche all’Università e ricorda un «tipo molto intelligente, determinato, che nell’attesa di trovare un lavoro faceva volontariato in un’associazione che portava in piscina i disabili». Con Thierno, invece, Moussa parlava via Whatsapp o Messenger quando trovava un buon wifi: «Stava bene da voi, non si è mai sentito minacciato». A Imperia frequenta l’associazione La talpa e l’orologio di cui Guglielmo Mazzìa è membro storico: descrive un «ragazzo fiero, che partecipava alle manifestazioni antirazziste, magari un po’ impaziente». Sono tre anni d’altronde che aspetta che la commissione sulla domanda di asilo si pronunci. Esasperato decide di trasferirsi in Francia e se ne perdono i contatti. Chiede l’elemosina, vive per strada. Dopo un po’ viene espulso ma soprattutto manca l’appuntamento con la Commissione (non ha più un domicilio) e diventa clandestino. Una qualifica che, di ritorno in Italia, dirotta il suo tragitto di integrazione. A Ventimiglia dorme sotto un ponte in tende di propilene, la tipica plastica blu dell’Ikea, in un accampamento di fortuna. Vive di quel che gli danno fino all’incontro fatale del 9 maggio.
PALANTIR BRINDA ALLA GUERRA
L’ultima Ricchi e poveri:
La Nato ha comprato da Palantir il sistema di combattimento Maven Smart System. Si tratta di una piattaforma che gestirebbe una gran quantità di dati e di applicazioni di intelligenza artificiale per "meglio integrare le intelligence, il controllo dei cieli e velocizzare le decisioni". La procedura d'acquisto, tra le più celeri della storia dell'Alleanza atlantica, si è conclusa in sei mesi. Si ignora il costo finale ma a marzo scorso la Nato aveva pagato 480 milioni di dollari per un prototipo e a settembre altri 100. La piattaforma, a cui lavoravano dal 2017, è stata rilasciata per l'inizio dei bombardamenti su Gaza, già teatro dei sanguinosi errori di Lavender, un altro sistema IA notoriamente imperfetto nell'identificare bersagli da colpire. Elke Schwarz, docente alla Queen Mary University di Londra, ha detto a The Deep View che "non è chiaro perché i militari, che necessitano di sistemi assolutamente accurati, si affidino a tecnologie ancora così inaffidabili come l'IA". Il mercato non se l'è chiesto, tant'è che alla notizia le azioni di Palantir sono schizzate del 5 per cento. È utile ricordare che l'azienda appartiene a Peter Thiel, il più convinto dei tecnologi pro Trump. Uno, per dire, che non crede "che libertà e democrazia siano compatibili", anche a causa dell'espansione del suffragio alle donne e ai poveri. Speriamo che almeno i singoli stati europei, più attenti ai valori, ne stiano alla larga.
C'È DEL MARCIO A TESLAVILLE
L’ultima Galapagos:
Anche tra i marchi, come per le persone, è un attimo passare – arbasinianamente parlando – da "venerato maestro" a "solito stronzo". Succede vieppiù per Tesla. A Mill Valley, cittadina ricca e liberal mezz'ora a nord di San Francisco, possedere l'auto elettrica di Musk significava dichiarare il proprio ambientalismo progressista e appartenere a un certo gruppo. Quelle vetture, scrive il New York Times, venivano considerate la «Ferrari per il popolo che veste Patagonia». Non più. Ora sui loro parabrezza appaiono misteriosi bigliettini con scritto "Stop Elon" o "Dump your Tesla". Alcuni proprietari hanno messo adesivi con la scritta "Elon" barrata. Ci sono state anche proteste vicino alle concessionarie. Una delle autrici di questi pizzini è Debbie Coller, 75 anni, democratica ed ex membro del Partito Verde, che teme che le politiche di Musk possano mettere a rischio quel po' di welfare di cui ancora gode. Lei, che guida una Prius, pensa che i proprietari di Tesla dovrebbero vendere le loro auto. Come ha fatto la cantante Sheryl Crow, donando i proventi. Vikki Goldman, ad esempio, definisce Musk "un nazista" ma non vuole rimetterci interrompendo il leasing. Si è limitata ad appiccicare un adesivo per prendere le distanze. Terry Ross, avvocato in pensione, ha venduto la sua Model 3 perdendo una somma considerevole dopo aver visto il saluto nazi di Musk. Heather Barberie ha trovato un compromesso rimuovendo il logo "T" dalla sua auto. Intanto in Svezia, uno dei principali europei per Tesla, le vendite sono andate giù dell'80 per cento nell'ultimo anno. A occhio la discesa in campo di Elon non è stata un buon affare.
Epilogo
Oggi è la Giornata dell’Europa. Quell’Europa che ci piace pensare come porto sicuro di diritti e civiltà e che è stata scandalosamente zitta in questo anno e mezzo di sterminio a Gaza. La Ue non dice niente. In Germania mettono addirittura in galera i manifestanti proPal. E quindi una boccata d’ossigeno che un pezzetto di società civile italiana si sia inventato di dedicare questa giornata a Gaza. Gli hashtag sono un po’ lugubri ma la situazione non è da meno. Sperando, con tutte le forze, che non sia dunque #ultimogiornodigaza #gazalastday